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Geografia Delle Comunicazioni e Commercio Internazionale

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LO SCENARIO DI RIFERIMENTO: LA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA LEZIONE 1

CONCETTI CHIAVE:

 spazio: è l’oggetto di cui si occupa la geografia; la geografia si occupa del rapporto tra i
determinati fenomeni che osserviamo e lo spazio; a seconda del fenomeno abbiamo i diversi
ambiti della geografia. Di fenomeni di natura economica, come l’organizzazione della
produzione, le crisi globali, il commercio estero, se ne occupa la geografia economica; di
demografia e flussi migratori la geografia della popolazione. Nel tempo è cambiato il modo di
studiare ed interpretare lo spazio: in passato l’analisi geografica andava ad individuare la
localizzazione degli oggetti geografici nello spazio, attraverso latitudine e longitudine, e le
distanze tra gli oggetti. La geografia finiva per enumerare e catalogare tipologie molto
descrittive, era nozionistica e faceva riferimento ad uno spazio assoluto, che adesso non viene
considerato più così. Le carte geografiche, ad esempio, mostrano uno stesso oggetto realizzato
con due proiezioni diverse;
abbiamo dunque due
rappresentazioni diverse.
Con Peters i continenti
sono allungati lungo i
meridiani, mentre con
Mercatore i continenti
sono distesi lungo i
paralleli. Nessuna delle
due è sbagliata,
semplicemente sono
diverse. La proiezione geografica è uno strumento che ci permette di trasferire su un piano la
Terra, che è un solido di forma sferoide. Ogni proiezione è imperfetta, in quanto deforma o le
aree o le lunghezze. Perciò uno stesso fenomeno viene rappresentato in forma diversa. Lo
spazio non è, infine, ASSOLUTO.
Se parliamo di spazio, parliamo anche di distanza. Dunque, se introduciamo un altro concetto
di distanza, oltre a quella chilometrica,
ecco che l’idea di spazio assoluto è ancora
più irrealistica. Ha molto più senso di
parlare di distanza funzionale, ovvero
misurata non in chilometri, ma in termini
di tempi di percorrenza (tempo che un
individuo/merce impiega per andare da un
punto all’altro > distanza tempo) o di
distanza-costo (costo che comporta lo
spostamento di un individuo/merce da un
punto all’altro). L’innovazione tecnologica
nell’ambito di trasporti e comunicazioni ha ridotto la distanza funzionale: oggi i luoghi
sembrano più vicini perché possiamo spostarci più velocemente. La carta mostra come si sono
avvicinate le capitali europee con lo sviluppo dell’alta velocità ferroviaria (riduzione della
distanza funzionale tra 1993 e 2020). Questa carta si chiama “shrinking Europe”.
Si è prodotto dunque il fenomeno di convergenza spazio-temporale, ovvero si prodotto un
avvicinamento tra i diversi punti della superficie terrestre per effetto dello sviluppo dei
trasporti. Ciò caratterizza il fenomeno della globalizzazione. I luoghi sono più vicini sia per
tempo che per costo.
Oggi si studia lo spazio di relazioni, cioè le relazioni tra gli oggetti. Se da tutte le relazioni
isoliamo quelle economiche, otteniamo l’ambito di studio della geografia economica e
delimitiamo lo spazio geo-
economico.
 La geografia studia relazioni
orizzontali (o interazioni spaziali,
sono le relazioni che legano due
oggetti sulla superficie terrestre.
ES> flussi commerciali, scambi di
servizi, flussi di capitali,
informazioni, flussi migratori,
flussi turistici) e verticali (legano
l’oggetto rispetto al luogo in cui è
collocato, come risorse
ambientali, strutture,
conoscenze. ES> come l’uomo
prende le risorse ambientali, infrastrutture, sviluppo di risorse di tipo storico-culturale). Le
relazioni orizzontali e verticali danno vita al concetto di territorio (<> spazio).
L’organizzazione territoriale è l’assetto che un territorio assume in quel determinato momento
storico.
 ambiente: si parla di ambiente fisico, cioè le risorse fisico-naturali. L’ambiente è una parte del
territorio per la geografia, perché tra le risorse del territorio ci sono anche quelle ambientali.
La geografia ha sempre studiato il rapporto tra uomo e ambiente, ma in passato l’ambiente
veniva visto come l’elemento che condizionava l’organizzazione territoriale, le pratiche umane;
ora, invece, a causa dell’emergenza ambientale, studiamo la pressione che tutte le attività
umane esercitano sull’ambiente.
 scala geografica: il ragionamento geografico è trans-scalare, cioè uno stesso fenomeno viene
spesso studiato a scala geografica diversa. È il livello d’analisi che prendiamo come riferimento
(scala mondiale, nazionale, regionale, …a seconda del fenomeno usiamo la scala più adeguata,
anche se certi fenomeni necessitano più scale. ES> per il commercio internazionale si usa una
scala globale; per la delocalizzazione produttiva si può usare una scala globale, ma se vogliamo
vedere come viene impoverito il paese d’origine allora si usa una scala locale)
 tempo: bisogna sempre considerare il fattore tempo perché molto spesso una determinata
organizzazione territoriale deriva anche da ciò che è successo in passato.

GLI STRUMENTI DELLA GEOGRAFIA


 carta: nelle sue diverse modalità, è lo strumento per eccellenza; un’analisi geografica arriva
alla rappresentazione attraverso una carta
 statistica: il fenomeno del commercio estero lo si legge attraverso statistiche, dati statistici,
questionari o interviste a campioni

LA GLOBALIZZAZIONE
Fenomeno dell’annullamento spazio-tempo, che è collegato alla distanza funzionale e convergenza
spazio-temporale. Abbiamo l’impressione di poterci muovere velocemente in qualunque punto
dello spazio attraverso mezzi di comunicazioni più veloci e anche meno costosi, così anche le
merci. Più che
annullamento, è una
riduzione delle due
coordinate. Tuttavia,
dipende: scaricare un e-
book è immediato, il che
dà l’impressione di
annullamento, mentre
l’ordine di un libro
cartaceo impiega
comunque del tempo.
Altro aspetto è la
diffusione globale di
prodotti e di servizi
soprattutto da parte delle
grandi multinazionali: la
globalizzazione ha
prodotto un’omogenizzazione dei gusti e delle scelte dei consumatori. Vediamo un esempio della
Ferrero.
Valorizzando
un prodotto
del territorio di
Alba, ovvero la
nocciola
(relazione
verticale), la
Ferrero crea la
Nutella. Dagli
anni’60 si
sviluppa il
commercio
della Nutella in
tutto il mondo
(si sviluppano quindi relazioni orizzontali: serve la materia prima anche da altri paesi, come la
nocciola dalla Turchia, il cacao dal Ghana, ecc. Abbiamo centri di approvvigionamento, fabbriche e
centri logistici in tutto il mondo. L’ultimo passaggio dopo la conquista dei mercati e la creazione di
reti internazionali è l’acquisizione di altre imprese o segmenti di altre imprese che hanno
trasformato il gruppo di Alba in una grande multinazionale. Questa teoria di omogenizzazione non
riguarda solo i prodotti, ma anche i servizi, come Walmart, colosso della distribuzione organizzata.
Questi grandi centri sono, infatti, uguali dappertutto. Da qui la formazione dei “non luoghi”
dell’antropologo Marc Auge: sono luoghi uguali dappertutto, che non hanno una propria identità,
dove grande folle di persone si incrociano senza però venire a contatto, come Walmart, centri
commerciali, aeroporti, stazioni.
Di globalizzazione non se ne parla solo ora: di “villaggio globale” ne aveva già parlato il sociologo
canadese Marshall McLuhan nel 1964. Affermava che lo sviluppo dei media avrebbe determinato
un’omologazione dei gusti, dei prodotti, delle idee. Negli anni ’60 vedeva ciò nella televisione.
Nel 1983 parla di globalizzazione per primo l’economista americano T. Levitt, che vedeva la
globalizzazione come una progressiva integrazione dei mercati.
Entrambe sono oggi riduttive: la prima punta sempre al concetto di globalizzazione come
omologazione, mentre la seconda vede solo l’aspetto economico.
Più scientifica è la definizione del geografo Dematteis, che invita a leggere la globalizzazione come
un cambiamento di scala nell’organizzazione di molti fenomeni, che hanno non più una
dimensione locale, ma globale (ES> la produzione, il problema ambientale). Ciò comporta che
aumentino le interazioni tra soggetti che si trovano in diversi punti della superficie terrestre.
Bisogna vedere la globalizzazione come l’ampliamento, intensificazione e accelerazione tra
soggetti di diverse aree del pianeta, che coinvolge non solo la dimensione economica, ma anche
culturale, ambientale, ecc. Partendo da questa prospettiva, la globalizzazione non è più un fatto
contingente, dell’oggi, ma è l’esito di un percorso storico. Qui Dematteis si aggancia alle
interpretazioni di altri autori, che affermano l’esistenza di altre fasi di globalizzazione nel passato
nel momento in cui ci sono stati fenomeni particolarmente dirompenti che hanno aperto il sistema
di relazioni internazionali (soprattutto commerciali), come la scoperta dell’America (dall’America
provengono molti prodotti, come pomodori, mais).
Gli storici leggono la rivoluzione industriale dell’800 in Inghilterra come prima globalizzazione,
seguita da una seconda legata dalla diffusione dal modo di produzione fordista, dall’utilizzo di
petrolio, dalla rivoluzione dei trasporti e da tutte le innovazioni che hanno ridotto i tempi di
percorrenza (’10-‘70). La globalizzazione (’80-oggi) sarebbe una terza globalizzazione messa in
moto da molti fenomeni che accelerano le relazioni internazionali e determinano il cambiamento
di scala.
Cosa cambia tra queste fasi? Il coincidere di una serie di fenomeni che fanno esplodere il processo
di globalizzazione, quali:

 crescente importanza delle imprese multinazionali: il processo di multinazionalizzazione


(grande impresa che va all’estero) inizia già negli anni ‘60/70, ma cambia il numero delle
multinazionali, i Paesi di origine delle multinazionali, l’organizzazione della produzione che fa
capo alle grandi multinazionali (abbiamo una frammentazione del processo produttivo su scala
globale, dove i Paesi intervengono producendo singoli componenti)
 global value chain: organizzazione tipica della multinazionalizzazione; all’interno di queste
grandi catene del valore con proiezione internazionale scorre il commercio estero (commercio
non solo di prodotti finiti, ma anche di semilavorati, di componenti, che si scambiano in queste
grandi reti). In queste reti ci sono anche PMI.
 nuova governance globale e processi di liberalizzazione: nuovi attori (come WTO) compaiono
sulla scena globale e nuovi processi di liberalizzazione vengono messi in atto a partire dal
secondo dopo guerra (senza la riduzione dei dazi non esisterebbe e non funzionerebbe la
globalizzazione)
 innovazioni tecnologiche: sia nell’ambito dei trasporti (riduzione di tempo e costi) sia le
innovazioni partite dagli anni ’70 con le ICT (Information and Communication technologies),
come la microelettronica, la rete (permettono la comunicazione in tempo reale)
 cause di ordine geopolitico: con la caduta del muro di Berlino (1989) si è aperto in Europa uno
spazio commerciale e di produzione molto grande ad est (molte imprese dell’Europa
occidentale hanno spostato gli impianti produttivi ad est avvantaggiandosi di costi del lavoro
più bassi); l’apertura della Cina dopo la morte di Mao (1979) la Cina ha messo in atto la
“politica della porta aperta”, aprendo ad investitori esteri; parte così la corsa del gigante
asiatico. Inizialmente tutte le imprese andavano a produrre in Cina approfittando del
differenziale nel costo del lavoro. Ora la Cina non è più la fabbrica del mondo, bensì un gigante
che esercita un ruolo economico…..CHIEDI

La globalizzazione ha diverse dimensioni:

 economica: è la più importante ed evidente


 sapere scientifico e sapere tecnologico: determinate scoperte non si realizzano all’interno di
singoli paesi o imprese, ma derivano dalla cooperazione internazionale tra istituti scientifici e
di ricerca; molte di queste innovazioni circolano e sono a disposizione dei soggetti e delle
imprese
 ambientale: fenomeno che chiamiamo global change, ovvero il surriscaldamento globale, al
quale si attribuiscono molti fenomeni climatici attuali (siccità, inondazioni, perdita della
biodiversità, …); le politiche messe in atto vengono decise a scala globale
 modelli culturali: ci sono prodotti e servizi uguali dappertutto, modelli e pratiche culturali
diffuse in tutto il pianeta; c’è, comunque, un locale che irrompe nel globale, come nel mondo
del cibo
 geopolitica o fenomeni di carattere politico: sia in ambito economico che politico, le dimensioni
vengono prese sempre di più a livello sovralocale e sovranazionale
 flussi demografici: questo si nota nelle immigrazioni internazionali e nella forte crescita del
turismo su scala globale
 fenomeno urbano: si assiste allo sviluppo delle mega città (>10.000.000 abitanti), soprattutto
nei Paesi in via di sviluppo
GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA E COMMERCIO INTERNAZIONALE

Gli indicatori in senso quantitativo della globalizzazione economica sono:

 scambi internazionali di beni e servizi: ovvero il commercio internazionale, sono importazioni


ed esportazioni di beni e di servizi
 investimenti diretti esteri: sono flussi di investimenti effettuati da investitori in Paesi diversi
rispetto a quelli in cui ha sede l’attività, che sono finalizzati all’acquisizione di partecipazioni
durevoli (si definisce durevole quando l’investitore acquisisce almeno il 10% delle azioni
ordinarie dell’altra società o una quota analoga di diritti di voto nel caso in cui l’impresa non sia
costituita in forma societaria > l’investitore ha un interesse nella gestione dell’impresa che va
ad acquisire, non è un’operazione di carattere speculativo) in un’impresa estera, come processi
di fusione, acquisizione tra imprese (investimenti brownfields) o alla costituzione di una filiale
all’estero (investimenti greenfields)
 flussi finanziari: sono flussi di portafoglio, cioè movimenti di capitale di carattere finanziario e,
quindi, speculativi (compravendita di titoli azionari,
di obbligazioni, prestiti interbancari, acquisto di
valute)

COMMERCIO INTERNAZIONALE
Il commercio è sempre esistito, prima sotto forma di
baratto e poi monetaria. È un flusso che nel corso del
tempo è cresciuto, diffondendosi maggiormente dopo
l’inizio della rivoluzione industriale (1850), che apre le
relazioni commerciali su scala globale. I beni che
circolavano erano soprattutto prodotti minerari
(carbone), materie prime, beni finiti e anche beni di
piantagione (caffè, cotone, …). Il commercio
internazionale comincia a crescere
nel secondo dopoguerra (anni
‘60/70) fino ad arrivare agli anni
della globalizzazione.

Se analizziamo la prima parte degli


anni 2000, vediamo una crescita
continua, progressiva del
commercio mondiale dei beni con
picco nel 2008. Nel passaggio al
2009 c’è, però, una caduta dovuta
alla crisi economico-finanziaria
globale partita dagli USA e poi
diffusasi in tutto il mondo.
Assistiamo ad un nuovo periodo di
crescita non più esponenziale dal 2010, seguito da una nuova caduta negli anni 2015/16 ed una
successiva ripresa nel 2017. Vi è ancora un rallentamento nel 2019 ed una caduta nel 2020 causa
COVID. Dopo questo rallentamento, meno
drammatico rispetto alle previsioni, gli scambi si
riprendono (effetto rimbalzo).
Col tempo è cambiata non solo la dimensione
quantitativa delle esportazioni, ma anche la
composizione delle esportazioni in termini di
tipologia di prodotto. Nel secondo dopoguerra il
commercio estero era composto principalmente
da prodotti agricoli, per poi cedere il posto ai
prodotti manifatturieri. In questa categoria ci sono
i beni finiti, ma anche i semilavorati che oggi
circolano nelle grandi catene del valore.
Per quanto riguarda i servizi, notiamo che il volume dei beni e dei servizi è molto diverso
(beni>servizi) perché i servizi sono meno mobili, più radicati al territorio; la tendenza è, però,
nonostante la differenza quantitativa, lo stesso: crescita, crisi, caduta, ripresa e ancora caduta.
Nell’export dei servizi comprendiamo i trasporti, il turismo ed i servizi finanziari.
Quali sono le macroaree che
esportano di più? Per
scoprirlo bisogna analizzare le
quote di mercato sulle
esportazioni. Le esportazioni
sono dominate da UE, Asia
Orientale (Cina, Corea del
Sud, Taiwan, …) e America
settentrionale (USA, Canada).
Il commercio internazionale è
dominato da una triade (tre

principali poli esportatori). Col tempo, è cambiata l’importanza delle tre macroaree: dal 2003 è
diminuita in maniera consistente la
quota dell’UE e dell’America
settentrionale, mentre è aumentata
quella dell’Asia Orientale. Nei dati
vediamo lo spostamento dello
sviluppo economico dall’Occidete
all’Oriente.
Vediamo qui (diagramma dei flussi) la
direzione dei flussi, la geografia degli
scambi globali di beni. Lo spessore
della freccia denota il volume degli
scambi. Nelle ellissi (macroaree) ci
sono dei valori che simboleggiano gli
scambi interni. La figura esclude i flussi
di interscambio inferiori a 40 mld di dollari. I flussi di interscambio sono più densi tra la triade. Ci
sono scambi importanti anche tra Medio Oriente e Asia (petrolio).

I primi IDE sul finire dell’‘800 erano finalizzati


a reperire materie prime, soprattutto nei
Paesi coloniali. Gli IDE dal secondo
dopoguerra vengono fatti per entrare con i
propri prodotti in nuovi mercati (sostituisce le
esportazioni). Una forma di IDE molto diffuse
è la produzione all’estero per risparmiare sui
costi di produzione, in particolare sul costo del lavoro. A questa forma si riconduce la
delocalizzazione produttiva. Questa forma di investimento diretto all’estero non sostituisce le
esportazioni, ma incrementa il commercio estero, perché le parti del prodotto girano. L’IDE non
esaurisce tutte le forme di internazionalizzazione dell’impresa: si possono fare alleanze tra
imprese (che non comportano acquisizioni o fusioni). Il flusso degli investimenti diretti esteri è
estremamente piccolo e cresce solo dagli anni ’80, impennandosi poi nel periodo aureo della
globalizzazione. L’andamento degli IDE è ancora più discontinuo rispetto al commercio
internazionale, con cadute e recuperi.
Le macroaree che attirano più investimenti diretti esteri sono UE e Asia Orientale, mentre registra
il maggior numero di IDE in uscita l’Asia Orientale, superando UE e America Settentrionale.

La Cina ha cambiato il suo ruolo: non è più un Paese dove si va a produrre, ma investe nei Paesi
Occidentali: è dunque ormai un protagonista.
È in atto un rallentamento della
globalizzazione? Leggendo i dati (FDI,
Trade, GDP), la risposta è affermativa.
Ha rallentato anche il commercio
internazionale.

TRASPORTO INTERMODALE E INTERPORTI. CASO STUDIO: “IL QUADRANTE


EUROPA”
I trasporti sono uno dei fattori chiave che ha accompagnato la globalizzazione e che consente di
spiegare la forte crescita del commercio internazionale.
Il settore dei trasporti è molto importante in tutte le economie nazionali, ma anche a livello
globale, perché consente lo svolgimento di tutte le altre attività economiche. Tutti i settori vivono
di mobilità (industrie che movimentano materie prime, semilavorati, …; il turismo che vive di
spostamento di persone; le risorse di un luogo non raggiungibile sono inutili, potenziali).
I trasporti hanno una filiera complessa ed articolata: settori come quello industriale (costruzione
dei mezzi di trasporto, delle reti di trasporto, delle infrastrutture), la manutenzione, la conduzione,
l’attività di gestione delle infrastrutture, dei nodi, le attività di logistica e gestione dei flussi sono
coinvolti. La filiera dei trasporti attiva posti di lavoro, grandi investimenti pubblici e privati e il
settore trasporti e logistica ha un impatto importante sulla composizione del PIL nei Paesi avanzati
(8/10%).
Il fatto che i trasporti permettano lo sviluppo di tutte le attività economiche ci comunica che il
numero delle relazioni spaziali e territoriali sarà importante e complesso. Per leggere questo
rapporto tra trasporti e spazio e trasporti e territorio, utilizziamo come chiave di lettura quella
dell’innovazione tecnologica, perché c’è un forte nesso tra questa e i trasporti e tra questo e lo
sviluppo economico-territoriale. Ogni grande fase di sviluppo economico è accompagnata da
innovazioni nel settore dei trasporti e delle comunicazioni ed in ognuna di queste fasi si assiste al
cambiamento delle relazioni spaziali. La rivoluzione industriale è stata resa possibile anche grazie
la navigazione a vapore e la ferrovia. Assieme a queste innovazioni, ha determinato una prima
apertura delle relazioni commerciali e ha cambiato l’assetto dei territori. Nel secondo dopoguerra
lo sviluppo economico è stato accompagnato alla motorizzazione e vediamo il convergere di
innovazioni che modificano l’organizzazione dei trasporti (interviene qui l’intermodalità).
Ai trasporti fisici bisogna affiancare le telecomunicazioni (Information and Communication
Technologies), che hanno determinato ulteriori processi riguardanti l’effetto distanza. Il ruolo di
queste innovazioni è stato quello di intensificare le relazioni spaziali su scala globale. Queste
hanno contribuito alla convergenza spazio-temporale, ad avvicinare i luoghi rispetto alla distanza
funzionale. In certi casi c’è stato un vero e proprio annullamento della distanza
(telecomunicazioni).
All’intensificazione delle relazioni spaziali e alla convergenza spazio-temporale, contribuiscono
anche le politiche dei trasporti, che Paesi e organizzazioni sovranazionali mettono in atto per
promuovere lo sviluppo economico dei propri territori. Se non ci fossero queste scelte fatte da
parte dei Paesi di sviluppare determinate modalità di trasporto e di predisporre queste reti di
trasporto, l’innovazione servirebbe poco. In Europa le scelte vengono decise a livello comunitario
(UE, che da tempo ha sviluppato una politica dei trasporti con due obiettivi: quello di assicurare lo
sviluppo economico dei propri territori e quello di assicurare la coesione, cioè la riduzione dei
divari spaziali all’interno dello spazio europeo). La politica comunitaria costituisce una sorta di
“ombrello” per tutti i Paesi che devono adeguarsi alle indicazioni dell’UE nella predisposizione
delle proprie politiche dei trasporti su scala nazionale. Al di fuori dell’UE, tutti i Paesi stanno
sviluppando delle politiche dei trasporti per cercare di incentivare lo sviluppo economico.
Tutta questa convergenza spazio-temporale ha ridotto i divari spaziali su scala globale? Purtroppo,
no: ci sono ancora regioni che partecipano ancora marginalmente a questo processo di
convergenza spazio-temporale, così come ci sono Paesi che sono poco integrati nello spazio
commerciale globale e nelle reti di divisione del lavoro.
C’è un nesso molto forte tra sviluppo dei trasporti e sviluppo locale (città, regioni):
l’infrastrutturazione è la precondizione che consente lo sviluppo economico di regioni e città e, a
livello territoriale, c’è un rapporto così stretto tra trasporti e territorio che ormai sembra un
rapporto circolare. Lo sviluppo dei trasporti mette in moto anche i processi di industrializzazione,
ma nel momento in cui in un territorio l’industria comincia a svilupparsi si esprime un nuovo livello
di domanda, il che genera un nuovo sviluppo del sistema dei trasporti. Questo può facilitare una
nuova ondata di sviluppo economico.
I trasporti hanno anche un forte impatto ambientale, uno dei settori più impattanti dal punto di
vista ambientale. Soprattutto per quanto concerne le modalità ad alta emissione di CO2 (trasporto
stradale, …). Oggi le politiche sia a livello comunitario che locale hanno tra i loro obiettivi non solo
lo sviluppo del settore dei trasporti, ma anche il contenimento dell’impatto ambientale. Si cerca di
favorire le modalità a minore impatto ambientale e tutto ciò che ci offre la tecnologia (carburanti,
…) che può contribuire alla sostenibilità.
Gli obiettivi principali delle politiche comunitarie sono dunque
sviluppo economico, coesione, ma anche sostenibilità.
La geografia dei trasporti ha una propria terminologia: rete di
trasporti (si intende l’insieme degli elementi lineari, cioè i rami,
i collegamenti, ciò che mi rappresenta in maniera stilizzata le
vie di comunicazioni, e un insieme di nodi) , nodi (punti in cui
le vie di comunicazione si incrociano e che dunque gestiscono i
flussi di trasporto, come stazioni ferroviarie, porti, aeroporti;
per estensione, si parla anche di città, centri urbani, perché è
qui che i nodi si vanno a localizzare), assi (sono le vie di
comunicazioni più importanti a livello nazionale), corridoi o
direttrici (assi che hanno una dimensione continentale).
INNOVAZIONE E SVILUPPO DEI TRASPORTI
Parliamo di innovazioni che hanno aumentato la velocità e la capacità di carico dei mezzi. Dopo la
seconda metà del 2020, i mezzi di trasporto hanno visto aumentare la velocità e la capacità di
carico (come nel trasporto navale, dove si sono creati fenomeni di gigantismo navale). Questo ha
portato ad una diminuzione dei tempi di percorrenza e dei costi di percorrenza (effetto di
convergenza).
Quali sono le innovazioni tecnico-organizzative? Sono tutte le innovazioni che hanno aumentato
l’efficienza dei cicli di trasporto, in particolare l’intermodalità e la logistica.
L’intermodalità parte dalla nascita di una serie di sistemi standardizzati per confezionare le merci,
come il container, la cassa mobile, il semirimorchio (UTI, unità di trasporto intermodale). Il
container nasce nel 1956, ma si diffonde 10 anni dopo sulle rotte marittime. L’idea nasce da un
imprenditore americano che doveva trasferire le sue merci via mare. Inizialmente, questa è solo
un’invenzione: perché diventasse un’innovazione si è dovuto aspettare la fissazione di dimensioni
standard (da 20 piedi e da 40 piedi). La containerizzazione ha dato origine all’unitizzazione dei
carichi, cioè la possibilità di organizzare i carichi in pezzi “uguali” (in base alle dimensioni standard
fissate a livello internazionale dall’International Organization for Standardization). Seconda
conseguenza è la velocizzazione di operazioni di carico e scarico delle merci, perché si evita la fase
di deconfezionamento. Questo ha dato origine alla intermodalità, che è un’innovazione
organizzativa: non si considerano più i singoli sistemi di trasporto in maniera autonoma, ma si
utilizzano in modo integrato per consentirne l’uso ottimale, sfruttando le caratteristiche specifiche
di ciascun sistema di trasporto.
Il trasporto intermodale, per la Commissione Europea, è un trasporto mediante unità di carico
standardizzata che non viene aperta, se non a destinazione finale o per ispezioni doganali (no
freight handling). L’unità di carico deve essere trasferita da una modalità all’altra almeno una volta
tra l’origine e la destinazione. Le parole chiave per il trasporto intermodale sono standardizzazione
ed integrazione.
Il trasporto intermodale non è il trasporto multimodale, che, invece, utilizza più sistemi di
trasporto per trasferire la merce, ma non significa che utilizzi le UTI.
La Commissione Europea distingue anche trasporto intermodale e trasporto combinato, ovvero
specifica che nel trasporto combinato la tratta principale (>100km) deve avvenire via ferrovia o per
via d’acqua. Perciò, il trasporto combinato è sempre una forma multimodale. L’UE spinge molto
sul trasporto combinato per limitare lunghe tratte su strada (convenienza economica +
sostenibilità).
Il trasporto combinato può essere non accompagnato (viaggia solo l’unità di carico) o
accompagnato (viene caricato mezzo, carico e autista sul carro ferroviario; viene chiamato anche
autostrada viaggiante; ha molti vantaggi, come consentire di superare i passi di montagna, i
blocchi al traffico stradale in alcune fasce orarie e giorni, …).
La logistica è l’insieme delle attività che in un’azienda riguardano l’organizzazione, la gestione e il
controllo dei flussi di materiali e delle relative informazioni dalle origini presso i fornitori fino alla
consegna dei prodotti finiti ai clienti e il servizio post-vendita. Essendo i cicli produttivi
frammentati, questa funzione è sempre più importante per le aziende.
Per just-in time si intende un modo di organizzare la produzione, ma anche la logistica, per far sì
che un determinato componente arrivi nel momento in cui ne ho bisogno. Just-in time si
contrappone all’organizzazione della produzione tradizionale che vede un grande utilizzo del
magazzino. Si riducono quindi i costi di magazzino e di stoccaggio di beni.

GLI INTERPORTI
Tutta l’organizzazione di trasporti intermodali ha bisogno di centri organizzatori, di nodi, e
l’intermodalità ha cambiato molto l’organizzazione dei nodi di trasporto (come il porto).
L’intermodalità ha determinato la nascita di nodi completamente nuovi, come interporti, o porti
interni o secchi, perché sono porti terrestri. Gli interporti sono nati per iniziativa di soggetti locali
che hanno ritenuto necessario creare queste strutture per gestire i flussi intermodali.
Successivamente è intervenuta la legge che ha normato tutta la questione degli interporti
dandone una definizione (legge 240, 1990). Gli interporti sono un insieme di strutture di servizi
integrati e finalizzati allo scambio di merci tra le diverse modalità di trasporto, comunque
comprendenti uno scalo ferroviario idoneo a formare o ricevere treni completi e in collegamento
con porti, aeroporti e viabilità di grande comunicazione. L’interporto è un terminal intermodale,
ma è anche una “città delle merci”, un’infrastruttura in cui si concentrano servizi che riguardano il
trattamento delle merci.
Oggi gli interporti hanno anche nuove funzioni, come aumentare l’efficienza e la competitività
delle imprese che lavorano nel settore dei trasporti e della logistica, concentrandole in un’unica
struttura. Il numero di questi operatori è aumentato ed è essenziale per gestire questi cicli di
trasporto. Le imprese di trasporto ora sono situate nell’interporto. L’interporto diventa
un’economia esterna, un vantaggio che consente alle imprese di ridurre costi e tempi, vantaggio
che imprese lontane dalle infrastrutture non hanno.
Altra funzione che gli interporti dovrebbero avere è velocizzare i flussi e ridurre la congestione
verso i centri urbani: dovrebbero infatti gestire i flussi di traffico esterni, ma anche quelli che
vanno verso le città.
I servizi offerti dall’interporto sono:

 servizi alle merci: riguardano il trasporto intermodale, il trasferimento delle unità di carico da
una modalità all’altra, ma anche quelli di dogana, di immagazzinaggio, di trasformazione
(imballaggio, etichettature, controllo qualità)
 servizi ai mezzi: ampia gamma di servizi come riparazione, manutenzione di veicoli e unità di
carico, di parcheggio, di sorveglianza, …
 servizi alla persona: abbiamo centri congressi, hotel, servizi di ristorazione, servizi informatici e
telematici, banche, uffici postali, …
Di questi tre il core business dell’interporto è, però, il servizio alle merci: è su questi che si gioca la
competitività e l’efficienza di un interporto. Gli altri sono servizi di supporto, ma non strategici.
Gli interporti sono
localizzati vicino ai grandi
centri urbani, ma non
troppo: usufruiscono così
di tutte le infrastrutture di
trasporto avanzate che
troviamo normalmente
vicino ai centri urbani,
come assi autostradali,
grandi stazioni ferroviarie,
aeroporti; rimangono,
tuttavia, esterni, per non
interferire con i flussi di
traffico che entrano nelle
città. Il loro
posizionamento nelle aree
extraurbane è dato anche
dalla necessità di grandi
superfici.
Vediamo un addensamento di interporti nella parte orientale del nord Italia, dove abbiamo il
tessuto produttivo più dinamico.
Non ci sono interporti in Lombardia: perché? È dovuto a scelte della regione Lombardia che,
invece di sviluppare interporti, sviluppa molti terminal intermodali, ma che non hanno le
caratteristiche di legge per essere definiti interporti, come lo scalo ferroviario.
INTERPORTO QUADRANTE EUROPA DI VERONA
Questo interporto è molto
importante in Europa perché
localizzato all’incrocio di
corridoio scandinavo-
mediterraneo (dalla
Finlandia, attraversa il cuore
dell’Europa e Italia, e fino a
Malta) e corridoio
mediterraneo (dai confini
dell’Ucraina, attraversa
dall’est all’ovest l’Europa,
l’Italia settentrionale, Francia
e infine Spagna). In Europa
questi grandi corridoi fanno
parte delle strategie di
politica dei trasporti dell’UE.
Sono uno degli strumenti con
cui l’UE cerca di raggiungere
lo sviluppo economico dei
diversi Paesi e la coesione
(obiettivi principali +
sostenibilità ambientale).
Questi grandi corridoi (o TEN-
T, Trans-European Transport
Network) sono dei fasci di vie
di comunicazione strategiche
perché comprendono grandi
assi autostradali, ferroviari,
vie fluviali e non sono ancora
compiutamente realizzati,
non sono continui, ma pezzi
ancora da raccordare (ES: delle line di alta velocità ferroviaria in Italia sono ancora da completare).
L’interporto è situato nella
periferia della città di Verona.
Viene denominato quadrante
perché occupa un quadrilatero
delimitato dai principali assi di
comunicazione. Gli assi sono
quelli che si posizionano su
questi due corridoi: le due
autostrade del Brennero (ad
ovest), l’autostrada A4 (a sud) e
le ferrovie Milano-Venezia e del
Brennero. Oltre a questo, abbiamo tutto il
sistema della viabilità ordinaria: la strada
statale 11, le due complanari (tangenziali).
All’interno dell’interporto si scambiano
due modalità: il ferro e la gomma. Ciò non
esclude la terza modalità: sempre vicino
all’interporto c’è l’aeroporto., anche se
questa modalità non è ancora integrata.
Occupa un’area di 2.000.000 mq che, con
le successive espansioni, si prevede
andranno a 4.000.000.
Questa infrastruttura tratta tutte le tipologie di prodotti, essendo a servizio di un ampio bacino di
gravitazione. Ha, comunque, due specializzazioni prevalenti: la commercializzazione e
distribuzione di trasporti dell’ortofrutta (il refrigerato) e la commercializzazione e distribuzione di
auto. La destinazione principale dei traffici dell’interporto è il nord Europa. Il 70% del trasporto
ferroviario va verso la Germania (partner principale).
L’infrastruttura si colloca nell’ambito di un’azione di sviluppo di Verona che parte dal secondo
dopoguerra; è il terzo progetto del Consorzio Zai, ente che dal 1948 ha guidato l’industrializzazione
e sviluppo di Verona. Verona usciva distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
L’idea era di ricostruire la città, ma anche di intraprendere un percorso di sviluppo economico
basato sull’industrializzazione. Tra la fine dell’800 e il primo decennio del ‘900 (età giolittiana) si
avvia già un percorso di industrializzazione nel nostro Paese. A Verona, esclusa qualche impresa
già presente, il processo di sviluppo industriale non era mai decollato. È con questo obiettivo che si
costituisce questo consorzio di cui fanno parte il Comune, la Provincia e la Camera di Commercio
di Verona. La prima realizzazione del consorzio Zai è la zona agricolo-industriale di Verona (area Zai
storia o Zai 1). Nel corso degli anni ’50 si localizzano industrie di tutti i settori (meccanico,
calzature, …). Verso la fine degli ann
’70 si pensa ad un’altra area
industriale (la Zai 2) perché la Zai
storica era satura. Come terza
realizzazione si ha la creazione
dell’interporto (Consorzio Zai), area
destinata a scambi intermodali.
Al cuore dell’interporto abbiamo il
terminal intermodale ed il nodo
ferroviario, area in cui vengono accolti
e formati i treni intermodali. Tutto
l’interporto è raccordato. I terminal
sono passati da uno a tre negli anni. Il
terminal è terrestre, ma tutte si
assomigliano molto: sono sempre grandi piazzali dove vengono depositate le UTI, ci sono grandi
impianti di sollevamento, mezzi via terra.
Altra parte importante sono i magazzini generali, chiamati oggi terminal ungardener (sono
passati da pubblici a privati, e da normali magazzini a veri e propri terminal: vengono svolte tutte
le attività di imballaggio, etichettatura e anche la parte logistica). Le destinazioni qui sono sempre
la Germania, ma anche verso porti, come La Spezia o Rostock. Terzo elemento del sistema è l’area
della dogana, dove vengono effettuate tutte le pratiche doganali per le merci extracomunitarie.
C’è l’area degli spedizionieri e corrieri. Troviamo il centro logistico (Volkswagen Italia, distributore
del centro Europa; è una
presenza storica). Abbiamo i
servizi ai mezzi, un’area
dedicata agli autotrasportatori.
Il centro direzionale, sede del
Consorzio Zai, è il centro
amministrativo. Infine, abbiamo
tutti i servizi alla persona. C’è
anche il centro agro-alimentare,
una delle più grandi piattaforme
per la raccolta, distribuzione e
commercializzazione
all’ingrosso per prodotti
dell’ortofrutta.

TRASPORTO MARITTIMO E PORTI. CASO STUDIO: EUROPORT ROTTERDAM


Il trasporto marittimo è un altro segmento dei trasporti che è stato molto modificato dalla
containerizzazione e dall’intermodalità (i container si sono diffusi prima nel trasporto marittimo,
poi in quello terrestre).
Le strutture portuali sono tradizionali, ma si modificano fortemente con l’intermodalità.
Quando parliamo di evoluzione del trasporto
marittimo, ci si riferisce a innovazioni
tecnologiche ed organizzative: sono entrate una
serie di innovazioni tecnologiche che hanno
velocizzato le navi (restando comunque la più
lenta; rimane la modalità di trasporto più lenta
e, quindi, adeguata a merce che non deve
arrivare in tempi brevissimi, che è ingombrante
e non deperibile), che hanno aumentato le
dimensioni delle navi (gigantismo navale) per
realizzare economie di scala e per soddisfare le
richieste. La containerizzazione si è diffusa
prima via mare, prima su tratte brevi, e successivamente con la standardizzazione sulle tratte
oceaniche e poi nel mediterraneo. Anche nel caso del trasporto navale abbiamo due tipi di
combinato: trasporto RO-RO (Roll on-Roll off), soluzione usata per rotte di distanza medio-piccola,
anche perché non si possono portare i grandi carichi, e trasporto LO-LO (Lift on-Lift off), ovvero
solo il container viene trasferito sulla nave con le gru e viene usato per le grandi distanze.
Se oggi guardiamo cos’è il trasporto marittimo con la containerizzazione e l’intermodalità, non è
più un segmento di trasporto autonomo, ma l’anello di una catena globale che comprende la
tratta marittima e i terminali terrestri e le vie di comunicazione terrestri. Al centro della gestione
del trasporto marittimo, ci sono le industrie della navigazione, che hanno come obiettivo di
ottimizzare i costi (viaggiare a pieno carico) e ridurre il numero di scali. La modalità tradizionale
vuole che la nave container parte
da un porto e arriva a
destinazione, i container vengono
caricati su mezzi terrestri e,
attraverso le vie di comunicazione
terrestri che collegano il porto e
l’entroterra, arrivano sui mercati
finali. I porti che svolgono questo
traffico si chiamano porti gateway.
Nel trasporto marittimo si sono
diffuse delle modalità
organizzative nuove, come quella
del transhipping. Per
l’ottimizzazione dei costi e la
riduzione degli scali, si è diffuso il
transhipping, una nuova modalità
di trasporto, che richiama una modalità di gestione dei flussi ampiamente diffuso nel trasporto
aereo (modello hub&spoke). Un ciclo di questo tipo di trasporto avviene partendo da una nave
madre che arriva ad un porto (hub, semplice nodo di interscambio), dove i container vengono
scaricati e caricati su altre navi portacontainer più piccole (navi feeder), che vanno verso porti più
piccoli (porti regionali). Questa modalità consente alla nave di viaggiare a pieno carico e di
effettuare il minor numero di scali possibili e, contemporaneamente, di servire più destinazioni,
che non hanno un volume di traffico tale per giustificare l’attracco diretto di una nave madre. I
porti si sono specializzati: abbiamo porti gateway e porti hub (per esserlo, almeno il 50% delle sue
attività deve essere destinata al trasbordo).
L’industria della navigazione è un settore fortemente concentrato perché a scala globale abbiamo
circa una sessantina di operatori, ma di fatto sono le prime dieci compagnie che controllano il
mercato, la capacità di navi container e i flussi. Queste compagnie operano attraverso tre grandi
alleanze (per unire risorse e strategie in comune): la 2M, la Ocean e la The Alliance.
Questi sono i principali operatori nell’ambito
dell’industria della navigazione. Il primo operatore
è da anni quello danese, come capacità di navi
container e di gestire i flussi, seguito da MSC
(oltre che crociere, ha anche un ramo di trasporto
merci molto importante). La Cosco sta
velocemente scalando le classifiche. Queste compagnie si muovono con strategie molto pesanti
che vanno ad investire anche il trasporto via terra: attraverso una politica di acquisizioni, vanno a
controllare anche i settori del trasporto terrestre (logistica e distribuzione dei container via terra):
stanno diventando da compagnie marittime a grandi operatori della logistica, che gestiscono
l’intero ciclo del trasporto. Succede che vanno, dunque, a competere con quelli che sono gli
operatori del trasporto terrestre. È un mercato particolare, con forti elementi di competitività. È
un settore in movimento nel post-pandemia perché la progressiva riduzione dei costi di trasporto
in quest’ultimo anno di pandemia non vale più: i noli marittimi (noleggio dei container) e il costo di
trasporto su lunghe distanze è aumentato notevolmente (+ chiusura di alcuni porti causa
lockdown).
Oltre che a trasformare il trasporto marittimo, la containerizzazione e l’intermodalità hanno
trasformato i porti dal punto di vista strutturale (organizzazione degli spazi) e funzionale (attività
svolte dai porti). Grandi porti container sono composti da grandi piazzali dove vengono stoccati
grandi container, in periferia o al posto dei vecchi magazzini o moli. Tutte le città portuali, come
Genova, si sono riconvertite a nuove funzioni.
Con l’intermodalità è cambiato anche il rapporto economico del porto con la città, sempre stato
molto stretto: l’economia delle città era basata sul porto, che offriva anche molti posti di lavoro;
con l’intermodalità avviene una dissociazione tra porto e città (molti posti di lavoro non sono più
necessari o disponibili, come persone impiegate nel deconfezionamento). Il legame tra porto e
città si è spezzato anche perché negli stessi anni molti porti sono andati contro fenomeni di
deindustrializzazione (metà degli anni ‘70): vanno in crisi molte industri che costituivano la base
del porto (la petrolchimica, le industrie chimiche), che portano a perdita di posti di lavoro, spazi
dismessi e un rapporto tra porto e città spezzato. L’intermodalità ha determinato una forte
competitività tra i porti, perché questi, tendendo a fare le stesse cose, entrano in competizione;
possiamo vedere, comunque, una differenziazione, tra porti gateway (porti soprattutto del nord
Europa con ampio retroterra, con funzione di porte d’accesso) e di transhipping (soprattutto porti
del Mediterraneo, con funzione di snodo). La maggior parte dei porti sono misti: hanno entrambe
le funzioni di gateway e transhipping, oltre ad aver mantenuto il trattamento di merci senza
imballaggio. La containerizzazione ha determinato un ampliamento degli hinterland di riferimento
dei grandi porti, anche perché il trasporto intermodale funziona grazie alle vie di comunicazione
terrestre: i porti prevalentemente gateway hanno un sistema di collegamento terrestre che li
rende efficienti e che, in molti casi, ha ampliato la loro area di gravitazione (l’area di gravitazione
del porto di Rotterdam comprende l’Europa centrale e arriva fino alla Pianura Padana). Ultimo
fattore riguardante la trasformazione dei porti è la privatizzazione delle gestioni, ovvero un
disimpegno del settore pubblico nelle attività dei porti.
I principali fronti portuali in Europa sono il Northern
Range (nord Europa), dove si affacciano i porti dalla foce
dell’Elba alla foce della Senna; abbiamo grandi porti,
come quello di Rotterdam. Questi sono
prevalentemente porti gateway, che forniscono funzioni
di servizio verso il retroterra. Hanno grandi volumi di
traffico, sono molto efficienti dal punto di vista delle
tempistiche e dei servizi che offrono. Sono porti ben
integrati con le vie di comunicazione terrestre, che
prevedono tutte le modalità (autostradale, vie di
comunicazione fluviali, linee ferroviarie). Al Northern
Range si contrappone il Southern Range, che è il fronte
che riguarda i porti che si affacciano sulla sponda nord del Mediterraneo (Italia, Francia, Spagna).
Qui troviamo diversi porti hub; il volume di traffico è minore ed il sistema delle comunicazioni
terrestri è meno efficiente. Se venisse completato il corridoio mediterraneo, allora questo
potrebbe migliorare. A giustificazione della minor efficienza dei porti del Mediterraneo bisogna
dire che spesso sono costretti da vincoli fisici (montagne nel retroterra, a differenza di pianure nei
porti dell’Europa del Nord).
I principali porti container italiani sono Genova,
Gioia Tauro (porto di transhipment puro) e La
Spezia. Gli altri porti rimangono gateway
nonostante siano posizionati in questo arco
portuale.
Fino agli anni ’90 la gestione dei porti era pubblica
e all’Autorità portuale competevano tutte le
attività del porto (attività di governance, di
svolgimento dei servizi). Con la legge n. 84 del
1994 viene riformata la materia portuale e viene
fatta una separazione tra funzioni di indirizzo,
controllo e amministrazione, che spettano all’autorità portuale, e servizi economici, che vengono
dati in concessione a privati. All’epoca vengono istituite 24 autorità portuali. Con l’ultima
normativa viene poi mantenuta la separazione di funzioni, però le autorità portuali diventano
Autorità di Sistema portuale: viene fatta una razionalizzazione, accorpando più autorità portuali.
La regola è accorpare un porto grande ed uno o più porti piccoli vicini, pe ridurre il numero di
questi soggetti. Prima del 2016, esistevano le Autorità portuali di Venezia e Chioggia, mentre poi
viene creata un’unica Autorità, l’Autorità di Sistema portuale dell’Adriatico Settentrionale, a cui
fanno capo sia Venezia che Chioggia. Lo stesso capita con Trieste e Monfalcone, ecc. è
un’operazione di razionalizzazione che consente di evitare sprechi e permette una maggiore
economicità nelle gestioni.
Per quanto riguarda le funzioni, l’Autorità di Sistema portuale ha mantenuto funzione di controllo,
di indirizzo e di amministrazione; in particolare, si occupa di pianificazione territoriale (deve
redigere il piano regolatore portuale, che serve a individuare le funzioni e specializzazioni di
ciascuna area). L’Autorità portuale deve svolgere le funzioni di gestione del porto e deve anche
predisporre le strategie di sviluppo del proprio porto. Si occupa della manutenzione ordinaria e
straordinaria delle varie aree del porto (la affida in concessione attraverso bando pubblico) e deve
gestire l’affidamento dei servizi privati (che svolgono altre imprese). I servizi economici, o attività
core, del porto includono tutte le imprese che svolgono materialmente le operazioni portuali (di
carico, di scarico, di immagazzinaggio, …). Ci sono poi gli operatori della logistica,
dell’autotrasporto, gli spedizionieri, le imprese ferroviarie, gli operatori dei servizi tecnico-nautici e
imprese che svolgono servizi di interesse generale.
Si nota che il traffico dei container è
monopolizzato dalla triade (Europa,
Stati Uniti e Sud-Est asiatico).
Mentre il traffico tra Europa e USA
raddoppia, notiamo un incremento
molto maggiore tra Europa e Asia e
USA e Asia. Sono aumentati
moltissimo anche il commercio
all’interno del continente asiatico.

Guardando la classifica del 2004,


vediamo ancora porti dei vecchi
Paesi industrializzati (Rotterdam e
Amburgo in Europa). Nel 2019,
invece, vediamo tutti i maggiori porti
(tranne Dubai) situati in Asia e, tutti
tranne Singapore e Busan, sono
cinesi.
Il baricentro dello sviluppo
economico si è spostato verso
Oriente.

IL PORTO DI ROTTERDAM
Il Porto di Rotterdam è il principale porto
europeo, sebbene abbia perso posizioni
rispetto ai giganti asiatici. È situato nell’Olanda
meridionale, in una zona geografica
particolare: Rotterdam si trova sulle principali
diramazioni del bacino del Reno (fiume Mosa,
Nuova Mosa e Rotte).
È un porto molto trafficato, di origine antica e
che ha avuto uno sviluppo graduale nel corso
del tempo con successive addizioni che lo
hanno portato a diventare l’Europorto (ha una
lunghezza di 40 km). Questo porto nasce nel 1440, ma, per circa 400 anni, rimane nel suo nucleo
originario nonostante il commercio fosse aumentato. Si sviluppano attività portuali a Rotterdam
perché la posizione geografica è ottima come punto di scambio e trasbordo tra Inghilterra e area
germanica. Le attività del porto, già nel ‘600, crescono molto: qui si insedia la compagnia olandese
delle Indie Orientali. Il primo impulso allo sviluppo fisico e strutturale del porto è la rivoluzione
industriale, quando, quindi, aumenta il flusso di prodotti che Inghilterra e il mondo tedesco si
scambiano. Nella seconda metà dell’’800 viene costruito un importante nuovo canale (New
Waterway), che permette l’accesso anche a grandi navi dal Mar del Nord. Un ulteriore sviluppo si
ha tra gli anni ’20 e ’40 con l’addizione di nuovi moli portuali. Durante la Seconda Guerra mondiale
il porto viene completamente distrutto e poi ricostruito e negli anni ’50 vengono predisposte
nuove aree per il deposito dei carburanti (il porto di Rotterdam si specializza nel traffico dei
carburanti, soprattutto del petrolio). Negli anni ’60 cresce molto in estensione il porto (anni che
coincidono con il periodo di forte crescita di tutti i Paesi occidentali). Arriva negli anni ’70 la
containerizzazione e
l’intermodalità;
perciò, c’è l’esigenza
di nuovi terminali per
accogliere le navi e i
container. I traffici
crescono e si rende
dunque necessaria un
nuovo terminal
destinato ai container
e la cui costruzione
non è ancora
terminata. Sono
strutture artificiali
costruite nel mare.
Il porto di Rotterdam ha 80 km di banchine, 8 terminal container, 7 terminal RO-RO, 20 terminal
per le rinfuse liquide e un retroterra che, grazie all’efficiente collegamento con i mezzi terrestri,
comprende grande parte dell’Europa centrale e raggiunge la Pianura Padana. Per i collegamenti
via mare, il porto di Rotterdam ha rapporti co tutto il mondo. La competitività di un porto gateway
si gioca sui servizi offerti, sulla velocità delle operazioni e sull’efficienza della rete di trasporto
terrestre.

TRASPORTO AEREO E AEROPORTI


Il trasporto aereo è un tipo di trasporto recente, almeno nel suo sviluppo su grande scala. Ci sono
stati sviluppi precedenti la Seconda Guerra mondiale già negli anni ’30 per uso commerciale, ma
fino alla WW2 gli aerei venivano usati principalmente per scopi militari. È solo nel secondo dopo
guerra, quando migliorano le tecnologie relative all’aviazione e aumentano le dimensioni degli
aerei, che si inizia ad usare gli aerei per trasporto civile e di merci. I flussi di trasporto aereo di
passeggeri aumentano dagli anni ’60, ma è nel periodo della globalizzazione che abbiamo
un’impennata. Fino alla liberalizzazione, il trasporto aereo rimane molto costoso per le persone e
per le merci è limitato a merci di alto valore, poco ingombranti, altamente deperibili o che devono
arrivare sul mercato in tempi brevi. Il trasporto aereo è, quindi, molto veloce, ma anche molto
costoso: il suo utilizzo commerciale è ancora limitato. Ci sono comunque delle eccezioni: Paesi che
hanno grandi estensioni territoriali e sono poco densamente abitati o Paesi la cui popolazione è
concentrata in alcune aree e rimangono ampi spazi aperti; in questo caso è più economico far
viaggiare persone e merci via aerea che non predisporre un sistema di infrastrutture terrestri, per
cui non c’è una domanda tale per giustificarne l’economicità.
Il trasporto aereo è molto
sensibili a fenomeni esterni,
come crisi, attentati terroristici.
Ci sono periodi in cui vediamo
un rallentamento della crescita
dei ricavi e dello sviluppo del
trasporto aereo, come nella oil
crisis, la prima guerra del Golfo,
la crisi finanziaria asiatica, l’11
settembre, la pandemia di SARS
1 e la crisi finanziaria del 2008.
A causa della pandemia
COVID, vediamo a
marzo/aprile 2020 un crollo
dei flussi di trasporto aereo,
sia traffico passeggeri che
traffico cargo. La caduta del
traffico passeggeri è verticale,
mentre la caduta del traffico
cargo è meno netta e si
riprende più velocemente.

Verso gli anni ’80 i flussi aerei crescono: questo è dovuto alla deregulation, ovvero alla
liberalizzazione del settore che avviene in momenti diversi negli USA e nell’UE, ma che porta
all’abbattimento delle barriere alla concorrenza e alla eliminazione dei controlli sulle tariffe. Questi
due processi hanno tempistiche e motivazioni diverse: negli USA il processo di liberalizzaizone
comincia nel 1978 col Deregulation Act e parte per la spinta di molte piccole compagnie che
volevano entrare nel mercato del trasporto aereo (non c’era, come in Europa, il monopolio delle
compagnie di bandiera, ma era comunque un mercato controllato da un’agenzia federale e che
esercitava un’azione di controllo sull’ingresso di nuovi operatori nel mercato del trasporto aereo e
sulle tariffe; inizialmente, ha portato alla presenza di molte compagnie aeree nel settore, seguita
dalla razionalizzazione e da processi di fusione e accorpamento, così da stabilizzare il numore delle
compagnie); in Europa, invece, la liberalizzazione inizia nel 1988 e avviene in più tappe con tre
pacchetti di iniziative comunitarie, che tra il 1988 e il 1993 liberalizzano il settore anche in Europa
(in Europa ogni Paese aveva la propria compagnia di bandiera che gestiva e monopolizzava tutto il
settore del trasporto aereo e, per quanto riguardava gli scambi tra Paesi europei, valevano gli
accordi bilaterali tra le ripsettive compagnie di bandiera); il processo di liberalizzazione in Europa è
parte di quel processo di integrazione economica, dei mercati, di coesione che l’UE intendeva
raggiungere. L’integrazione dei mercati passa anche per la liberalizzazione del trasporto aereo e la
liberalizzazione dei trasporti delle persone (il processo della liberalizzazione del trasporto aereo
non è stato completato finché tutti i Paesi europei hanno adottato l’Accordo di Schengen,
permettendo il libero movimento di persone e merci nello spazio europeo). Le compagnie di
bandiera sono state nella maggior parte dei casi privatizzate.
La deregulation ha permesso a più operatori privati di entrare nel mercato e, eliminando i controlli
sulle tariffe, queste si sono abbassate, rendendo più economico viaggiare in aereo. Aumentando il
numero di compagnie aeree, è aumentato anche il numero di voli e opzioni per i passeggeri. Ciò ha
avuto una serie di ricadute economiche su molti settori, come il turismo internazionale (cresciuto
molto negli ultimi decenni perché viaggiare anche sulle lunghe distanze non è più proibitivo).
Tra le compagnie entrate nel mercato, ce ne sono di particolari. Ci sono compagnie private che
offrono un servizio tradizionale, ma ci sono anche le compagnie low-cost (con prezzi più bassi e
con modelli di business particolari). I modelli di business delle compagnie low-cost riguardano
l’eliminazione del catering a bordo, la standardizzazione dei velivoli (queste compagnie fanno
grandi acquisti di velivoli dello stesso tipo o di pochissime tipologie; riduce i costi di
addestramento del personale, che diventa intercambiabile, la necessità di scorte e consente di
ottenere sconti consistenti nel momento in cui fanno questi grandi acquisti), la massimizzazione
del carico attraverso l’aumento della densità dei posti (che occupano meno spazio), i collegamenti
point-to-point (non operano su scali hub, ma su collegamenti diretti e su scali secondari, dove i
costi sono minori e gli aeroporti offrono condizioni vantaggiose), la biglietteria online e la riduzione
dei tempi morti (i tempi che passano tra decollo e atterraggio) in aeroporto. Oggi non offrono più
solo il trasporto, ma queste compagnie sono diventate anche degli operatori turistici. Queste
compagnie hanno decretato lo sviluppo e il successo di aeroporti minori, come l’Aeroporto di
Bergamo, diventato base della Ryanair. Le diverse società aeroportuali hanno, infatti, spesso fatto
a gara per attrarre le compagnie low-cost, offrendo condizioni particolarmente vantaggiose. Ci
sono anche svantaggi: ci sono un tasso di mortalità alto, condizioni di lavoro scarse.
La liberalizzazione non solo ha aperto il mercato e permesso di ridurre il prezzo dei biglietti, ma ha
anche cambiato i modelli organizzativi, introducendo il sistema hub&spoke. Principalmente sono
due i modelli organizzativi degli
aeroporti: point-to-point (collegamenti
diretti tra aeroporti; per collegare un 8
aeroporti, servono 28 rotte. Nella
realtà questa situazione è irrealizzabile
perché si apre una rotta solo se c’è una
domanda e se c’è una convenienza
economica, questi 8 punti non
potranno mai essere collegati a due a
due. Questo sistema predominava
prima della deregulation: venivano
messe in atto solo le rotte principali e
molto spesso gli aerei viaggiavano semivuoti; questo sistema è adottato ancora dalle low-cost e si
regge perché le compagnie low-cost hanno altre strategie per abbattere costi e prezzi e perché con
questi prezzi bassi hanno un’ampia domanda per i loro servizi) e hub&spoke (abbiamo un
aeroporto centrale che fa da hub, cioè punto di snodo, di raccolta di flussi di trasporto che
arrivano da aeroporti più piccoli, cioè gli spoke; in questi hub si concentra l’operatività di alcune
compagnie, che gestiscono questo sistema e sono soprattutto le grandi major. I passeggeri
arrivano dagli aeroporti minori in uno hub, vengono caricati su aerei più grandi e poi l’aereo parte
per la sua destinazione. Così, le compagnie aeree realizzano economie di scala portando più
passeggerei verso la stessa destinazione e, come conseguenza, riducono i costi ed i prezzi del
biglietto. I flussi dagli spoke devono arrivare nella stessa fascia oraria, così da minimizzare la sosta
dei passeggeri in aeroporto; i vettori principali, per gestire meglio il sistema, si assicurano il
controllo dei vettori regionali attraverso alleanze. Questo sistema di coincidenze ha forti picchi, è
un traffico ad onde).
Gli aeroporti hub devono avere dei requisiti: l’accessibilità (deve essere al centro di reti di
trasporto aereo), la localizzazione presso grandi aree metropolitane (oltre al traffico dagli spoke,
una grande area metropolitana genera un traffico aggiuntivo, una domanda di trasporto
aggiuntiva, che deriva anche dalle infrastrutture in cui è collocata l’area metropolitana), capacità di
sostenere picchi di traffico aereo (devono essere efficienti nella gestione delle operazioni di
decollo e atterraggio), devono essere aerostazioni concepite per agevolare il trasferimento dei
passeggeri da un aereo all’altro (il passaggio aumenta i tempi di percorrenza, perciò il passeggero
ha un vantaggio sul costo, ma non sulle tempistiche).
Abbiamo visto gli aeroporti come nodi che attivano delle relazioni orizzontali, ma gli aeroporti,
come le industrie, producono un impatto economico sul territorio in cui sono localizzate. Gli
impatti sono 4:

 diretto: è un impatto che vediamo in termini di occupazione, aumento del reddito dell’aerea,
del valore aggiunto ed è l’impatto generato dalle attività connesse all’aeroporto (attività inside,
svolte all’interno dell’aeroporto); le principali aree di occupazione dell’aeroporto sono quella
delle compagnie aeree, del ground handling, della gestione della società aeroportuale, del
controllo del traffico aereo, le attività commerciali (negozi, ristorazione), le attività di sicurezza
e controllo dei passeggeri, la dogana e i servizi dell’immigrazione, del ground transport
(movimentazione dei passeggeri) e le attività di manutenzioni
 indiretto: riguarda attività che si collocano a valle della filiera della gestione aeroportuale e
dell’aviazione (non sono presenti nell’aeroporto, ma godono della vicinanza dell’aeroporto);
sono, ad esempio, imprese che forniscono carburante, gli alberghi, le agenzie viaggi
 indotto: è l’impatto generato dal reddito prodotto dagli occupati del settore avio sugli altri
settori economici (meccanismo dei cicli di spesa)
 catalitico (o dinamico): si riferisce ai vantaggi che un’economia locale deriva dalla vicinanza con
un aeroporto; soprattutto il commercio estero (sia direttamente che indirettamente),
localizzazione di imprese (soprattutto multinazionali; si vengono a creare delle airport cities,
piccole agglomerazioni della città dove si localizzano attività economiche che utilizzano
l’aeroporto per i loro affari) e il turismo (l’aeroporto dà l’opportunità ad una località do
effettuare un servizio tradizionale come quello turistico in una nuova modalità, avendo nuovi
flussi turistici; senza la presenza di scali aeroportuali, molti centri non possono sviluppare
un’attività di tipo turistico nonostante le loro risorse, come le Canarie). La dimensione dello
scalo e della connettività ad altri scali influenza l’impatto.
Vediamo come aeroporti
principali quelli dei Paesi di
vecchia industrializzazione, a
differenza di quello che
succede in altri tipi di
trasporto, ma l’aeroporto di
Pechino passa al secondo
posto e compare l’aeroporto
di Shangai. Ci si può,
dunque, attendere in futuro
una scalata delle classifiche
degli aeroporti cinesi.

TRAFFICO CARGO (MERCI)


Viene definito cargo tutto ciò che non è trasporto passeggeri e bagagli. Nell’ambito del trasporto
delle merci il trasporto aereo è il segmento più recente. È stato utilizzato occasionalmente dopo la
Prima Guerra mondiale, uno sviluppo embrionale dopo la Seconda Guerra mondiale, ma ancora
negli anni ’50 questa modalità di trasporto per le merci era residuale.
Per lo sviluppo di questo trasporto è stato necessario lo sviluppo di aerei a fusoliera larga (che
potevano ospitare carichi consistenti nella loro pancia) e anche la crescita della domanda di questo
trasporto, avvenuto quando nella metà degli anni ’70 si è diffusa la domanda di beni del settore
dell’elettronica (componenti che sono beni di alto valore, ma non hanno un grande valore). Il
periodo in cui il trasporto aereo cresce coincide con gli anni dello sviluppo della globalizzazione
(anni ’80-90). Questo non è solo legato alla deregulation, ma anche alle grandi catene del valore
(centri produttivi e di distribuzione sono lontani tra loro, perciò il trasporto aereo assicura più
velocità ed entra così nelle logiche produttive della globalizzazione). Altri motivi che spiegano la
crescita del trasporto aereo sono il just in time (le componenti devono arrivare in un momento
preciso in azienda) e l’e-commerce (con tempi di consegna veloci).
Il trasporto aereo rimane comunque la modalità di trasporto merci più costosa: abbiamo un
utilizzo non generalizzato, ma che riguarda solo certi beni (poco ingombranti, di alto valore, che
devono arrivare velocemente sul mercato, deperibili; alcuni esempi sono frutta, verdura, fiori, capi
di alta moda, prodotti tecnologici, gioielli, prodotti della microelettronica, farmaci, pezzi di
ricambio, animali vivi, colli espresso).
Il trasporto aereo è integrato nell’intermodalità? Parzialmente, perché si utilizza meno a causa
dell’alto costo. Si sta, tuttavia, integrando sempre di più, soprattutto nella modalità del trasporto
avio-camionato (aria-terra). In questo caso la standardizzazione avviene attraverso air-container
più piccoli rispetto a quelli che viaggiano via nave o strada, o pallet aerei, pianali di alluminio dove
viene deposta la merce e che vengono legati con reti. Anche in questo caso non abbiamo
deconfenzionamento e confezionamento.
Lo sviluppo del traffico cargo cambia gli aeroporti, che devono sviluppare un’area specifica
destinata a quest’uso di traffico. Si sviluppa dunque aree specifiche vicine, ma separate dalle aree
passeggeri. Abbiamo degli hangar, magazzini, sistema di piste e collegamenti con la viabilità.
I principali operatori del trasporto aereo sono: i combination carrier (compagnie aeree che
trasportano le merci nelle stive degli aerei passeggeri o di aerei combinati), i all cargo carrier
(compagnie aeree che operano solo nel settore del traffico delle merci; operano con voli
scheduled o charter, a noleggio) e gli integrator (operatori che svolgono un servizio porta a porta,
cioè prendono in carico la merce da quando esce dalla fabbrica fino alla destinazione finale; si
servono, dunque, di una flotta che include sia mezzi aerei che di terra).
Il traffico cargo, proprio negli anni ’90, è cresciuto mediamente del 7% annuo. Dal 1999 al 2018
abbiamo una crescita del
3,4% (più bassa, ma
sempre importante).
Questi flussi sono molto
sensibili a fenomeni
esterni molto impattanti,
come crisi geoeconomiche
(crisi economico-
finanziaria mondiale del
2008), sociopolitiche
(Guerra del Golfo, 9/11).
Il traffico cargo, a
differenza del traffico
passeggeri, dopo la crisi
covid ha recuperato più
velocemente (già a fine 2020).
Le principali rotte del traffico
cargo riguardano i Paesi della
triade (Asia, USA ed Europa).
ICT E COMMERCIO ELETTRONICO
Quando parliamo di comunicazioni, parliamo del trasferimento a distanza dell’informazione sotto
le sue varie forme (suoni, immagini, dati, denaro).
ICT sta per “Information and Communication Technologies”; sono nate con la rivoluzione della
microelettronica e con l’applicazione dell’informatica nella comunicazione a distanza (terza
rivoluzione industriale).
Le ICT non riguardano solo settori economici (e-commerce), ma tutti gli ambiti della società.
Le ICT hanno un ruolo in tutta la produzione della globalizzazione: non sarebbe possibile
mantenere i collegamenti tra unità produttive e centri di distribuzione localizzati in tutto il mondo
se non ci fossero queste tecnologie che permettono la comunicazione e la trasmissione di dati in
tempo reale. L’organizzazione delle global value chains è stata resa possibile dall’abbassamento
dei costi di trasporto e dall’intermodalità, ma anche dalle ICT.
I trasporti stessi dipendono dalle ICT, in quanto il trasporto intermodale grazie a reti di computer
che lo governano (trasporti e logistica esistono grazie alle ICT). Agiscono anche nel settore
dell’economia e della finanza e nello scambio di denaro. Ancora l’ambiente: queste nuove
tecnologie consentono il monitoraggio dei dati ambientali per poi implementare modelli
d’intervento. Sono essenziali anche nei settori della ricerca, della salute, della cultura,
dell’istruzione e del turismo. Non esiste ambito che non sia interessato dalla diffusione delle ICT.
A livello spaziale la diffusione di queste nuove tecnologie ha intensificato la convergenza spazio-
temporale (è stata ridotta, ma anche eliminata, ad esempio con l’acquisto di un ebook, la distanza
funzionale). Ci sono, tuttavia, Paesi che non sono perfettamente integrati in questa convergenza: si
è diffuso il concetto di digital divide (o divario digitale, è una diseguaglianza nelle possibilità di
accesso alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ovvero ICT, da parte di
imprese, individui, famiglie localizzate nelle varie parti del pianeta). Il digital divide ha connotazioni
diverse a seconda della scala presa in riferimento: la scala privilegiata è la scala globale (il digital
divide viene messo in evidenza come un aspetto delle diseguaglianze di Paesi ricchi e poveri), ma,
scendendo di scala, possiamo sempre definire altri digital divide tra aree più sviluppate e connesse
ed altre zone meno fornite nello stesso Paese (aree montane in Italia sprovviste di connessione
Internet); in Cina abbiamo zone a forte sviluppo economico ben fornite opposte ad aree meno
urbanizzate e mal fornite; ci sono digital divide che non riguardano gli aspetti spaziali, ma la
società (digital divide dal punto di vista generazionale: le generazioni più giovani sono più pratiche
rispetto alla popolazione più anziana); altro digital divide contrappone grande (le tecnologie
digitali sono entrate velocemente e in maniera più massiccia) e piccola impresa (entrate
lentamente). Il digital divide è, dunque, un concetto dinamico.
Il digital divide si misura attraverso tre indicatori:

 indice di teledensità: è dato dal rapporto tra abbonamenti telefonici (telefonia fissa e mobile) e
abitanti
 utilizzo di pc: la vendita di computer ogni 100 abitanti calibrata sulla vita media di questi
prodotti
 diffusione di internet: il numero di utenti internet ogni 100 abitanti
IL COMMERCIO ELETTRONICO
Per OCSE e UNCTAD, il commercio elettronico (e-commerce) è la vendita o l’acquisto di beni e
servizi, effettuati da un’impresa, un individuo, un’amministrazione o qualsiasi altra entità pubblica
o privata, attraverso l’impiego di una rete Internet.
Per la Commissione Europea, il commercio elettronico è lo svolgimento di attività commerciali e di
transazioni per via elettronica comprendenti attività diverse quali la commercializzazione di beni e
servizi per via elettronica, la distribuzione online di contenuti digitali, l’effettuazione per via
elettronica di operazioni finanziarie in borsa, gli appalti pubblici per via elettronica e altre
procedure di tipo transattivo della Pubblica Amministrazione.
Il commercio elettronico nasce con Internet (attorno alla metà degli anni ‘90). Esistevano anche
prima, tuttavia, forme di commercio elettronico, almeno per le imprese. Negli anni ’70 esisteva il
sistema EDI (electronic data interchange), considerato precursore del commercio elettronico:
consisteva in reti di comunicazione chiuse che permettevano il trasferimento di dati e documenti
in formato elettronico (fatture, ordini di acquisto) da un’impresa all’altra; questi dati viaggiavano
attraverso le linee telefoniche e consentiva di evitare l’uso del cartaceo, e quindi di fax e posta,
con notevole riduzione dei costi. Ci sono comunque dei limiti: le imprese, per utilizzare questo tipo
di commercio elettronico, dovevano dotarsi di questi sistemi dedicati di comunicazione (questo
poteva essere fatto da grandi imprese, ma non era conveniente per piccole imprese che non
avevano una grande mole di documenti da trasmettere); inoltre, rispetto ad Internet oggi, era un
sistema rigido, ovvero era poco interattivo (si poteva solo accettare o rifiutare).
Tutto ciò cambia con l’arrivo di Internet nella metà degli anni ’90 e con la sua diffusione presso
strati sempre più ampi di popolazione. L’e-commerce ha, nel primo momento, uno sviluppo lento
e legato ad alcune tipologie di prodotti (Amazon è nato come libreria digitale). Nella prima metà
degli anni 2000 si è esteso a più prodotti ed anche ai servizi (viaggi, biglietti per eventi e trasporti).
Ciò che ha dato un impulso allo sviluppo del commercio elettronico è stata nella prima decade dei
2000 lo sviluppo del web 2.0 (dal web statico al web dinamico in cui l’utente interagisce con la
rete: può valutare, dare giudizi, ecc). Il consumatore è attivo. Si diffondono poi una serie di
dispositivi mobili (cellulare, tablet), che hanno aumentato la possibilità di accesso alla rete ed in
qualsiasi luogo in cui ci sia connessione Internet.
Possiamo delineare diverse tipologie di e-commerce a seconda del criterio che scegliamo.
Se come criterio abbiamo la tipologia di bene o servizio che è oggetto di transazione, possiamo
distinguere tra e-commerce indiretto (quando la transazione avviene per via digitale, attraverso
Internet, ma il bene viene recapitato attraverso i mezzi tradizionali, i comuni mezzi di trasporto;
questo capita con l’acquisto di abbigliamento online) ed e-commerce diretto (sia la transazione
che l’acquisizione del bene avvengono attraverso Internet, non c’è niente di materiale; questo
avviene con l’acquisto di beni digitali, come un ebook, e di servizi, come un biglietto aereo).
Se invece andiamo a vedere le tipologie di attori che intervengono nelle transazioni, possiamo
avere 4 tipologie:

 il B2B (Business-to-Business; qui gli attori sono esclusivamente le imprese, che mettono in atto
relazioni commerciali tra loro; è questa la forma di commercio elettronico che genera il volume
più grande di affari; i rapporti possono riguardare un produttore ed un grossista, un grossista
ed un venditore al dettaglio o tra imprese che si collocano in segmenti diversi di queste grandi
catene di produzione; nel ricorrere a questo sistema il vantaggio riguarda l’elevato numero di
acquirenti e fornitori, l’entrata più rapida in nuovi mercati e aiuta le piccole imprese che
riescono ad entrare in maniera più agevole e rapida nelle grandi catene del valore nazionali o
globali)
 il B2C (Business-to-Consumer; gli attori sono le imprese che vendono e i consumatori che
acquistano; è una modalità diffusasi col procedere della diffusione di Internet; il vantaggio è
reciproco, in quanto l’impresa ha accesso ad un mercato globale di consumatori e il
consumatore ha accesso ad un’offerta di prodotti mondiale e non ha nei suoi acquisti limiti di
tempo e spazio)
 il C2C (Consumer-to-Consumer; gli attori sono solo i consumatori che agiscono da venditori e
da consumatori; è una forma di e-commerce sviluppata grazie alla nascita e alla diffusione di
siti di aste online, come Ebay. Dopo questo, sono nati altri siti dove si vendono prodotti usati o
si scambiano servizi, come Airbnb)
 il B2G (Business-to-Government; riguarda le pubbliche amministrazioni; gli attori sono sempre
le imprese nel ruolo di fornitori presso la pubblica amministrazione, che acquista i servizi, ma
possono esserlo anche i cittadini).
C’è anche una quinta tipologia, che non è ancora stata codificata dall’ United Nations Conference
on Trade and Development, la quale presenta aspetti particolare: è la C2B (Consumer-to-Business),
cioè abbiamo sempre consumatori e imprese come attori. In questo caso, però, cambia la
direzione del rapporto: qui il consumatore crea valore per l’azienda attraverso tre modalità:

 i consumatori offrono prodotti o servizi alle aziende in cambio di un compenso monetario o in


prodotti o sconti (un privato ha un sito/blog sul quale mette un link che rimanda ad
un’azienda/marketplace che vende prodotti o servizi online; si favorisce l’acquisto di prodotti
di quell’azienda/marketplace)
 i consumatori stabiliscono quanto sono disposti a pagare per un determinato prodotto/servizio
(esistono siti in cui le aziende propongono i loro prodotti/servizi ed è il consumatore che fa il
prezzo; ES > una compagnia aerea si ritrova con dei biglietti invenduti, li propongono, però
sono i consumatori a decidere eventualmente a che prezzo prendere i biglietti; poi l’azienda
decide se accettare o meno)
 i consumatori creano valore attraverso recensioni, proposte di modifica dei prodotti/servizi,
richiesta di nuovi prodotti/servizi, suggerimenti per i packaging dei prodotti attraverso blog o
social (possono spingere l’acquisto di prodotti/servizi; è più una forma di promozione)

Con l’e-commerce nascono imprese completamente nuove e anche quelle tradizionali si


trasformano.
I marketplace sono aziende commerciali che operano solo online e che fanno da intermediari tra
chi vende e chi acquista; il marketplace non acquista solitamente la proprietà della merce, ma si
limita a fare da intermediario nella transazione; questi marketplace operano sia nell’ambito dei
beni che dei servizi. Bisogna distinguere tra marketplace orizzontali (trattano tutte le tipologie di
prodotto, come Amazon) e verticali (specializzati in una tipologia di prodotto o servizio, come
Zalando o Booking).
Ci sono, comunque, una serie di marketplace che operano unicamente nel B2B (sono specializzati
per gli operatori economici, come Techpilot, marketplace specializzato nella vendita di
componenti industriali su misura per l’industria manifatturiera).
Altri esempi di imprese nuove nate nell’ambito dell’e-commerce sono i siti di vendite private (flash
sales): sono aziende commerciali che operano solo online e che aprono delle campagne di vendita
che durano pochi giorni, riservate agli iscritti ai siti e propongono una selezione di prodotti noti a
prezzi scontatissimi. Un esempio è il Vepee. Questa situazione si verifica soprattutto per i prodotti
di lusso, di moda.
L’e-commerce ha trasformato anche le aziende/i retailer tradizionali, che hanno ormai sviluppato
(ad esempio nella grande distribuzione organizzata, ma anche nei normali supermercati) un canale
di vendita online accanto a quella tradizionale del negozio fisico. Abbiamo l’esempio di Walmart,
Tesco, che si sono adeguate all’e-commerce. Vengono chiamati click-and-mortar: è una via di
mezzo; infatti, abbiamo sia vendita online sia vendita nel negozio fisico.
Alcune industrie manifatturiere sono passate totalmente alla vendita online, mentre altre hanno
sempre il doppio canale.

AMAZON
Il caso di Amazon è significativo perché ci mostra l’evoluzione di un marketplace molto sviluppato.
È stato il primo operatore in questo segmento, ha conquistato una posizione di dominanza ed è
cambiato nel corso del tempo (era nato come libreria online negli anni ’90, passando poi a CD,
videogiochi, film e ad oggi ogni tipologia di prodotto).
Amazon ha un doppio canale: è sia marketplace (fa esclusivamente da intermediario tra venditori
che propongono i loro prodotti sul sito e consumatori che acquistano) che retailer (Amazon
acquista la proprietà della merce e poi la rivende sul suo sito; è Amazon, dunque, a fissare il prezzo
finale per il cliente ed anche a gestire il rapporto diretto col cliente).
Vediamo che Amazon ha, dunque, una doppia anima.
Nel corso di questi ultimi anni ha sviluppato anche una serie di servizi: il servizio prime
(abbonamento che consente di avere spedizioni molto rapide; con questo abbonamento si ha
accesso a contenuti digitali, quali ebook, musica, serie tv, film, andando così in competizione con
altri operatori che trattano esclusivamente questo tipo di prodotto, come Spotify, Netflix; c’è
anche la possibilità di conservare le foto nel cloud, si ha l’assistente virtuale Alexa, ci sono
iniziative promozionali, come il Prime Day). Amazon è entrato nel segmento del negozio fisico in
due modi: nel 2017 acquisendo la catena dei supermercati Whole Foods Market (supermercati che
trattano soprattutto prodotti biologici, freschi) e dal 2018 ha creato gli Amazon Go dei piccoli
supermercati in grandi aree metropolitane dove l’acquisto è automatizzato (non ci sono casse, file:
il cliente scansiona l’app scaricata e dopodiché può fare i suoi acquisti perché il negozio è dotato di
un sistema di telecamere, di sensori sugli scaffali e di un sistema di intelligenza artificiale che rileva
i movimenti e scarica il costo dei prodotti dal conto del cliente). Questi supermercati, che vendono
una gamma limitata di prodotti, esistono solo in grandi città americane, come Seattle, New York,
Chicago. Questa esperienza doveva arrivare anche in Europa, ma si è accavallato agli anni di
pandemia. Il motivo della creazione di questi negozi è quello di monitorare i comportamenti
d’acquisto.
Amazon ha rivoluzionato la logistica, che è molto impattante, entrando negli assetti del territorio.
Chi vende si può appoggiare alla logistica di Amazon: piccole imprese con reti non troppo
sviluppate possono appoggiarsi a questa.
Il centro smistamento di Verona serve il nord-est italiano, non è grandissimo (8.500 mq) ed è stata
riqualificata un’area dismessa occupata da un calzaturificio chiuso dagli anni ’60 nella zona
industriale di Verona.
A Verona (Nogarole Rocca) c’è anche un centro logistico di Zalando; occupa un’area di 130.000 mq
ed è stato costruito ex novo. Serve il mercato italiano ed altri del sud dell’Europa, come Spagna e
Francia.
Questi centri sono molto contestati dal punto di vista delle condizioni di lavoro. Da un lato i sindaci
sono sempre molto attratti dalla creazione di questi centri che offrono posti di lavoro, ma dall’altro
la qualità dei posti di lavoro è pessima. I dipendenti non sono, infatti, sempre assunti dal
marketplace, ma da intermediari, che sono spesso le cooperative: queste offrono condizioni di
lavoro svantaggiose (Zalando non aveva assunto nessuno direttamente, ma c’era un intermediario,
ovvero un operatore logistico tedesco, che assumeva i lavoratori proponendo contratti di lavoro
svantaggiosi di due-tre mesi; questo non favorisce lo sviluppo locale).
Il commercio elettronico sta oscurando il commercio tradizionale. Questo ha una serie di
conseguenze territoriali che fanno sparire attività fondamentali su cui vivono le città. Sono ondate
id innovazioni che cambiano l’assetto di un sistema economico e gli assetti spaziali, ma ci sono
forme di adeguamento e nascono nuove idee.
Il segmento più importante dell’e-commerce è il
B2B (88,5% di vendite), e non il B2C (11,5%).

In Europa si vede la crescita di acquisti nel commercio elettronico. Il dato totale mostra una
continua crescita del
commercio elettronico. La
fascia di età più avanzata è
quella che pratica meno questo
tipo di acquisto, mentre nelle
fasce dei giovani vediamo un
utilizzo sempre maggiore e gli
utenti Internet più giovani
supera quella dei 25/50 anni.
L’e-commerce ha avuto un
balzo nel periodo della
pandemia, essendo tutti in
casa. Anche chi non era pratico,
è stato spinto all’utilizzo dell’e-
commerce. A livello globale c’è
stato un aumento del 58% e in
Italia l’e-commerce è
aumentato del 78%. Nel 2018 i Paesi nordici erano più soliti acquistare online, mentre l’Italia
contava solo il 47% di utenti Internet che facevano acquisti online.
I prodotti che si
acquistano
maggiormente
attraverso l’e-
commerce in Europa è
l’abbigliamento e i beni
sportivi; vengono poi le
vacanze, beni per la
casa, biglietti libri, ecc.
Ci sono comportamenti
di acquisto, però,
diversi e correlati alle
fasce di età.

Esiste un digital divide che


contrappone le imprese in
relazione alle loro dimensioni: le
piccole imprese sono le più restie
ad introdurre le innovazioni digitali.
Questi dati evidenziano questo
fenomeno in tutta l’Unione
Europea, dove la vendita online è
più diffusa in generale tra le
imprese rispetto all’Italia.

L’export digitale è molto basso: poche


imprese italiane esportano attraverso
canali digitali e non tradizionali. È un
canale poco utilizzato.
È comunque il settore del fashion ad essere più orientato verso le esportazioni online (61%),
mentre gli altri settori, che costituiscono il cuore delle nostre esportazioni, sono meno orientati
verso l’export digitale.

DIVISIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO (O MODELLO PRODUTTIVO DELLE


GLOBAL VALUE CHAIN)
Le multinazionali hanno tre caratteristiche:

 coordinamento e controllo di varie fasi della catena di produzione localizzate in diversi Paesi (la
multinazionale è una grande impresa ramificata, organizzata a rete)
 capacità di trarre vantaggio dalle differenze geografiche nella distribuzione dei fattori di
produzione e nelle politiche nazionali (quando la multinazionale si localizza, individua i fattori
di localizzazione, quali costo del lavoro, incentivi fiscali, riduzione di dazi, offerta di terreni a
titolo gratuito o a basso prezzo, più vantaggiosi su scala globale e va a posizionare le sue unità
produttive)
 potenziale flessibilità (la multinazionale è un organismo articolato, ma al contempo è molto
flessibile: è in grado di smobilizzare un impianto, chiudere un sito produttivo, cambiare un
fornitore molto velocemente)
Nel momento in cui la multinazionale si insedia, offre molti posti di lavoro; quando, però, lascia
un’area, assistiamo a fenomeni di industrializzazione, caduta dei posti di lavoro che sono gravi
laddove non c’è un tessuto produttivo autonomo (in aree a debole sviluppo).
Le multinazionali sono le protagoniste dell’economia globale e della globalizzazione, partecipando
alla formazione del PIL globale per circa 1/3, il 60% delle esportazioni è attribuito a loro ed il
fatturato di alcuni di questi colossi è addirittura superiore al PIL di interi Paesi: sono giganti
dell’economia, che hanno anche la capacità di coordinare i governi, gli attori politici.
Il numero ufficiale di multinazionali era, nel
2009, di 82.000, mentre nel 2016 ne abbiamo
320.000: assistiamo ad un fenomeno in
continua crescita. L’UNCTAD considera
multinazionale qualunque impresa abbia una
filiale all’estero e di cui controlla almeno il
10% delle azioni. Se il criterio è così elastico,
cadono nelle multinazionali non solo i colossi,
ma anche piccole imprese o studi che hanno
aperto una sola filiale all’estero (micro-
multinazionali). Secondo Mediobanca, invece, le multinazionali sono solo 390 (nel 2017) e sono
imprese che hanno un
fatturato superiore a 3 mld,
con almeno il 10% del
fatturato realizzato all’estero
e che hanno attività
produttive in almeno uno
stato estero; inoltre, mette
degli sbarramenti per i
settori: manifatturiero,
energia, telecomunicazioni,
utilities e software & web.
1) UNCTAD; 2) Global Fortune
Nel 2018 al primo posto sta da anni Walmart; la maggior parte degli altri colossi opera nel settore
dell’energia. Tra queste multinazionali ce en sono di Pesi di nuova industrializzazione, come Cina.
Nel 2020 secondo il mensile Global Fortune abbiamo gli stessi nomi, ad eccezione di Amazon.
Una sorpresa è il 2021: Amazon è al secondo posto (effetto pandemia), ma abbiamo anche ai
vertici la CDSL e la United Health Group, due grandi conglomerate che operano nel comparto della
salute (farmacie, assicurazioni sanitarie). Anche questo è effetto della pandemia.
La rivista Global Fortune rappresenta anche

spazialmente la localizzazione delle prime aziende


per fatturato.
Emerge che sono maggiormente localizzate nella triade: USA, Europa occidentale e sud-est asiatico
(fermo restando qualche nucleo sparso un sud America e Australia).
Anche in un Paese di
multinazionali, come gli USA,
notiamo poca distribuzione,
ma seguono le aree forti, i
percorsi di industrializzazione
maggiore: troviamo
concentrazioni di
multinazionali nella megalopoli
del nord-est (costa orientale,
New York), la Manufacturing
Belt, Texas, la Silicon Valley
(cluster dell’alta tecnologia) e Washington. Il cerchio in grigio indica l’area più grande, dov’è
localizzato Walmart (Arkansas).
Anche Europa le multinazionali sono sparse (UK, Olanda, Svizzera). Le grandi imprese italiane che
compaiono nelle prime 500 su Global Fortune sono ENI, ENEL, Unicredit, Poste Italiane, ecc.

In Asia la distribuzione è ancora più concentrata, nella Cina costiera e Pechino, Corea del Sud,
Taiwan e Giappone (il suo sviluppo economico è partito prima come la sua forma particolare di
capitalismo, ma che si colloca negli stessi decenni dello sviluppo degli altri Paesi industrializzati).

Abbiamo una serie di


passaggi che si
accompagnano
all’evoluzione dell’economia
e dei modi di produrre
soprattutto dal Secondo
dopo guerra ad oggi per
quanto riguarda la nascita
delle multinazionali.
Le prime multinazionali
risalgono al periodo
coloniale (multinazionali di
prima generazione: erano
imprese europee che
investivano nelle ex colonie
per andare ad acquisire il
controllo di risorse naturali e
materie prime. Le
multinazionali di prima
generazione erano guidate da una logica di approvvigionamento, motivo ora messo da parte).
La prima vera fase di multinazionalizzazione avviene nel periodo fordista (secondo dopoguerra-
metà anni ‘70), in cui si affermano le multinazionali di seconda generazione (ovvero grandi
imprese che hanno già sviluppato una buona posizione nei mercati nazionali e che vanno ad
investire all’estero, realizzando i cosiddetti investimenti guidati dal mercato, ovvero le
multinazionali vanno all’estero per entrare con i loro prodotti in questi mercati; per fare ciò,
vengono aperte delle filiali per entrare nei mercati stranieri. La multinazionalizzazione viene
dunque ad essere un sostituto delle esportazioni: si può entrare in un mercato estero esportando i
propri prodotti e aprendo filiali nel Paese desiderato e producendo lì). Queste filiali non hanno loro
autonomia, stanno sotto la casa madre e la replicano.
Passando al post-fordismo, si affermano le multinazionali di terza generazione, ovvero la
multinazionalizzazione investe anche il settore dei servizi: abbiamo grandi banche, assicurazioni,
imprese turistiche, di trasporto che vanno a localizzare le loro filiali all’estero. Verso la fine degli
anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 comincia a diffondersi una strategia di multinazionalizzazione
guidata dai fattori di costo: si va all’estero non solo per posizionarsi nei nuovi mercati, ma anche
per risparmiare sui costi di produzione (soprattutto grandi multinazionali americane).
Da qui arriviamo alla multinazionale di quarta generazione, che è l’impresa globale e che dà luogo
a queste grandi global value chains e al processo di frammentazione della produzione, dove
subentrano, ai rapporti tra casa madre e multinazionale, tante forme di investimento e logiche
spaziali, che sono quelle che configurano la produzione su scala globale nel periodo attuale.

FORDISMO
Il modo di produzione fordista nasce negli anni ’10 del ‘900 negli stabilimenti della Ford di Detroit.
Dalla Ford si diffonde poi a tutte le altre case automobilistiche (come la Fiat a Torino negli anni
‘20). Si diffonde poi a tutti gli altri comparti manufatturieri e soprattutto nella seconda metà del
‘900 (’50, ’60 e metà ’70 > epoca aurea del fordismo).
Questo modello di produzione si basa sulla produzione di beni standardizzati per un consumo di
massa (tanti prodotti, ma con una gamma limitata).
Ciò che rende possibile la produzione fordista è un’organizzazione scientifica del lavoro che si basa
sulla catena di montaggio, ovvero una frammentazione del processo produttivo che vede una serie
di mansioni ripetitive (l’operaio esegue solo quella piccola parte del processo produttivo); poi, il
tutto viene ricomposto nella catena di montaggio.
Questo sistema assicura una forte produttività del lavoro; per questo le imprese fordiste riescono
a soddisfare una produzione di massa (con la catena di montaggio aumenta la produttività del
lavoro).
Il lavoro è prevalentemente dequalificato (non servono grandi competenze), nella fabbrica le
gerarchie sono molto rigide (netta separazione tra mansioni manuali e mansioni amministrative e
dirigenziali); è anche un lavoro fortemente sindacalizzato.
Questo modo di produzione ha una serie di conseguenze dal punto di vista territoriale: dà origine
al gigantismo industriale (grandi imprese che crescono sempre di più e che escono da un ambito
nazionale per produrre all’estero) > nasce un primo vero processo di multinazionalizzazione.
In tutti i Paesi in cui si diffonde questo modo di produzione si assiste alla formazione di grandi
regioni urbane industriali (il fordismo traina la nascita delle grandi città): sono, ad esempio, il
triangolo industriale in Italia (Milano, Torino e Genova), ecc.
Dal punto di vista ambientale il modello fordista guarda ad una crescita illimitata e prevedeva un
uso illimitato di risorse non rinnovabili, quali petrolio (utilizzato non solo come fonte energetica,
ma entra in tutti i cicli di produzione, come la plastica) e carbone. È, quindi, un modello non
sostenibile.
Questa fase di crescita si interrompe agli inizi degli anni ’70 (1973 > data simbolica della prima crisi
petrolifera che interrompe questo lungo percorso di crescita delle economie occidentali).
Alla crisi del fordismo concorrono più cause, quali l’aumento dei costi di produzione (generato
dalla crisi energetica che va ad incidere sui costi delle materie prime e sui costi di trasporto, ma
anche dall’aumento del costo del lavoro > il lavoro fordista era altamente sindacalizzato), la
saturazione di beni standardizzati del mercato (il mercato non assorbisce più prodotti quali
elettrodomestici, auto), cambiamento della domanda del consumatore (si preferiscono beni meno
standardizzati, più sensibili alla moda; sono richieste che la rigidità della produzione fordista non
riesce a soddisfare), il progresso tecnologico (nella seconda metà degli anni ’70 siamo già nella
terza rivoluzione industriale, periodo in cui cominciano a diffondersi le innovazioni riguardanti la
microelettronica, l’informatica, che vanno a modificare non solo ; consentono le prime
esternalizzazioni su grande scala). È a causa dell’esternalizzazione di imprese americane del tessile
ed elettronica, che la concorrenza di certi Paesi comincia ad affacciarsi con costi di produzione più
bassi, cosicché Paesi di nuova industrializzazione cominciano a competere con Paesi industrializzati
per i beni standardizzati.
Tutto ciò ha delle conseguenze sia sul piano economico che geografico: questo periodo di
transizione che ci farà passare all’economia globalizzata comporta processi di deindustrializzazione
e declino urbano tra la metà anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, legati alla crisi fordista. Molte
imprese chiudono o, dopo fasi di difficoltà, si riorganizzano in senso e flessibile e spostano le
produzioni in Paesi a basso costo di lavoro. La conseguenza nei Paesi industrializzati è che
l’industria non offre più posti di lavoro come nella fase precedente e cominciano a manifestarsi
fenomeni di deindustrializzazione, ovvero alla caduta di occupazione nel settore manifatturiero. La
deindustrializzazione porta con sé anche la crisi della città: per la prima volta dalla rivoluzione
industriale le città dei Paesi industrializzati perdono popolazione (fenomeni di declino urbano); ci si
accorge di questo prima negli Stati Uniti, dove grandi città non attraggono più flussi migratori
come prima (lo stesso succede in grandi e medie città europee).
In questo periodo, mentre la grande impresa entra in crisi, vediamo emergere dei sistemi
produttivi specializzati, costituiti da imprese di piccole e medie dimensioni che sostengono
l’occupazione, le esportazioni, vedono crescere il numero di imprese e sono i distretti industriali. I
distretti industriali non nascono dalla crisi dell’economia fordista (in quanto sono nati prima), ma
emergono: al contrario delle grandi città, sono aree estremamente vitali in cui cresce la
produzione, l’occupazione ed assicurano benessere alle regioni in cui questi distretti sono presenti.
Non a caso in questo periodo cominciano ad acquistare forza le regioni italiane di nord-est e
centro che, durante il periodo della grande crescita fordista, diventano importanti perché sono le
aree di localizzazione privilegiata di questi sistemi di piccola-media impresa.
Dopo la crisi la grande impresa si riprende e si riorganizza in maniera flessibile, trasformandosi da
impresa fordista ad impresa globale. Vediamo nuovi assetti di questo fenomeno di
multinazionalizzaione già presente nei decenni precedenti. Le economie occidentali diventano
post-industriali o terziarizzate, quindi l’industria non contribuisce più come in passato né alla
composizione del PIL né alla composizione dell’occupazione (è soprattutto il settore terziario che
detiene le quote più rilevanti).
È questo il periodo in cui nascono le multinazionali di quarta generazione, cioè le imprese
multinazionali globali: non localizza più filiali all’estero, ma ha una vera e proprio struttura a rete.
Compaiono modalità di internazionalizzazione molteplici: non avviene più solo attraverso
l’investimento diretto estero, ma anche forme di alleanze tra imprese, quali joint venture o
alleanze strategiche, che è una partnership meno impegnativa che non prevede la formazione di
un terzo soggetto. Altra modalità di internazionalizzazione è la subfornitura internazionale, che si
riferisce al processo di esternalizzazione della produzione: si affida parte della produzione ad un
subfornitore straniero, un’impresa straniera indipendente. Possono essere attivate anche più
formule insieme. Il moltiplicarsi di queste modalità di internazionalizzazione fa capire come le reti
già esistenti nel periodo fordista diventano più fitte, complesse. Le logiche che guidano questi
investimenti sono la logica degli investimenti guidati dal mercato (si va all’estero per conquistare
nuovi mercati), gli investimenti guidati da fattori di costo (delocalizzare la produzione di singoli
componenti per ridurre i costi di produzione) e investimenti guidati dalla tecnologia (esternalizzare
per avvalersi di imprese di subfornitori specializzati).
Oggi nell’economia globalizzata abbiamo una compresenza tra produzioni specializzate
(prevedono delle strategie di investimento e delle logiche localizzative differenziate) e produzioni
standardizzate (i prodotti standardizzati non sono stati eliminati). Oggi la filiale non replica più la
casa madre, ma oggi sono unità quasi indipendenti, le scelte localizzative vengono fatte in
relazione a ciascuna filiale (non più in relazione alle strategie della casa madre): è
un’organizzazione spaziale multimpianto, multidivisionale (<> organizzazione spaziale delle
multinazionali nell’epoca fordista) che ha dato vita al modello delle global value chains.
Cos’è una global value chain/grande catena di produzione? È una grande rete che mette in
contatto imprese manifatturiere, di servizio, di distribuzione che realizzano un processo
produttivo. Non è cambiata la definizione rispetto a quella data da Porter, che per primo parlò di
catena di valore. Tutta la sequenza di fasi che ci porta dall’ideazione, progettazione, produzione,
distribuzione e servizi post-vendita non è più svolta in un’impresa o all’interno di un contesto
nazionale, ma si è frammentata in un contesto globale.
Ci sono condizioni esterne che hanno consentito lo sviluppo dell’impresa globale, della
multinazionale di quarta generazione; quindi, non è solo un processo interno, quali:

 modalità post-fordiste di organizzazione della produzione che prevedono la scomposizione del


ciclo produttivo in unità fisicamente separate; scomposizione resa possibile dalle tecnologie
 tecnologie che hanno permesso di abbassare i costi di trasporto e comunicazione e di
coordinare queste reti di produzione (senza queste nuove tecnologie non sarebbe possibile
un’organizzazione della produzione frammentata perché non sarebbe possibile mantenere in
tempo reale i legami fra tutte queste unità produttive geograficamente disperse)
 la liberalizzazione commerciale, ovvero la riduzione delle barriere tariffarie e non che
costituivano un limite alle importazioni e alle esportazioni, ha reso possibile la creazione delle
grandi globale value chains; se l’attraversamento delle frontiere ha un costo, non si può
realizzare un modello di questo tipo, ma funziona solo se componenti e prodotti possono
circolare a basso costo. Qui è intervenuta l’azione del WTO che ha progressivamente ridotto le
barriere tariffarie e non tariffarie

Le global value chains, o global commodity chains, dal punto di vista geografico e organizzativo
assumono configurazioni diverse. La letteratura ne ha individuato due tipi:

 catene guidate dal produttore > interessano la produzione di beni che sono ad alta o media
tecnologia e che comportano continuamente l’introduzione di innovazioni di processo di
prodotto e che, per questa ragione, sono controllati da pochi produttori. Sono reti che
rimangono abbastanza concentrate non necessariamente geograficamente, ma, essendo
controllate da pochi produttori, spesso le unità produttive di queste grandi reti sono localizzate
in Paesi economicamente avanzati. È un assetto tipico dei settori come quello dell’automobile
(oggi i produttori sono sempre meno, controllano sempre di più il mercato e queste reti di
produzione)
 catene guidate dal consumatore > sono quelle che troviamo, ad esempio, in beni e prodotti
ormai abbastanza standardizzati, che non richiedono grandi tecnologie e il cui successo fa leva
su valori quali il design, il marketing, la distribuzione (il comparto moda, la produzione di
arredamento, di giocattoli). In questo caso il modello organizzativo è quello di reti molto estese
di delocalizzazione, esternalizzazione: le imprese tendono ad esternalizzare tutta la
produzione, arrivando alle imprese senza stabilimento (imprese che non producono più nulla,
che controllano le fasi a monte del processo produttivo, ovvero l’ideazione, la progettazione, il
design, e a valle, come la distribuzione, ma non la produzione: questa è la situazione tipica di
grandi marchi dell’abbigliamento e delle calzature, come la Nike). Tante imprese, come la
Benetton, è un’impresa quasi senza stabilimento perché delega tutta la produzione all’esterno,
soprattutto delega la produzione a subfornitori internazionali (e non più locali). Tra le catene
guidate dal consumatore e le imprese senza stabilimento spesso si includono anche imprese
non manifatturiere, ma, ad esempio, del settore della grande distribuzione organizzata, perché
si avvalgono di un numero elevatissimo di fornitori in tutto il mondo (i prodotti che Walmart
vende arrivano da fornitori localizzati in tutto il mondo)
Esempio di grandi catene
produttive è la Apple: il
modello della Apple si dice non
essere compreso in nessuno
dei due modelli, perché la
Apple non fa produrre
semplicemente esternamente
delle componenti, ma degli
interi moduli del suo prodotto
(più complesso). La Apple ha
una serie di fornitori localizzati

in diversi Paesi, non solo


nel sud-est asiatico, ma
anche in Germania (per la
produzione di
componenti considerate
altamente tecnologiche,
fatte da imprese
specializzate > non si va a
risparmiare sui costi di
produzione, ma si cerca il
produttore specializzato
nella produzione di
questo modulo). Questi
produttori non sono legati
da un rapporto esclusivo con la Apple, quindi possono produrre anche per altri marchi. Alcuni
moduli vengono realizzati negli USA: non rimane solo la progettazione in California, ma anche la
produzione di certe parti strategiche resta negli States. Tutte queste parti di prodotto arrivano in
un impianto di assemblaggio (in questo caso cinese). Poi, il prodotto assemblato arriva in un
centro di distribuzione in Alaska e di qui il prodotto viene distribuito nel mercato americano.
Un altro esempio è la catena di produzione globale della Boeing (produttore di aeromobili).
L’aereo è un insieme di parti poi assemblate. Queste vengono fatte spesso da stabilimenti stessi
della Boeing localizzate in diversi Paesi e specializzate nella produzione di alcuni componenti (non
sono tutte esternalizzazioni a imprese indipendenti), altre sono imprese completamente
indipendenti (nella produzione degli stabilizzatori orizzontali, oltre ad un impianto Boeing, c’è
anche la Finmeccanica). Abbiamo parti del Giappone, il motore in parte del Regno Unito, ecc:
questo prodotto di alta tecnologia non ha una rete produttiva dispersa soprattutto in Paesi a basso
costo, ma qui contano le specializzazioni. Lo stesso vale anche per auto come le Audi, ecc.

COSA DETERMINA LA PRESENZA DI MULTINAZIONALI IN UN PAESE/REGIONE?


Certi Paesi sono riusciti a trarre vantaggio dalla presenza di multinazionali sul proprio territorio per
sviluppare la propria economia. È il caso di certi Paesi del sud-est asiatico, quali Cina e Corea del
Sud.
Come conseguenza di queste nuove dinamiche sono comparsi nuovi spazi produttivi (nuovi perché
al di fuori dei Paesi e regioni ad industrializzazione matura, come Europa, USA). Questa nuova
modalità di produzione ha ridimensionato il ruolo dei Paesi di vecchia industrializzazione.
LE ECONOME DEL SUD-EST ASIATICO
Economie partite da un livello molto basso (Paesi che fino agli anni ’60 avevano un’economia
legata ancora all’agricoltura ed erano molto poveri) hanno avuto una crescita vertiginosa che
vediamo nell’aumento costante del Pil, ma anche del reddito pro capite: un esempio è la Corea del
Sud che è diventa oggi la quarta economia asiatica dopo Cina, Giappone ed India. Questi Paesi
sono riusciti ad avvantaggiarsi delle possibilità offerte dalla globalizzazione, a differenza di altri
Paesi che ne sono stati solo attraversati (non hanno messo in moto un processo di sviluppo
economico).
Ci domandiamo quali siano i fattori che spiegano lo sviluppo delle economie asiatiche.
Le premesse della crescita si sono presentate, in realtà, nei decenni precedenti la fase di
globalizzazione, e non negli anni della globalizzazione. Sono date da un complesso di fattori, non
ultimo il fatto che il processo di industrializzazione è stato fortemente voluto dai governi di questi
Paesi. Si dice che questi Paesi si siano industrializzati e abbiano attratto gli IDE grazie ad una forza
lavoro a basso costo e poco sindacalizzata, ma questa non è la prima condizione che ci porta a
spiegare il forte sviluppo di questi Paesi: la differenza è stata fatta dalle politiche di sostegno
all’industria e di attrazione degli IDE avvenuta attraverso la realizzazione di “zone economiche
speciali”.
La capacità di questi Paesi è stata quella di inserirsi nelle reti di divisione internazionale del lavoro
in un momento in cui si stavano creando condizioni esterne favorevoli (crescente liberalizzazione
degli scambi e diminuzione dei costi di trasporto). È un processo che inizia sul finire degli anni ’60
quando le prime multinazionali, soprattutto americane ed europee, cominciano a delocalizzare nei
Paesi del sud-est asiatico fasi produttive a basso valore aggiunto (la realizzazione di prodotti,
soprattutto del tessile, abbigliamento ormai standardizzati). Questi Paesi hanno puntato su
un’industria per le esportazioni perché in quel momento non poteva nascere un processo di
industrializzazione su una domanda interna che ancora non c’era.
I primi Paesi che si aprono agli investimenti stranieri e che sono protagonisti di questi processi di
delocalizzazione sono soprattutto le tigri asiatiche, ovvero Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e
Singapore.
Negli anni ’80 in questi Paesi arrivano anche le multinazionali sia americane che giapponesi del
settore dell’elettronica, quindi tante multinazionali delocalizzano nei Paesi del sud-est asiatico la
produzione di componenti. Le competenze delle imprese aumentano perché entrando in queste
reti di divisone del lavoro gestite dalle multinazionali anche i subfornitori inizialmente non
specializzati acquisiscono competenze e tecnologie, facendo un salto di qualità.
Contemporaneamente, la produzione tessile (a più basso valore aggiunto) si sposta verso altri
Paesi del sud-est asiatico, come Indonesia, Filippine, Malesia, che non avevano ancora il livello di
sviluppo delle prime quattro tigri asiatiche (buona dotazione infrastrutturale, buona qualificazione
della forza lavoro): avviene un processo di filtraggio, ovvero di fusione dell’industrializzazione
interna all’area che porta ad una creazione di un tessuto industriale diffuso, ma differenziato (i
Paesi sviluppatasi per primi si sono specializzati soprattutto nelle produzioni dell’elettronica, gli
altri ripercorrono lo stesso percorso di sviluppo partendo dalla produzione del tessile-
abbigliamento). Ci sono poi singole strategie di sviluppo autonomo che riguardano, ad esempio, la
Corea del Sud che ha avuto un processo di industrializzazione autonomo rispetto alle
multinazionali straniere attraverso il modello dei chaebol, ovvero grandi agglomerate (grande
industria con attività in tanti settori produttivi anche molto diversi tra di loro, come settore
dell’alimentare e delle assicurazioni, ecc) sviluppatesi partendo da un’industria di proprietà
familiare che ha avuto forti sovvenzioni statali e che si è poi diversificata in una serie di settori. I
grandi marchi della Corea del Sud che oggi sono tra i principali attori su scala mondiale (Samsung,
Hyundai) sono nati così.
La quota di prodotti di abbigliamento sul totale delle esportazioni diminuisce progressivamente,
avendo sviluppato specializzazioni a più alto valore aggiunto soprattutto nel settore
dell’elettronica.

Parte dello sviluppo industriale di questi Paesi di nuova industrializzazione si è realizzata attraverso
le “zone economiche speciali”, che sono grandi aree industriali che hanno normative particolari
rispetto al resto del Paese in cui sono localizzate. La dicitura “zona economica speciale” include un
notevole numero di tipologie di zone economiche speciali, quali zone franche, aree per
l’esportazione (in ogni Paese ce n’è una tipologia). Hanno, però, alcune caratteristiche comuni al di
là del nome dato a queste aree:

 sono parti del territorio nazionale che sono delimitate e caratterizzate da un regime normativo
diverso rispetto al resto del Paese in materia di investimenti, tassazione e lavoro. Sono zone
che concedono vantaggi di carattere fiscale, in termini di riduzione dei dazi agli investitori
stranieri e una maggiore flessibilità per quanto riguarda le condizioni del lavoro
 hanno una struttura di governance dedicata, ovvero hanno una propria autonomia dal punto di
vista amministrativo, non dipendendo né dal governo centrale né da organismi politici
regionali, locali (questo serve a garantire un migliore funzionamento di queste aree, per
garantire che i vantaggi concessi
agli imprenditori siano poi
usufruibili dalle imprese stesse)
 hanno una dotazione
infrastrutturale di buon livello o di
livello superiore rispetto al resto
del Paese. Parliamo di
infrastrutture di trasporto, telematiche, di servizi per le imprese (presenza di parchi
tecnologici, ecc), tutto l’insieme di economie esterne che vanno a costituire un supporto alle
imprese straniere che si localizzano in queste aree
Questa politica di industrializzazione perseguita attraverso le zone economiche speciali, che è
caratteristica di molti Paesi, è stata una strategia per cercare di mettere in moto un processo di
industrializzazione, per ridurre tassi di disoccupazione particolarmente elevati. Questa strategia è
stata particolarmente criticata perché certi studiosi ritengono che una strategia di questo tipo
aumenti i divari spaziali, le differenze di sviluppo tra aree di uno stesso Paese perché gli
investimenti da parte dei governi si concentrano spesso su queste aree a discapito del resto del
Paese.
Un po’ tutti i Paesi di nuova industrializzazione o che hanno visto una transizione ad un’economia
di mercato (come Russia ed Europa dell’Est) hanno seguito questa strategia della creazione di zone
economiche speciali. Lo stesso è stato fatto in Africa e in America latina.
Un tipo particolare di zone economiche speciali (più impianti di produzione che zone) sono le
maquiladoras messicane: sono impianti manifatturieri di proprietà straniera localizzati in Messico
che si trovano prevalentemente situati lungo il confine con gli USA e in parte nel Messico centrale.
Questi impianti importano materiali, semilavorati, macchinari in regime di duty free (esenti da
dazi), lavorano questi materiali, assemblano e li esportano principalmente verso gli USA. Queste
maquiladoras non sono un’esperienza recente, in quanto questo progetto nasce negli anni ’60 per
accordo del governo messicano ed americano per localizzare questi impianti in una zona vicina agli
USA, a basso costo del lavoro dove potevano operare in regime di duty free le grandi imprese
americane. Il Messico fa questo accordo perché soprattutto al confine con gli USA c’era un alto
tasso di disoccupazione creata dal venir meno negli anni ’60 del programma di collaborazione tra
USA e Messico che permetteva ai lavoratori messicani stagionali di entrare legalmente negli USA
per lavorare in agricoltura. Ciò ha determinato la forte disoccupazione nelle zone confinanti con gli
USA e il governo messicano, per cercare di assorbire questi alti tassi di disoccupazione, ha aderito
al progetto maquiladoras.
Lo sviluppo di questi impianti è stato particolarmente intenso tra il 1994 e il 2000 dopo la
creazione dell’accordo di libero scambio tra Canada, USA e Messico (il NAFTA). Questi impianti
sono molto contestati per la durezza delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti gli operai, la
cui netta maggioranza è femminile.

LA CINA
Il momento cruciale per l’industrializzazione cinese è la morte di Mao: il successore Deng Xiaoping
negli anni successivi mette in atto una politica di riforme che avviene attraverso la politica delle
quattro modernizzazioni, ovvero un insieme di quattro azioni di modernizzazione che riguardavano
essenzialmente quattro settori (agricoltura, industria, settore della scienza e della tecnologia e
settore della difesa).
Ciò che apre agli investimenti stranieri è la politica della porta aperta, ovvero l’apertura agli
investimenti stranieri e al commercio estero avvenuta anche attraverso la costituzione di zone
economiche speciali. Attraverso questa apertura si potevano acquisire capitali e tecnologie,
colmando il gap tecnologico ed economico che la Cina in quel momento aveva.
Le zone economiche speciali sono inizialmente quattro e sono zone costiere perché la politica delle
zone economiche speciali parte come un esperimento ed è la prima graduale apertura verso
un’economica di mercato. Sono state definite delle isole di capitalismo in un mondo ancora
dominato da un’economia di tipo pianificato. Da queste quattro zone economiche speciali se en
creano molte altri, come le città costiere, zone localizzate nei delta dei grandi fiumi, e altre che
sono invece localizzate sui confini terrestri.
Altri fattori che consentono la spiegazione del rapido
sviluppo di questo grande Paese sono il forte
differenziale salariale rispetto ai Paesi
economicamente avanzati, materie prime disponibili
a più basso costo, normative più elastiche in tema di

protezione ambientale
ed una manodopera
che aveva un buon
livello di
scolarizzazione.
I primi imprenditori
che hanno investito in
Cina pensavano non solo ad andare a delocalizzare gli impianti per produrre a basso costo del
lavoro, ma pensavano alla Cina come un futuro mercato di espansione per i prodotti occidentali,
tenendo conto delle normali dinamiche che si verificano quando si mette in moto un processo di
sviluppo (si forma uno strato di ceti medi, di consumatori, ed era su questo che gli imprenditori
contavano, ragionando anche sui grandi numeri della popolazione). Almeno in certi periodi gli
investimenti in Cina erano molto popolari tra gli imprenditori e sollecitavano delle strategie di
imitazioni (x ha avuto successo, allora mi butto anch’io), senza contare che sul territorio c’erano
una serie di strutture delle camere di commercio, dell’istituto per il commercio estero italiano che
sostenevano gli imprenditori nelle loro avventure in un territorio così lontano.
Il risultato di questo percorso è un forte sviluppo che vediamo nell’andamento del PIL. Rapportato
a quello degli USA, vediamo prima una fase di crescita costante, ma contenuta; dalla metà degli
anni 2000 abbiamo invece un’impennata e una crescita continua dell’economia cinese.
La trasformazione
dell’economia cinese è visibile
anche dal cambiamento della
composizione percentuale del
PIL tra gli anni ’70 (prima dello
sviluppo) e il presente. Nel
momento in cui si mette in
moto un percorso di sviluppo
industriale, il settore
dell’agricoltura diventa via via
meno importante: diminuisce la
quota sia nella composizione del
PIL che nella composizione della
forza lavoro (è la curva tipica

che osserviamo quando parte


un processo di industrializzazione).
È cresciuto anche il PIL pro capite.
Abbiamo inizialmente un aumento
abbastanza lento, che poi diventa
esponenziale. 10.000 dollari di reddito
pro-capite non è un valore elevato, ma
risente del limite di essere un valore
medio: la Cina è un Paese grande e di
grandi contrasti; bisognerebbe andare a
vedere cosa succede nelle aree di più
forte industrializzazione.
Un altro aspetto che accompagna la crescita delle economie e dei processi di industrializzazione è
l’inquinamento, e quindi le emissioni di CO2 che vediamo crescere (fattore indiretto). Tutti i Paesi
hanno visto le emissioni di CO2 crescere nel momento in cui si è messo in moto un forte processo
di industrializzazione (fermo restando che vengono messi in atto dei correttivi).
Gli IDE entrano progressivamente in Cina partendo dalla regione costiera (dove si sono
concentrate le zone economiche speciali). Nel 1990 sono ancora abbastanza modesti come
quantità e localizzati prevalentemente nelle grandi città costiere. Andando avanti nel tempo,
vediamo crescere la quota di IDE e una diffusione nell’area interna, ma sempre nella parte
orientale del Paese. Nel 2010 cresce il volume degli investimenti e si sposta verso l’interno,
rimanendo ancora esclusa grande parte della Cina interna.
Tutti questi processi hanno portato la Cina a diventare uno degli attori della scena economica
globale. Questo ruolo è visibile non solo nei dati macroeconomici (che misurano la salute del
sistema economico), ma anche in altre iniziative, come la Belt and Road Initiative (o Nuova Via
della Seta), iniziativa recente inaugurata nel 2013. Questa Nuova Via della Seta (chiamata così per
ricalca il percorso delle vecchie vie della seta dei tempi di Marco Polo) è un grande progetto
infrastrutturale che intende gettare le basi di una cooperazione soprattutto economico-
commerciale tra Cina ed Europa, che vede lo sviluppo di due/tre rotte:

 una rotta terrestre (azzurro chiaro) che attraversa tutto il continente asiatico e parte del
continente europeo. Parte dalla Cina, attraverso una serie di ramificazioni un ramo arriva in
Iran per poi partire verso la Turchia, un altro ramo arriva verso l’Europa orientale (Mosca) ed
un altro verso la Germania (porto di Rotterdam), l’Italia e la Spagna. È una rotta terrestre fatta
di autostrade, ferrovie, oleodotti, gasdotti e di infrastrutture come nodi, interporti, ponti,
parchi scientifici
 una rotta marittima (blu) che parte dai porti della Cina meridionale, arriva al continente
indiano, un ramo giunge al Pakistan e poi nuovamente all’Iran, un altro al Kenya e un altro (più
importante) attraverso il canale di Suez arriva ai porti del Mediterraneo (Grecia, Italia)
 la rotta artica (rosso) la cui possibilità di realizzazione dipende, purtroppo, dallo scioglimento
dei ghiacci polari
Questo grande programma di infrastrutture e cooperazione tra Europa e Cina è visto con estremo
interesse da entrambe le parti: dalla Cina per incrementare i suoi traffici verso l’Europa in maniera
più veloce rispetto ai tragitti attuali; dall’Europa per entrare ulteriormente nel mercato cinese.
Questo progetto, che ha già visto una serie di investimenti, viene molto contrastato dagli USA, che
sono i grandi esclusi. È un rapporto che vede ai due lati Europa e Cina e, in mezzo, una serie di altri
Paesi. Questo progetto comporta un forte impegno in infrastrutture perché è realizzato solo in
parte (ci sono già assi ferroviari che attraversano, partendo dalla Cina, il continente asiatico e
arrivano, ad esempio,
all’interporto di Duisburg).
Centrale soprattutto nel
percorso via terra è il
Kazakistan: ci sono Stati che
fino a questo momento sono
rimasti ai margini
dell’economia, ma che in
questo progetto diventano
essenziali. Il Kazakistan ha al
suo interno dei punti che
sono in assoluto i più lontani
dal mare, i più interni, ma ha una posizione strategica nella Nuova Via della Seta ed è per questo
che sono state localizzate delle infrastrutture in quest’area attraversata dalle rotte ferroviarie.
Proprio nel territorio cinese sul confine col Kazakistan è nato un interporto che sta per diventare
uno tra i più grandi del mondo: il porto di Khorgos (porto secco o interporto con annessa zona
franca). È diventato un importante nodo di scambio percorso da un numero sempre crescente di
treni. Tra il 2010 e il 2016 in questa zona sono sorte una serie di infrastrutture, quali zona
industriale, ferrovia, strade, aree residenziali, progetto per un aeroporto, zone commerciali.
Questa tabella rappresenta la
percentuale dei principali
Paesi industriali sul totale
della produzione
manifatturiera mondiale.
Vediamo, solo dal 2000 al
2014, come è aumentata la
quota della Cina (da 8,3% a
32,8%, diventando il maggior
Paese manifatturiero,
spazzando Paesi di vecchia
industrializzazione). La quota
degli USA diminuisce, quindi non è più il principale Paese industriale. Ancora peggiore è la
contrazione Giappone (da 16% a 6,2%), che per processi di sviluppo non ha niente a che fare con i
Paesi del sud-est asiatico e Cina (in quanto industrializzato prima). Diminuisce in maniera
consistente anche l’Italia nel periodo post-crisi. Sostanzialmente hanno tenuto la Germania (con
una leggera riduzione) e la Corea del Sud.
Tutti questi cambiamenti hanno cambiato la composizione del PIL e dell’occupazione nella maggior
parte dei Paesi industrializzati.
Questa è una traiettoria tipica dei Paesi economicamente avanzati: dall’epoca del primo
censimento (1860) vediamo una costante diminuzione della quota del settore primario.
Progressivamente, avviene la modernizzazione dell’agricoltura, che porta ad una perdita di
occupati. Comincia, seppur debolmente, a crescere la percentuale di occupati nel settore
industriale, ancora prima del fordismo, e ancor più nell’epoca d’oro del fordismo, ovvero quando
l’industria diventa la base economica di molti di questi Paesi (anni ‘70). Qui avviene il passaggio da
un’economia fordista ad una post-
fordista che si riflette anche
sull’occupazione. Verso la metà degli
anni ’70 avviene un sorpasso: per la
prima volta il numero di occupati nel
settore terziario è più alto di quello
degli occupati nel settore industriale
(terziarizzazione dell’economia). La
curva dei servizi viene ad essere
opposta e speculare rispetto a quella
dell’agricoltura. I Paesi economicamente avanzati hanno un numero maggiore al 70% di occupati
nei servizi.

I DISTRETTI INDUSTRIALI
Il distretto industriale è un modello che è peculiare dello sviluppo economico ed industriale del
nostro Paese. Sostengono le esportazioni e sono un modello che tanti Paesi hanno cercato di
replicare.
È un modello che si sviluppa dagli anni ’70 (anche se nasce prima). Cambia ovviamente negli anni.
A partire dagli anni ’90 il distretto diventa un oggetto di politiche industriali: sono state emanate le
prime normative e messe in atto delle politiche industriale specifiche per i distretti.
L’economista toscano Becattini è il primo ad accorgersi dell’esistenza dei distretti semplicemente
guardando la realtà toscana (come Prato, Arezzo). Si rende conto che in Toscana esistono delle
realtà costituite da sistemi produttivi localizzati, specializzati dove le imprese si dividono il lavoro
tra di loro e che sono altamente dinamici in un periodo in cui l’impresa stava entrando in crisi
(passaggio dal fordismo al post-fordismo). A questi sistemi produttivi localizzati Becattini dà il
nome di distretti industriali. Queste formazioni economico-territoriali si riscontrano in altre parti
del territorio italiano, soprattutto a nord-est e centro. Il Becattini è il precursore di un filone di
studi che ha riguardato molte altre regioni del nostro Paese e che ha riguardato anche la
letteratura internazionale.
Il distretto industriale è un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in
un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità
di persone e di una popolazione di imprese industriale.
Ciò che caratterizza il distretto è la sua localizzazione in una piccola area geografica con precisi
tratti naturali e storici. Le due dimensioni del distretto sono poi la comunità di persone
(incorporano un sistema di valori riguardanti l’economia, quali attitudine al rischio, spirito di
imprenditorialità, cultura del lavoro, omogeneo; persone che vivono e lavorano da tempo nello
stesso territorio, che si conoscono e che hanno intrecciato delle relazioni anche fiduciarie tra di
loro, di collaborazione) ed una popolazione di imprese industriali (prevalentemente piccole
imprese, specializzate in un settore produttivo e che si dividono il lavoro tra di loro, ovvero
specializzate per fase produttiva).
Il concetto di distretto industriale è ripreso da Marshall, un economista di fine ‘800: aveva
osservato che in molti Paesi, ma soprattutto in alcune aree dell’Inghilterra, esistevano ancora delle
concentrazioni di piccole imprese, soprattutto artigiane, molto specializzate e che si dividevano il
lavoro. La peculiarità era che questi sistemi persistevano sul territorio nel momento in cui il
sistema industriale stava andando verso le grandi dimensione d’impresa. Marshall le vede come
forme residuali. Dopo di lui l’analisi dei distretti industriali è stata abbandonata e poi ripresa da
Becattini.
Per Marshall il distretto industriale è un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese,
facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra
le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza.
Mette in evidenza il mix di collaborazione (in senso verticale, c’è collaborazione tra imprese
specializzate su fasi diverse del ciclo produttivo) e concorrenza (in senso orizzontale, le imprese
che producono lo stesso bene sono in forte concorrenza, che nelle prime fasi di sviluppo del
distretto tende alla riduzione dei costi di produzione).
Possiamo individuare le principali caratteristiche costitutive del distretto industriale:

 piccola dimensione geografica; occupa un’area più grande del comune, ma più piccola della
provincia (un distretto va dai 15 ai 20 comuni); parliamo di distretti che si sviluppano in aree
extraurbane
 forte vocazione settoriale; questi distretti si sono specializzati sin dall’inizio in quelle che sono
le tipiche produzioni del made in Italy: parliamo di specializzazione di filiera perché nei distretti
si è sviluppato non solo un settore merceologico di specializzazione, ma anche tutti quei settori
complementari che vanno a concorrere per la realizzazione del prodotto finito
 prevalenza di imprese di piccole e medie dimensioni (non esclusività); queste piccole imprese
sono normalmente indipendenti dal punto di vista giuridico, ma sono legate da rapporti di
collaborazione tra loro (sono specializzate per fase, ovvero divisione del lavoro > elemento
peculiare della distrettualità)
 forte cultura del lavoro, spirito di imprenditorialità e di identità
 reti di istituzioni pubbliche, ma anche soggetti privati che, soprattutto in certe fasi dello
sviluppo del distretto, ne hanno accompagnato la crescita; basti pensare alla presenza delle
banche locali, cioè banche di piccole dimensioni radicate nel territorio che finanziavano queste
attività imprenditoriali
 radicamento nel territorio; i distretti derivano spesso dall’evoluzione di tessuti artigianali, di
specializzazioni che si sono consolidate nel tempo e dove si sono messi in moto ad un certo
punto questi meccanismi di industrializzazione, di divisione del lavoro
Alcune di queste non hanno più la stessa intensità, come gli aspetti di identità, di radicamento
dell’industria nel territorio.
ECONOMIE ESTERNE DI AGGLOMERAZIONE
Altro punto che riguarda il funzionamento dei distretti industriali sono le economie esterne di
agglomerazione, concetto chiave della geografia.
Parliamo di economie esterne, o esternalità, ogni volta in cui il comportamento di un soggetto
economico condiziona il comportamento di un altro soggetto economico, anche in negativo
(esternalità negative). Sono esterne all’impresa.
Una tipologia di economie esterne sono quelle di agglomerazione: sono dei vantaggi in termini di
riduzione dei costi unitari di produzione, di aumento dell’efficienze, di aumento della produttività
che si verificano quando in un’area si localizzano più soggetti economici spazialmente vicini.
Distinguiamo due tipologie di economie di agglomerazione:

 economie di urbanizzazione > si vengono a realizzare quando in un’area si localizzano soggetti


economici che appartengono a più settori (diversificazione); il termine urbanizzazione richiama
la situazione che vediamo appunto nella città. I vantaggi sono poter godere della presenza di
un mercato del lavoro diversificato sia per ruoli, per qualifiche professionali, per
specializzazioni, il che riduce i costi di ricerca e di addestramento del personale; ampio
mercato di sbocco per i prodotti; presenza del capitale fisso sociale, ovvero tutte le
infrastrutture che costituiscono un vantaggio per le imprese (come nel caso del quadrante
Europa) o il fatto che in un’area urbana si forma una gamma di servizi alle imprese diversificati,
qualificati. Tutti questi vantaggi possono portare le imprese ad abbattere i costi, a conseguire
una maggiore efficienza e vantaggi competitivi
 economie di localizzazione (distretti industriali ed economie marshalliane) > ne parliamo
quando si concentrano in un’area soggetti economici appartenenti allo stesso settore
produttivo (specializzazione). È la situazione dei distretti industriali. I vantaggi sono la divisione
del lavoro tra imprese dello stesso settore, il che consente ad imprese che realizzano un ciclo
produttivo frammentato a livello locale di raggiungere la stessa efficienza nella produzione che
viene raggiunta in altri contesti da un’impresa che è verticalmente integrata (questi distretti
vengono, infatti, anche chiamati distretti senza mura); la specializzazione dei servizi che si
focalizzano su un determinato settore produttivo; la specializzazione delle infrastrutture; la
reputazione e l’immagine (il fatto per un’impresa di lavorare in un distretto noto da decenni
conferisce all’impresa un’immagine positiva, una reputazione che va al di là di quella che è
della singola impresa).

IL CICLO DI VITA DEI DISTRETTI INDUSTRIALI


I distretti emergono negli anni ’70, ma le basi per la formazione dei distretti si pongono già prima.
Da alcuni economisti è stato elaborato il modello del ciclo di vita dei distretti industriali, che ha lo
svantaggio della semplificazione, ma il vantaggio di consentirci di mettere in evidenza alcuni
percorsi evolutivi di questi distretti industriali. Questo modello è stato sintetizzato partendo
dall’esperienza empirica, quindi guardando l’evoluzione di specifici casi studio.
Questi modelli partono da una prima fase che vede la formazione del distretto, ovvero la
specializzazione di fase (fase in cui si viene a definire quel meccanismo di divisione del lavoro
specifico della distrettualità). Questa prima fase si colloca per la maggior parte dei distretti tra anni
’50 e ’60 e, guardando i singoli casi studio, si è visto che le precondizioni che portano alla
formazione di un distretto sono due:

 ci sono distretti che nascono come evoluzione di un tessuto artigianale preesistente, ovvero
precedentemente si forma un tessuto artigianale di piccole imprese che tendono a
specializzarsi; a partire da un certo momento il tessuto compie un salto di scala e si evolve
industrializzandosi e specializzando le fasi di produzione. Ci sono dunque imprese che
assumono il ruolo di committenti e altre di subfornitrici, a cui viene affidata una parte del
processo produttivo o una componente. Da lì comincia il percorso evolutivo del distretto.
 ci sono, però, situazioni in cui il distretto nasce per esternalizzazione di fasi produttive da
imprese di grandi dimensioni: una grande impresa, o per contenere i costi o per fare fronte a
fasi di aumento della produzione senza aumentare la scala dell’impianto, danno all’esterno fasi
di lavorazione o la produzione di componenti. Spesso queste imprese subfornitrici sono
imprese costituite da ex dipendenti che si mettono in proprio: l’impresa madre fa da
incubatrice di processi di sviluppo di piccole imprese che in molti casi procedono da soli anche
nel caso in cui l’impresa madre chiuda o se ne vada: si forma un tessuto industriale per
gemmazione.
Il caso del distretto dello Sport Assistant fa parte della prima tipologia (si forma prima un tessuto
artigianale, c’è un lungo periodo di incubazione e poi si passa ad una produzione di tipo industriale
e ad una specializzazione per fasi), mentre il distretto tessile dell’alto vicentino è nato per processi
di gemmazione, di spin-off di piccole imprese da parte dell’impresa madre (grandi lanifici che
hanno dato all’esterno delle fasi di produzione).
In questi percorsi non c’è niente di deterministico: ci sono stati casi in cui si è formato un tessuto
di imprese artigianali che non ha dato vita ad un distretto, ma si è semplicemente dissolto.
Servono ovviamente altre caratteristiche, quali l’attitudine al rischio, lo spirito di imprenditorialità.
Questa prima fase vede aumentare il numero di imprese, crescere l’occupazione, ma in misura
ancora contenuta. Lo sviluppo dei distretti non è totalmente endogeno: questi processi sono
endogeni all’area, ma i distretti partecipano di tutti quei vantaggi di cui hanno partecipato le
imprese in questo periodo, di quel generale processo id liberalizzazione degli scambi, di apertura
dei mercati, di introduzione di tecnologie caratteristico dei primi decenni del secondo dopoguerra
(contesto esterno favorevole alla nascita di questi sistemi produttivi locali).
La fase successiva, quella che definiamo di sviluppo del distretto, si colloca negli anni ’70/’80: qui
vediamo crescere tutte le dimensioni in maniera esplosiva, quali il numero di imprese,
l’occupazione, la produzione. Le imprese distrettuali si delineano come imprese orientate verso
l’esportazione. Si complessifica anche l’organizzazione del lavoro all’interno di questi sistemi
produttivi: nascono una serie di imprese a monte e a valle del processo produttivo (imprese che si
occupano degli approvvigionamenti, della logistica, di servizio, si sviluppa settori complementari
rispetto al settore principale di specializzazione). Ciò porta all’evoluzione del distretto da distretto
specializzato in un settore ad un distretto che è più filiera. Anche i rapporti tra imprese non sono
più semplici come nella fase precedente (committente-subfornitore, dove il subfornitore era
legato ad un solo committente), ma sono più complessi: abbiamo rapporti di pluricommittenza
dove un subfornitore è legato a più committenti; si delineano, inoltre, diversi livelli di subfornitura,
dove ad esempio un committente attiva un subfornitore che a sua volta attiva un laboratorio
artigiano. Si parla dunque di area sistema integrata, e non più di specializzazione di fase.
Ad un certo punto questo ciclo di forte crescita si interrompe e i distretti entrano in una fase di
maturità (terza fase): cambiano le condizioni del contesto competitivo, quindi cominciano ad
apparire sullo scenario internazionale nuovi competitori (Paesi che realizzano a costi ancora più
contenuti gli stessi beni standardizzati che si producono nei distretti). La fase di maturità (anni
‘80/’90) coincide con l’arrivo della globalizzazione. Qui cominciano a mettersi in atto alcune
trasformazioni che poi vedremo nella fase successiva alla crisi economica. Per superare questo
momento di transizione, crisi i distretti mettono in atto diverse strategie che non si escludono a
vicenda (i distretti più evoluti mettono in atto un po’ tutte queste strategie):

 delocalizzazione produttiva; è un fenomeno nuovo per le imprese distrettuali. Molte imprese


distrettuali spezzano il rapporto con i subfornitori locali e affidano la produzione a subfornitori
stranieri che assicurano costi di produzione più bassi, o spostano all’estero dei propri impianti
produttivi. Anche le imprese distrettuali e le medie imprese si riposizionano in queste reti di
divisione internazionale del lavoro. Uno degli aspetti nuovi della globalizzazione è, infatti, che
anche imprese di media-piccola dimensione mettano in atto queste strategie di
delocalizzazione produttiva: questo significa che le filiere distrettuali perdono pezzi, queste reti
si allargano, non si parla più di un ambito autocontenuto. Questa strategia viene definita
difensiva (si gioca sul contenimento dei costi di produzione) ed ha effetti diversi dal punto di
vista dell’impresa (strategia vincente che consente all’impresa di superare fasi di crisi e di
rimanere competitiva) e del territorio (ciò comporta perdita di occupazione e del know-how
produttivo, le conoscenze incorporate nei processi di produzione)
 concentrazione aziendale e gerarchizzazione; è una strategia di carattere attivo, offensivo. In
tutti i distretti più evoluti sono aumentati i processi di concentrazione aziendale (acquisizioni
ed incorporazioni di imprese di piccole dimensioni) che hanno cambiato la struttura dei
distretti, che si sono evoluti verso una dimensione media di impresa e non più piccola, e le
strategie di gerarchizzazione, ovvero le imprese distrettuali sono uscite dal loro ambito e
hanno fatto acquisizioni all’esterno del distretto oppure hanno messo in atto una serie di
partnership e alleanze con imprese extra distrettuali
 strategie di diversificazione produttiva; ci si posiziona sui segmenti affini e nei cosiddetti
mercati di nicchia (non ancora presidiati dai concorrenti)
 innovazione; cercare di aumentare la qualità dei processi produttivi e dei prodotti
 cambiamenti sociali; i distretti non sono più comunità omogenee, ma si sono registrati
fenomeni di immigrazione, processi che riguardano il cambio generazionale
Questi modelli del ciclo di vita dei distretti industriali si interrompono alle soglie del 2000, quindi
vanno a cogliere le trasformazioni messe in atto dalla globalizzazione fermandosi prima della crisi
economica, che ha colpito in maniera generalizzata tuti i settori produttivi, tutte le imprese e tutti i
Paesi.
Per vedere come sono cambiati i distretti dopo la crisi facciamo riferimento ad un rapporto
(“Economia e Finanza nei distretti industriali”, rapporto più preciso e dettagliato in Italia sui
distretti industriali a seguito di monitoraggi congiunturali) pubblicato annualmente dal centro
studi di Intesa San Paolo: nel 2018 il rapporto sintetizza i 10 anni dopo la crisi economica, andando
a vedere come si sono trasformati i distretti industriali. Mette in evidenza come si sono acutii certi
aspetti già in luce prima della crisi economica, quali l’obiettivo di riduzione dei costi di produzione
contemporaneamente alla volontà di innovazione, di aumento della qualità.
Il primo elemento che questo rapporto mette in luce è che dopo anni di delocalizzazione e crisi
economica la base produttiva dei distretti è cambiata sia dal punto di vista quantitativo
(diminuzione nel numero di imprese e di occupati, che è stata selettiva: ha colpito i soggetti più
deboli all’interno dei distretti industriali, quali piccole e microimprese e i settori cosiddetti maturi,
come sistema moda, casa) che qualitativo (il settore della meccanica, della produzione dei
macchinari sono diventati più importanti, sono aumentate le imprese tecnologiche ed anche la
presenza dei servizi). C’è stata un’ulteriore digitalizzazione dei processi produttivi: sono entrate
nuove tecnologie, c’è stato un
maggiore ricorso all’e-commerce,
fermo restando il gap tra piccola,
media e grande impresa per quanto
riguarda le nuove tecnologie che è
ancora resistente. Altro elemento è
la crescita delle relazioni esterne ed
indebolimento delle relazioni locali:
il distretto non è più un sistema
locale autocontenuto, ma è
caratterizzato da processi di delocalizzazione produttiva, acquisizione e alleanze con imprese
esterne. Nel post-crisi vediamo affermarsi delle strategie del tutto nuove e che sembrano in
contrasto con altre di cui abbiamo parlato, quali
delocalizzazione produttiva: parliamo dei fenomeni di
reshoring, ovvero il rientro in sede domestica di attività
produttive che precedentemente erano state
delocalizzate in Paesi a basso salario. Ci si rende conto
del fatto che alcune imprese hanno fatto reshoring
attorno agli anni 2010/2012: questo fenomeno riguarda
tutte le imprese e tutti i Paesi di industrializzazione
matura (per primi se ne accorgono gli USA). Questo non
è un’inversione di tendenza (non sparisce la
delocalizzazione, questa strategia si affianca alle altre e
può essere accostata anche a strategie di
delocalizzazione), ma sono processi selettivi che
riguardano alcuni settori (in Italia riguarda le imprese
del sistema moda di livello medio-alto, per le quali non è
più vantaggioso andare a produrre in Paesi a basso
costo del lavoro perché il differenziale salariale tra
questi Paesi e quelli economicamente avanzati si è
ridotto; inoltre, queste imprese puntano sempre sulla qualità). Un esempio è Calzedonia, che
continua a delocalizzare la propria produzione per quanto riguarda prodotti di basso lavoro, come
Tezenis, ma fa reshoring per prodotti di alta qualità, come Falconeri.
Dopo la crisi economica le esportazioni distrettuali si sono riprese abbastanza velocemente: nel
2009 l’export dei distretti italiani segue il trend globale, assistendo ad una caduta conseguente al
post-crisi e che riguarda tutti i trimestri dell’anno. Vediamo una ripresa dell’export nel 2010
(effetto di rimbalzo) ed un andamento ad onde. Le imprese più orientate all’esportazione sono
quelle che si sono rafforzate e salvate nelle fasi più critiche della crisi economica (la crisi in Italia ha
riguardato soprattutto la domanda interna).
Quanti sono i distretti industriali in Italia? Bisogna trovare degli indicatori di natura quantitativa,
che sono sempre diversi (nonostante i distretti industriali storici sono presenti qualsiasi parametro
venga utilizzato). L’ISTAT ha fatto questa mappatura in cui ha trovato circa 140 distretti industriali,
a cui si possono ricondurre 1/3 dell’occupazione nel settore manifatturiero italiana. Vediamo una
maggiore presenza dei distretti industriali nelle regioni nord-orientali e centrali. Oggi, guardando
anche altre mappe, l’area di diffusione dei distretti industriali è un triangolo che ha come vertici le
regioni nord-orientali (soprattutto Veneto), va alla Lombardia orientale e l’Emilia e la Toscana
andando verso l’Italia centrale (area al di fuori dell’area in cui si era sviluppata la grande impresa,
ovvero il nord-ovest italiano, e con una scarsa presenza nelle regioni meridionali).
Le specializzazioni distrettuali sono prevalentemente quelle tipiche del made in Italy, ovvero il
sistema moda (produzione di abbigliamento, calzature, borse, accessori, montatura di occhiali), il
sistema casa (produzione di mobili, oggettistica, arredamento), la meccanica leggera (produzione
di macchinari) e, per certi versi, l’agroalimentare.
Oggi la denominazione di distretto è uscita dall’ambito proprio dell’industria, tanto che parliamo di
distretti turistici e culturali (si può declinare la divisione del lavoro tipica del distretto industriale
come strategia di collaborazione tra le imprese e gli enti locali, come le strategie di promozione
fatte nei distretti turistici che prevedono la collaborazione tra soggetti privati e pubblici per
beneficio del sistema nel suo complesso).

I DISTRETTI INDUSTRIALI ITALIANI: IL PERCORSO NORMATIVO


Dai primissimi anni ’90 con l’emanazione della prima legge nazionale (legge 317, 1991) i distretti
trovano una loro definizione normativa; inoltre, la legge stabilisce chi deve finanziare le politiche
per i distretti industriali. Il percorso normativo italiano è abbastanza peculiare, ovvero si parte da
due normative di carattere nazionale (legge 317, 1991 e legge 140, 1999), poi il percorso è
interrotto dalla riforma costituzionale del 2001 (Riforma del Titolo V – Parte II della Costituzione,
che rivede l’assetto dello Stato attribuendo nuove funzioni agli enti periferici, quali le regioni).
Questa riforma va a definire quali sono le materie di competenza esclusiva dello Stato, le materie
concorrenti (di competenza sia dello Stato che delle regioni). Una di queste è la ricerca scientifica e
tecnologica e il sostegno all’innovazione per i settori produttivi, ambito nel quale ricadono i
distretti industriali: da un lato le regioni acquisiscono piena autonomia nella individuazione dei
distretti industriali e nella definizione delle politiche di sviluppo per i distretti industriali (ogni
regione norma alla propria maniera); dall’altro, lo Stato fa una nuova normativa sui distretti
industriali e stanzia altre risorse per il finanziamento e lo sviluppo dei distretti industriali (il
percorso dal 2001 si biforca).
Legge 317, 1991 (in ritardo di 20 anni dall’emergere dei distretti industriali): all’articolo 36 c’è la
definizione di distretto industriale, ovvero aree territoriali locali caratterizzate da elevata
concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle
imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle
imprese. Ricorda la definizione becattiniana, se non che manca la caratteristica della divisione del
lavoro. La legge, poi, assegna alle regioni il compito di individuare i distretti industriali sulla base di
criteri istituiti a livello ministeriale. Due anni dopo esce il decreto Guarino, che contiene i criteri
che le regioni devono seguire per individuare i distretti. Si specifica anche che sono le regioni a
dover finanziare progetti innovativi che riguardano imprese localizzate nei distretti. Il decreto
Guarino, tuttavia, presenta criteri talmente rigidi che la maggior parte delle regioni si trova in
difficoltà ad individuare i distretti: erano indicatori statistici molto rigidi che, applicati sul territorio,
rendono impossibile l’individuazione dei distretti. La questione rimane per qualche anno in stand-
by, anche se qualche regione riesce ad individuarli e finanziarli.
Per superare questo limite esce nel 1999 la Legge 140, che crea una distinzione tra sistemi
produttivi locali ei distretti industriali che diventano una sottocategoria dei primi. I sistemi
produttivi locali sono definiti dei contesti produttivi omogenei caratterizzati da un’elevata
concentrazione di imprese prevalentemente di piccole e medie dimensioni e da una peculiare
organizzazione interna. Troviamo, dunque, elementi caratteristici della distrettualità (piccole e
medie dimensioni e peculiare organizzazione interna > se non divisione del lavoro, almeno
collaborazione tra imprese). Definire un sistema produttivo locale senza dare indicazioni relative
alla specializzazione manifatturiera vuol dire ammettere il riconoscimento di tante tipologie di
sistema produttivo locale (non necessariamente sono impegnati nella produzione manifatturiera).
Si specifica, però, al secondo comma che i distretti industriali hanno caratteristiche dei sistemi
produttivi locali, ma sono caratterizzati da un’elevata concentrazione di imprese industriali,
nonché dalla specializzazione produttiva di sistemi d’imprese (il sistema implica che ci siano delle
relazioni tra le imprese > c’è un avanzamento della legge rispetto alla precedente, che non fa
riferimento ai meccanismi di divisione del lavoro caratteristici dei distretti industriali).
Ai sensi del decreto legislativo n.112/1998 (sul decentramento amministrativo, poi superato dalla
riforma costituzionale) le regioni provvedono all’individuazione dei sistemi produttivi locali,
nonché al finanziamento dei loro progetti innovativi e di sviluppo predisposti da soggetti pubblici o
privati. È assegnato alle regioni il compito di individuare questi sistemi produttivi locali, derogando
dai criteri restrittivi del decreto Guarino che, di fatto, viene abolito. Non siamo, tuttavia, ancora
all’autonomia delle regioni, perché può farlo sempre all’interno della cornice normativa che dà la
legge (non si può prescindere dalla definizione data dalla legge). In effetti, la maggior parte delle
regioni riesce ad individuare i propri distretti produttivi locali.
Il passaggio fondamentale che cambia l’approccio delle politiche per i distretti industriali avviene
nel 2001 con la Riforma Costituzionale, in particolare la riforma del Titolo V-Parte II della
Costituzione, che disegna un impianto federalista dello Stato, che attribuisce nuovi compiti alle
regioni. Proprio la ricerca scientifica e tecnologica, in cui ricadono l’ambito dei distretti industriali,
diventa materia concorrente tra Stato e regioni: diventa un tema di cui si occupano entrambe le
parti. È in questo punto che la strada si biforca: da una parte lo Stato continua a normare in tema
di distretti industriali, in ambito della legge 180 del 2011 che, insieme a vari istituti, ridefinisce il
distretto industriale, e delle leggi finanziarie, dove vengono destinati die finanziamenti ai distretti
industriali; dall’altro abbiamo le regioni, che sono le più attive su questo fronte. Ora assistiamo alla
piena autonomia delle regioni, che possono legiferare in maniera completamente autonoma in
merito al tema dei distretti industriali, derogando da qualunque disposizione nazionale.
Nella legge 180 non si fa riferimento solo al distretto, riconoscendo che ci sono altre formazioni
che stanno emergendo in questi anni. La legge definisce i distretti come contesti produttivi
omogenei caratterizzati da un’elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di micro,
piccole e medie dimensioni, e dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese (si torna un
po’ alla definizione del Becattini).

CASO STUDIO: I DISTRETTI DEL VENETO


La normativa del Veneto è una delle più articolate (il Veneto elabora una prima legge che, poi,
progressivamente rivede). Possiamo mettere insieme come approccio le prime due leggi (legge
regionale n.8/2003 e n.5/2006) perché fanno riferimento allo stesso approccio e i contenuti della
legge nella sua successiva revisione del 2006 sostanzialmente non cambiano (nella legge del 2006
cambia unicamente il numero di imprese e addetti minimo: si richiedevano 80 imprese e 250
addetti.). C’è una differenza sostanziale tra la legge del 2006 e la n.13/2014: cambia l’approccio
alla definizione di distretto industriale, ovvero prima abbiamo un approccio dal basso (la regione
lascia che siano i distretti ad auto riconoscersi), mentre con la nuova legge la regione passa ad un
approccio dall’alto (è la regione che dà una serie di parametri che devono essere soddisfatti
affinché un’area possa essere considerata un distretto industriale, come nella legge 317 dove lo
Stato fissa gli indicatori).
La legge regionale n.5/2006 dice che il distretto produttivo è espressione della capacità di imprese
tra loro integrate in un sistema produttivo rilevante e di altri soggetti di sviluppare una
progettualità strategica che si esprime in un patto per lo sviluppo del distretto. L’unico criterio
quantitativo che fissa è che devono aggregarsi almeno 100 imprese e 1000 addetti affinché queste
coalizioni di attori locali vengano individuate come distretti produttivi.
Questa strada normativa fu adottata solo da Veneto e Puglia, mentre le altre regioni partirono
subito solo con un approccio dall’alto.
L’obiettivo di un approccio dal basso era spingere i soggetti locali a collaborare, in quanto il
contesto delle piccole imprese era caratterizzato da un notevole individualismo. Sono state le
associazioni di categoria che hanno cominciato ad aggregare questi soggetti, a far ragionare le
imprese su possibili traiettorie di sviluppo dei loro territori e infine a presentare dei progetti.
Mentre il patto di sviluppo è un piano in cui vengono delineate le azioni di sviluppo di un sistema
produttivo, i progetti vengono dopo, quando la regione emana il bando e le imprese, mettendosi
insieme, rispondono al bando.
La legge ha avuto una notevole rispondenza a più tornate, in quanto ogni anno usciva la possibilità
di presentare questi patti di sviluppo. Nel primo triennio di applicazione della legge, questa ha
avuto un grande successo, una forte rispondenza sul territorio d parte di imprese che si sono
aggregate per farsi riconoscere come distretto produttivo. Vengono riconosciuti nel primo triennio
46 distretti a cui facevano riferimento oltre 8000 imprese e 203000 addetti. Sono stati finanziati
356 progetti, la regione ha contribuito con finanziamenti per oltre 54 milioni e con un
investimento di 173 milioni (differenza tra 54 e 173 > la regione non finanzia completamente un
progetto, ma lo cofinanzia: il cofinanziamento poteva arrivare massimo al 40%, per il resto erano
gli imprenditori e i soggetti locali che dovevano coprire il restante 60% con finanziamenti privati,
europei, ecc. Si volevano evitare pratiche di assistenzialismo).
La legge parla di distretto produttivo, e non di industriale: lascia aperta la possibilità di
riconoscimento come distretti produttivi a tanti settori. In questo primo anno troviamo, infatti,
distretti storici radicati nel territorio, quali la ceramica e la terracotta nel Vicentino, ecc. Accanto ai
distretti industriali, ce ne sono altri che non lo sono, come un distretto produttivo logistico a
Verona (quadrante Europa), un distretto termale a Padova.
Nel 2012 si comincia a fare un monitoraggio dell’esperienza dei distretti industriali da parte della
regione, che comincia a vedere le risorse residuali rimaste e a ripensare il tema dei distretti
industriali alla luce dei cambiamenti dello scenario economico, del contesto globale in cui
operavano i distretti (pesante crisi economica che colpisce anche i sistemi produttivi locali). L’idea
è di cercare di intervenire con progetti che siano il più possibile di carattere sistemico, ovvero a
ricaduta su tutto il sistema produttivo (non solo su singole imprese), che riescano a stimolare la
competitività e l’innovazione di questi sistemi produttivi locali e che, allo stesso tempo, colgano
altre realtà definitesi nel tempo sul territorio.
Uno dei limiti della legge riconosciuti dalla regione è che aver lasciato eccessiva autonomia ha
prodotto un numero eccessivo di distretti. Questo induce la regione a ritornare ad un approccio
dall’alto, mettendo criteri più restrittivi per cercare di contenere il numero di distretti e dare
finanziamenti il più possibile mirati e sempre meno a pioggia.
Con la nuova legge n.13/2014 si torna alla vecchia denominazione di distretto industriale (si
esclude tutto ciò che non è manifatturiero), che viene definito un sistema produttivo locale
all’interno di una parte definita del territorio regionale, caratterizzato da un’elevata
concentrazione di imprese manifatturiere industriali e artigianali (l’artigianato è stato uno dei
settori più colpiti dalla crisi economica), con prevalenza di piccole e medie imprese, operanti su
specifiche filiere produttive o in filiere a queste correlate rilevanti per l’economia regionale
(distretto becattiniano).
La regione vuole cogliere quello
che sta cambiando nel
territorio; perciò, individua un
altro soggetto, ovvero la rete
innovativa regionale: è un
sistema di imprese e soggetti
pubblici e privati presenti in
ambito regionale (ma non
necessariamente
territorialmente contigui) che
operano anche in settori diversi
e sono in grado di sviluppare
un insieme coerente di iniziative e progetti rilevanti per l’economica regionale. L’aggregazione
deve essere non solo di imprese, ma anche di soggetti pubblici e privati (soggetti istituzionali).
Questi devono avere sede nel territorio regionale, ma non è necessario che siano spazialmente
vicine tra loro (ciò che ci permette di metterle insieme sono i legami di rete e non la vicinanza
fisica sul territorio come nel distretto), possono operare in settori merceologici diversi. Qui viene
inoltre mantenuto l’approccio dall’alto, ovvero sono le reti ad auto riconoscersi e a presentare un
insieme di iniziative e di progetti. Le reti sono aggregazioni molto più ampie, sviluppano tematiche
e progetti legati ad ambiti più innovativi rispetto a quelli tradizionali dei distretti.
La legge individua anche le aggregazioni d’imprese: ammette, dunque, a finanziamento anche
piccole coalizioni di imprese (almeno tre imprese) che si riuniscono e si aggregano per sviluppare
un progetto strategico comune nelle forme stabilite dalla legge. Questo avviene perché nel tessuto
regionale ci sono tante piccole imprese che non appartengono né ad un distretto né a reti, ma
vanno comunque aiutate nel momento in cui riescono a sviluppare progetti strategici.
I criteri di individuazione del distretto (art.3), sulla base di questa definizione, diventano
nuovamente, in parte, di carattere quantitativo:

 la concentrazione di aziende manifatturiere, che va rilevata attraverso opportuni indici


calcolati sulla base del censimento delle attività produttive del 2011. Per individuare questi
indici la regione si è affidata ad uno studio dell’Università di Padova.
 la storicità del distretto: per ovviare al fatto che tante aggregazioni erano arrivate a
riconoscimento senza essere distretti, questi sistemi locali devono dimostrare di avere una
dimensione storica, di essere radicati da tempo nel territorio. La legge stabilisce che la storicità
del distretto può essere dimostrata dalla presenza di centri di documentazione della cultura
del lavoro, del prodotto, centri che testimoniano che queste produzioni sono presenti da
tempo sul territorio. Se questi centri di documentazione mancano (non in tutti i distretti ci
sono), la storicità può essere dimostrata indirettamente attraverso la letteratura scientifica
(libri, studi, articoli che testimoniano la dimensione storica del distretto).
 la competitività in tema di innovazione e di internazionalizzazione: ci devono essere soggetti
all’interno dei distretti che brevettano, partecipazione alle principali iniziative in ambito
internazionale, devono essere imprese rivolte all’esportazione.

La legge stabilisce che ciascun distretto e rete deve avere un rappresentante: le imprese che
aderiscono ai distretti e i soggetti pubblici nelle reti devono individuare un soggetto giuridico che
rappresenti il distretto, che faccia da interlocutore nei rapporti con la regione. Questo soggetto
raccoglie le istanze, le esigenze delle imprese che operano nei distretti, i progetti delle reti
innovative. Questi soggetti sono, per quanto riguarda i distretti, dei consorzi, che fanno da soggetti
giuridici e rappresentati.
Sulla base di criteri così restrittivi, sono stati riconosciuti solo 17 distretti (il numero si riduce
considerevolmente), che sono effettivamente quelli storici.
Nella legge sono indicate degli ambiti di intervento all’interno dei quali si possono presentare i
progetti. L’articolo n.7 della legge del 2014 ci indica questi ambiti di intervento, che sono quelli che
possono sollecitare la competitività del distretto:

 ricerca e innovazione > sfida dei distretti nell’ambito post-crisi e post-pandemia. Ricerca di
nuovi prodotti e processi produttivi, progetti che riguardano lo scambio di tecnologie e
conoscenze tra le imprese.
 internazionalizzazione > tutte le iniziative che permettono di far conoscere le imprese e i
prodotti dei distretti sui mercati globali; si possono finanziare anche la partecipazione a grandi
fiere del settore
 infrastrutture > sia in senso fisico che
servizi. Potrebbero essere
infrastrutture logistiche, infrastrutture
digitali (progetti che finanziano
l’introduzione nelle imprese delle
nuove tecnologie digitali che vanno a
ridurre il digital divide)
 sviluppo sostenibile e salvaguardia
ambientale
 difesa dell’occupazione e sviluppo di
nuova occupazione > si specifica che si
possono finanziare anche quei progetti
che riguardano il rientro di produzioni
precedentemente delocalizzate (riferimento non esplicito al tema del reshoring)
 sviluppo di imprenditoria innovativa e di nuova o rinnovata imprenditorialità > si fa riferimento
alle start-up
 partecipazione a progetti promossi dall’UE > si specifica anche in materia di cluster (altro modo
di definire questi sistemi produttivi locali che si utilizza nella letteratura internazionale e nei
documenti dell’UE)
 ogni ulteriore iniziativa finalizzata al rafforzamento competitivo delle imprese
La produzione di calzature nella nostra regione è organizzata in tre aree specializzate di
produzione che, guardando alla normativa attuale, avremmo due distretti (Montebelluna e Riviera
del Brenta), mentre il distretto veronese non ha soddisfatto i criteri (è definito in un altro elenco
che raggruppa aree di produzione specializzate che non soddisfano questi criteri restrittivi). Sono
tre aree di produzione diverse dal punto di vista del prodotto: Montebelluna è specializzato nella
calzatura, attrezzatura e abbigliamento sportivo; Riviera del Brenta (tra Padova e Venezia) è
specializzato nella produzione di una scarpa fine soprattutto per donna rivolta ad un segmento di
mercato elevato (prodotto costoso > i produttori di questa area sono licenziatari dei grandi marchi
della moda); il distretto di Verona è specializzato maggiormente nella produzione i una scarpa di
fascia di mercato media o media-bassa.
Montebelluna e Riviera del Brenta hanno un’origine ed una traiettoria di sviluppo comune:
entrambi sono distretti con una forte storicità ed entrambi traggono origine da un nucleo di
specializzazione artigianale (‘800). Si passa poi ad una produzione industriale (sistema di fabbrica).
Certi storici vedono le origini del distretto nell’origine veneziana: Venezia non era specializzata
solo nei commerci, ma aveva anche delle specializzazioni manifatturiere ben precise, tra cui la
produzione di scarpe. Queste produzioni venivano realizzate soprattutto nei domini di terra ferma.
Verona ha avuto, invece, una nascita ed un’evoluzione del tutto diversa: non c’è una vera e propria
storicità. Le imprese si sono sviluppate soprattutto come terziste di imprese tedesche negli anni
’50 (non ci sono preesistenze). Dal punto di vista evolutivo il distretto veronese è stato più colpito
dalla delocalizzazione produttiva: alcune imprese si sono trasferite o hanno attivato rapporti con
sub-fornitori soprattutto nell’est Europa (Romania soprattutto). Qui ci siamo accorti del fenomeno
delocalizzazione: dalla metà degli anni ’90 il flusso di importazioni di calzature verso la provincia di
Verona cresce sempre più dalla Romania (non stavamo importando, ma sono imprese che
producono in Romania e che poi
immettono i prodotti nel mercato
domestico).
Il distretto di Montebelluna si trova
nella parte occidentale della
provincia di Treviso. Il distretto è
costituito da 16 comuni (15 in
provincia di Treviso, 1 in provincia di
Belluno). Questa è l’individuazione
della regione Veneto (con altre fonti,
e quindi criteri meno o più elastici,
troviamo dati diversi).

FASE DI INCUBAZIONE. All’inizio dell’’800 troviamo una decina di laboratori artigiani (botteghe di
calzolai dove si produceva questo prodotto molto rudimentale e rozzo, che era una scarpa da
lavoro con la tomaia in cuoio e la suola in legno). Questo primo nucleo si espande: già attorno al
1870 siamo a 50 laboratori e, un secolo dopo, agli inizi del ‘900 siamo a 200 laboratori artigiani: c’è
stata una continua crescita nel tempo che ha permesso che questo substrato non si perdesse.
Siamo in un’area agricola che rimane ancor tale (non c’è uno sviluppo industriale tale da cambiare
l’economia dell’area). Tutto viene appreso attraverso il lavoro (non ci sono scuole, istituti). Questo
tessuto si è sviluppato in quest’area per la posizione, che è ottimale tra aree di
approvvigionamento delle materie prime (pellami dell’alto vicentino e legno dei boschi di
Montebelluna); inoltre, questo prodotto era acquistato da tutti i montanari della zona (c’era un
mercato di sbocco). Ovviamente giocano un ruolo importante anche l’attitudine al rischio, lo
spirito di imprenditorialità, ecc.
TRANSIZIONE AL SISTEMA FABBRICA. Tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900 nascono le
aziende storiche dell’area: Tecnica, Nordica, Dolomite. Ci sono eventi esterni che inducono lo
sviluppo di questo distretto, quali:

 forniture di comandi militari locali nella


Prima Guerra mondiale; vista questa
specializzazione, si passa dalla scarpa con la
suola in legno a quella con la suola in cuoio.
Le imprese più grandi hanno potuto
avvantaggiarsi di una prima accumulazione
di capitale che le ha poi portate ad un
passaggio al sistema industriale
 diffusione dell’alpinismo e conseguente
aumento della domanda di scarpe da roccia
 prima diffusione dello sport sciistico (sport olimpico negli anni ’30 > sport di élite, non di
massa)
 ASSISTIAMO SEMPRE AD UNA DOMANDA STATICA!!!
Sotto l’impulso di questi avvenimenti vediamo dei cambiamenti importanti all’interno del
distretto: il distretto comincia ad assumere alcune caratteristiche peculiari, come la capacità di
cogliere sempre il cambiamento, la capacità di innovare. L’innovazione è una sorte di filo rosso che
attraversa tutta la storia del distretto ed è ciò che lo ha mantenuto in vita. Montebelluna comincia
a passare al sistema di fabbrica, non perché ci siano i macchinari moderni per la produzione di
calzature, ma perché la produzione non è più organizzata in botteghe (sia la manodopera che i
mezzi sono riuniti in uno stabilimento che comincia ad assumere i tratti della produzione
industriale, nonostante i macchinari rudimentali). Montebelluna coglie queste trasformazioni del
mercato e comincia a configurarsi come specializzata nella scarpa da montagna, ovvero la
fisionomia futura del distretto (da scarpa da lavoro a scarpa da montagna). Inoltre, assistiamo alla
prima diversificazione produttiva: i produttori montebellunesi sono i primi a realizzare uno
scarpone da sci monouso in cuoio (prima si adottavano delle calzature da montagna adattanti,
mentre ora abbiamo un prodotto specifico). Questo spiazza la concorrenza.
Contemporaneamente, aumenta la gamma di prodotti (scarpe da tennis, calcio, ecc.). L’impatto
del settore calzaturiero sulla base economica dell’area e sul territorio rimane ancora contenuto: il
numero di occupati nel settore tessile, in questo momento, è maggiore rispetto a quello del
settore calzaturiero (più tardi scomparirà il primo e sarà il calzaturiero a svilupparsi) e di queste
prime aziende non è rimasto nulla sul territorio, ma sono state assordite dal grande sviluppo
industriale del periodo successivo (non vediamo tracce di archeologia industriale sul territorio). In
questo territorio nasce una banca locale (Banca di Montebelluna, 1890), soggetto che sostiene
l’imprenditoria con finanziamenti.
FORMAZIONE DEL MODELLO DISTRETTUALE (specializzazione di fase). In questo periodo ci sono
diversi eventi che fanno da traino, quali l’aumento della domanda di attrezzature sciistiche per
effetto di eventi sportivi che fanno conoscere i produttori montebellunesi nel mondo (gli alpinisti
del K2 indossano scarponi montebellunesi, gli atleti delle Olimpiadi di Cortina indossano questi
scarponi > specie di pubblicità). Questo distretto si muove all’interno della cornica complessiva,
cioè l’Italia dei primi decenni del secondo dopoguerra è in un periodo di forte espansione, di
apertura dei mercati: oltre a questi eventi specifici, c’è anche un contesto comune a tutte le
imprese e distretti che è favorevole. Inoltre, ci sono poche barriere d’entrata per i produttori: non
ci sono vincoli, anche tecnologici, molto stringenti che limitano l’entrata di imprese nel mercato
(c’è una prima proliferazione di imprese distrettuali). Vengono introdotti i primi macchinari
moderni (sistema di fabbrica) e comincia a configurarsi un’organizzazione del lavoro in cui
abbiamo imprese committenti che fanno la progettazione, realizzano l’assemblaggio dei prodotti e
si occupano della distribuzione, e imprese di fase che realizzano esclusivamente una fase del ciclo
produttivo o una componente (divisione del lavoro tipicamente distrettuale). Questa
organizzazione distrettuale si va a consolidare grazie a fenomeni di imprenditorialità per spin-off:
ex dipendenti delle imprese più grandi si mettono in proprio e lavorano come sub-fornitori, terzisti
delle imprese madri.
RIORGANIZZAZIONE E CRESCITA DEL DISTRETTO (area sistema integrata). Ciò che fa transitare il
distretto da una fase di formazione ad una fase di sviluppo del distretto non sono solo fattori
esterni, come l’aumento della domanda di calzature sportive, scarponi da sci, attrezzature
sciistiche (non parliamo più di domanda statica), ma è l’innovazione tecnologica, che innesca la
seconda grande diversificazione produttiva del distretto, ovvero l’invenzione rivoluzionaria dello
scarpone in plastica. L’idea di sostituire il cuoio con la plastica era un’idea che già girava (i primi
sono stati gli americani), ma il merito dei produttori di Montebelluna è stato quello di inventare un
processo produttivo più semplice che arrivava ad un prodotto più resistente (innovazione che ha
avuto successo nei mercati): gli americani hanno realizzato l’innovazione radicale (che cambia un
intero settore produttivo ex novo), mentre i produttori di Montebelluna l’innovazione
incrementale (che migliora un prodotto o processo produttivo). È stata quest’ultima ad avere
successo e ad entrare nei processi di produzione: gli americani realizzavano gli scarponi da sci
facendo colare le materie plastiche negli stampi, mentre i montebellunesi inventano un
macchinario che inietta direttamente le materie plastiche sotto forma di granulati direttamente
negli stampi. Interessante è che Nordica fu la prima impresa ad adottare questo procedimento,
che però è nata dalla collaborazione tra un’impresa che lavorava con materie plastiche e
un’impresa che sperimentava questi macchinari: dal connubio di queste due piccole realtà nasce
quest’innovazione, adottata poi dai principali player del settore. Quest’innovazione ha
destrutturato e ristrutturato il distretto, ha contribuito a riorganizzarlo. A fronte di
quest’innovazione, che comporta parecchi investimenti in macchinari, le imprese più strutturate e
con più risorse economiche introducono l’innovazione; un nucleo di imprese continua a produrre
scarponi da sci con il cuoio e presto escono dal mercato; altre imprese non hanno le risorse
finanziarie per utilizzare questi macchinari, orientandosi verso altri tipi di produzione che
utilizzano sempre materiali plastici, sintetici, ma non richiedono grandi investimenti in macchinari.
Tutta una serie di produttori si orienta, dunque, verso la produzione di scarpe sportive (e non da
sci), come scarpa da motociclismo, da calcio, tennis, giocando su fattori, quali il colore, il design.
Altro settore importante che si evolve in questo periodo grazie all’introduzione della plastica è il
settore contiguo del doposcì: nel 1970 l’impresa Tecnica lancia il primo doposcì completamente
sintetico: il Mamboot. Sulla scia di Tecnica si sviluppa un comparto di produzione di doposcì, che
ha barriere all’entrata piuttosto basse perché non richiede grandi investimenti in macchinari e
grandi tecnologie: è un prodotto che si realizza con tecnologie poco costose, non richiede grandi
competenze. Giocano un ruolo importante il design, la moda, il colore. Il distretto comincia ad
assumere il modello organizzativo del decentramento a cascata, o dell’area sistema integrata: non
abbiamo più committente e sub-fornitore, ma abbiamo diversi livelli di sub-fornitura: imprese
committenti che attivano delle reti di sub-fornitori e questi attivano delle imprese più piccole, dei
laboratori artigiani. È, dunque, un sistema distrettuale più complesso, non solo per ragioni
organizzative, ma anche perché l’introduzione della plastica determina lo sviluppo di una serie di
settori contigui (merceologicamente non appartengono al calzaturiero, ma entrano a far parte
della filiera del distretto > distretto sempre meno marshalliano, ovvero mono-specializzato, e
sempre più evoluto e pluri-specializzato), quali il settore dei macchinari, i settori che sperimentano
nell’ambito delle materie plastiche, settori che producono gli stampi per gli scarponi da sci,
imprese specializzate nello stampaggio, nel design, nella progettazione, il comparto dei servizi
(marketing, pubblicità, logistica). Altro elemento che fa conoscere il distretto all’esterno sono le
sponsorizzazioni sportive: le imprese di Montebelluna si legano o ad intere squadre (nazionale di
sci) o singoli sportivi. Questo viene chiamata fase di esplosione, di Big Ben del distretto perché
crescono tutte le dimensioni: numero di imprese, occupazione, produzione, esportazioni (il
distretto si configura come uno dei principali produttori nel segmento degli scarponi da sci e
calzature sportive).
PRIMA CRISI E STRATEGIE DI CONTRASTO (maturità). Alla fine degli anni ’70 vediamo l’apice del
distretto, che segna l’inizio della discesa: questo periodo di forte crescita si interrompe negli anni
’80, periodo in cui il distretto entra nella fase di maturità e inizia a registrare le prime crisi
(prematuramente rispetto ad altri distretti che negli anni ’80 ancora crescono). La prima crisi si
registra tra il 1980 e 1982, mentre la seconda nel 1987 (crisi generalizzata che investe tutto il
settore calzaturiero italiano). La prima crisi è determinata da fenomeni di saturazione del mercato,
aggravata dall’aumento del costo di materie prime, dovuto alla seconda crisi petrolifera
(conseguente aumento di costi di produzione), e del costo di lavoro (determinante per passare da
una produzione fordista ad una post-fordista). Inoltre, dagli anni ’80 nelle medie montagne si
vedono inverni scarsamente nevosi: questo fenomeno, consolidatosi nella fase attuale, è legato al
processo di cambiamento climatico di cui allora quasi non si parlava. Ciò ha degli effetti sulla
vendita di questo prodotto tipicamente invernale. La crisi del 1987 aumenta anche la
competizione internazionale, per quanto riguarda sia la produzione di scarponi da sci sia di scarpe
sportive in generale. Il segmento dello scarpone da sci vede come competitors altri produttori di
paesi economicamente avanzati (Germania, Francia), avvantaggiati perché i loro Paesi applicano
misure per favorire le esortazioni, mentre abbiamo una competizione che si esercita ad un livello
più basso che riguarda il comparto della scarpa sportiva, dovuto prevalentemente al fatto che altri
produttori, soprattutto americani, hanno spostato da tempo le loro produzioni in Paesi a basso
costo del lavoro, riuscendo così a contenere i costi. Negli anni ’80 cambia lo scenario di riferimento
del distretto. Montebelluna, per rispondere alle crisi, mette in atto sia strategie difensive
(delocalizzazione produttiva) che aggressive (innovazione, continua diversificazione). La
delocalizzazione è una strada percorsa da tutti i distretti: si spostano in Paesi a basso costo del
lavoro (est Europa, come la Romania > delocalizzazione di medio raggio; nord Africa, sud-est
asiatico, Cina per i produttori più grandi) le lavorazioni a più basso valore aggiunto, come la
componentistica della scarpa sportiva (lacci, suole), alcune fasi di lavorazione che richiedono molta
manodopera ma non gradi competenze. Rimangono nel distretto le fasi di progettazione, di
ideazione del prodotto, la produzione di macchinari, le attività che prevedono la lavorazione di
materiali, le fasi di produzione della scarpa per la produzione di alta gamma (fascia di mercato
medio-alta), organizzazione della logistica, servizi. Oltre al committente, si sono spostati anche
molti sub-fornitori (soprattutto piccole imprese) per non perdere le commesse. Tuttavia, il
distretto di Montebelluna ha una grande capacità di innovare, diversificare, spostarsi in settori
contigui: si continua, infatti, ad innovare in termini di materiali, di produzioni, soprattutto nel
settore dello scarpone di sci; si diversifica in settori contigui (nasce il segmento dell’abbigliamento
sportivo > distretto dello sport system); nascono nuovi prodotti (pattini in linea), tipologie di nuove
calzature sportive (fenomeno Geox > scarpa sportiva da passeggio che nasce sfruttando questo
brevetto della Geox lanciata come “la scarpa che respira”). Contemporaneamente, il distretto si è
aperto verso l’esterno: alcune imprese di Montebelluna hanno fatto acquisizioni ed alleanze con
altre imprese straniere del settore e multinazionali straniere sono entrate nel distretto attraverso
processi di acquisizione o fusione di imprese montebellunesi, ma sono entrate anche
localizzandovi dei centri di ricerca (all’estero era riconosciuto il know-how del distretto). Dal punto
di vista delle dinamiche delle impresse, i dati sono drammatici in questo periodo, le variabili viste
esplodere nel periodo precedente non esplodono più: il numero di imprese e di addetti si riduce
drammaticamente.

Ad oggi, nel distretto sono rimaste le nicchie produttive definitesi storicamente e quelle nate negli
ultimi decenni: al cuore del distretto troviamo il nucleo costituito dalla calzatura da montagna e lo
scarpone da sci (innovazioni più attuali, il segmento che continua ad innovare); accanto al nucleo,
ci sono tuti gli altri segmenti che riguardano la calzatura e l’abbigliamento sportivo (produzione di
scarpe tecniche), il segmento della scarpa sportiva casual (Geox, Stonefly), delle attrezzature
sportive, dell’abbigliamento casual sportivo (in termini di fatturato è il segmento più importante) e
altri settori collaterali, che concorrono al funzionamento del distretto e di tutta la filiera (imprese
che sperimentano sui materiali plastici, industrie che producono stampi, macchinari e componenti,
il design, la progettazione, la ricerca e sviluppo, la logistica). Le produzioni si calzature riguardano
ogni tipo di scarpe: scarpe ortopediche, da trekking, antinfortunistiche.
Qualche indagine durante la pandemia ha rivelato che il distretto ha visto un crollo delle
esportazioni nei primi mesi del lockdown, soprattutto per il segmento dello scarpone da sci e
attività outdoor; ha sofferto meno il settore dell’abbigliamento sportivo. Analisi di quest’anno
sottolineano la ripresa del distretto ed oggi, nel post-pandemia, il distretto punta alle nuove
tecnologie.
Rapporto tra distretto e legge regionale n.13/2014. Anche con le precedenti normative il distretto
è sempre stato riconosciuto e ha sempre presentato patti di sviluppo, anche quando la normativa
lasciava agli enti locali la possibilità di auto riconoscersi. Il distretto è stato riconosciuto e ha
nominato come soggetto giuridico responsabile il consorzio UNINT, un consorzio che lavora per
favorire l’integrazione tra imprese su progetti di ricerca, di internazionalizzazione di cui fanno
parte Unindustria di Treviso, la Confindustria di Padova e la Confindustria di Belluno Dolomiti.
Nel programma di sviluppo 2017-2020 le linee di ricerca sono state soprattutto quattro: ricerca ed
innovazione relativa ai processi produttivi e ai prodotti (introduzione delle tecnologie dell’Industria
4.0, come sensori, stampa in 3D; sostenibilità ambientale, ovvero fare ricerca e migliorare i
processi e i prodotti sia per la produttività e la performance dei prodotti sia per renderli meno
impattanti dal punto di vista ambientale > ridurre consumi energetici, cercare materiali plastici
biocompatibili, cercare di indurre una circolarità nei processi produttivi, ovvero riutilizzare lo
scarto); internazionalizzazione (supportare progetti di imprese che vanno all’estero o che
partecipano alle principali fiere/manifestazioni del settore > si sono mosse soprattutto le piccole e
medie imprese, perché le grandi imprese non hanno bisogno del supporto della regione per
l’internazionalizzazione); formazione del capitale umano (è legata all’introduzione di queste nuove
tecnologie, per le quali le risorse umane non hanno le competenze).
CLUSTER E CLUSTER HIGH-TECH. IL CASO SILICON VALLEY.
Al di fuori del nostro Paese come si distribuiscono le attività economiche dal punto di vista
spaziale? Le attività economiche hanno la tendenza a raggrupparsi spazialmente anche quando
non esistono quei meccanismi di divisione materiale del lavoro tipici del distretto, perché vale il
meccanismo delle economie di agglomerazione (dalla vicinanza spaziale le imprese traggono dei
benefici). Queste attività non sono solo di produzione materiale, ma sono anche di servizi, di
qualunque tipo. Tipico caso sono i servizi finanziari a New York, che tendono a raggrupparsi
spazialmente nella zona di Wall Street, a Milano abbiamo il quadrilatero della moda
(organizzazione e promozione dell’alta moda).
Nella letteratura internazionale per individuare questi raggruppamenti di imprese si utilizza il
termine cluster, in alternativa al distretto. “Cluster” significa raggruppamento e questo concetto
ha una paternità, che è l’economista americano Porter: sviluppa l’idea e la definizione di cluster in
due lavori del 1989 (lavori sul vantaggio competitivo delle nazioni) e un articolo del 1999 (dove
illustra la teoria dei cluster). Porter parte dall’osservazione che le imprese più innovative di tutti i
settori produttivi tendono a concentrarsi in alcune regioni e a formare dei raggruppamenti, i
cluster. Tutta questa letteratura sui distretti e di Porter va a smentire l’ipotesi dello spazio nella
globalizzazione come tutto omogeneo, uguale: se esiste questa tendenza delle attività economiche
a concentrarsi, lo spazio non è omogeneo, uguale.
Il cluster è una concentrazione geografica di imprese, fornitori di beni e servizi specializzati e
istituzioni, fortemente interconnessi, che competono, ma anche collaborano tra loro in un
particolare settore.
C’è l’idea della concentrazione geografica che, però, trae in inganno: “geografica” non significa
sempre spazialmente contigua come si intende per il distretto; c’è l’elemento della
specializzazione; ci sono altri soggetti che normalmente non troviamo nei distretti, come le
istituzioni; elemento che troviamo sia nei cluster che nei distretti è la duplice matrice
collaborazione-competizione.
Andando a vedere i cluster che Porter individua materialmente negli USA, vediamo che si perde la
specificità industriale del distretto: ci sono molte attività economiche, sia di carattere
manifatturiero che di servizio. Porter vede il cluster in tutte le agglomerazioni di attività
economiche che troviamo nel mondo e che non fanno riferimento al meccanismo delle economie
di localizzazione.
La categoria del cluster è più ampia rispetto al distretto industriale.
L’elemento più importante non è la vicinanza spaziale delle imprese, ma le reti che le collegano: è
più l’estensione di queste reti che determina il cluster. Il soggetto che più si avvicina al cluster di
Porter sono le reti innovative che delinea la regione Veneto, dove c’è una forte interazione tra le
imprese e tra le imprese ed istituzioni. Anche qui non è necessario che due imprese che attivano
questi rapporti siano vicine.
Mentre nei cluster c’è la presenza di istituzioni, nei distretti non sono previste dalla letteratura
classica: i distretti sono anti in maniera slegata da istituzioni di ricerca, università (dei legami si
stanno creando solo oggi con la regione, i comuni, le università).

INDUSTRIA/CLUSTER HIGH-TECH
L’industria ad alta tecnologia non è l’industria innovativa, perché qualunque settore può essere
innovativo, anche settori tradizionali come quello dello scarpone da sci. L’industria high tech ha
caratteristiche precise, quali:

 intensità di ricerca e sviluppo > una quota consistente degli investimenti viene destinata alla
ricerca e sviluppo
 impiega forza lavoro qualificata > ricercatori, ingegneri, tecnici, che sono figure molto
specializzate
 richiede
investimenti
consistenti, a
redditività differita
nel tempo (nel
momento in cui
elaboro
un’invenzione, tra
questa e il suo
sfruttamento
commerciale spesso passa parecchio tempo) e ad alto rischio (molti prodotti non vanno a buon
fine dal punto di vista commerciale)
 riguarda settori, quali l’aerospaziale, la robotica, le biotecnologie, le nanotecnologie,
l’elettronica (nella sua parte di progettazione e concezione), l’informatica, la farmaceutica e le
telecomunicazioni > abbiamo settori vecchi, come la farmaceutica, ma anche nuovi, come le
biotecnologie
Esistono nel mondo diverse concentrazioni spaziali di industrie high tech sia nei Paesi
economicamente avanzati o di veccia industrializzazione sia nei Paesi emergenti, a cui è dato il
nome di cluster high tech o distretti dell’alta tecnologia.
Alcuni di questi sono la Silicon Valley (California; da questo cluster è partita la rivoluzione
dell’informatica e della telematica, derivano la maggior parte dei dispositivi e servizi che
utilizziamo in questi decenni), Cambridge (UK; per quanto riguarda le biotecnologie, l’industria del
software, l’industria farmaceutica), Grenoble (Francia; abbiamo le nanotecnologie), Etna Valley
(gruppo di imprese specializzate nella microelettronica nata quando a Catania si è insediata la ST
Microelectronics, azienda italo-francese con la sede in Svizzera), Trieste (fisica), Bangalore (India; è
la Silicon Valley dei Paesi di nuova industrializzazione e riguarda il software, ecc.).
I ricercatori hanno notato che i cluster high tech presentano una serie di caratteristiche comuni,
dalle quali si possono individuare i fattori di localizzazione prevalenti dei cluster dell’alta
tecnologia. Questi fattori sono:

 elevato numero di imprese dell’alta tecnologia, ma anche di laboratori di ricerca e sviluppo di


grandi imprese; quando parliamo di imprese high tech intendiamo sia grandi multinazionali sia
imprese di piccole dimensioni, start-up che nascono in questi contesti
 presenza di almeno un’università di importanza internazionale, che richiama sia studenti che
docenti da tutto il mondo, che ha dunque una grande capacità di ricerca
 servizi avanzati, come di consulenza, finanziari (venture capital > imprese che finanziano
queste attività economiche molto rischiose)
 infrastrutture di rango elevato (queste sono aree ben collegate con l’esterno sia per le
infrastrutture di trasporto sia per quelle digitali > non devono essere grandi aree
metropolitane, ma devono essere inserite in una rete di collegamenti)
 buona attrattività del luogo (si intendono buone condizioni residenziali, buona qualità di vita.
Queste aree attirano talenti da tutto il mondo)
Ci sono altre caratteristiche che non ricorrono sempre, come centri di ricerca e sperimentazione
militari (importanti perché catalizzano finanziamenti pubblici che spesso sono la base di partenza
da cui questi cluster prendono origine) e politiche territoriali (i soggetti pubblici locali possono
mettere in atto delle politiche per attrarre la localizzazione delle imprese high tech; queste
politiche non devono essere per forza incentivi economici, ma anche condizioni favorevoli affinché
le aziende si insedino in queste aree > parchi scientifici, incubatori, si offrono terreni a prezzi
agevolati o a titolo gratuito per l’insediamento delle nuove imprese, si offrono dei servizi per
sostenere le nuove imprese).
A partire da queste caratteristiche comuni gli studiosi hanno individuato i fattori di localizzazione e
di sviluppo dei cluster high tech, ovvero dei fattori primari che devono sempre esserci. Questi
sono:

 presenza dell’università e dei centri di ricerca importanti > l’università è un produttore di


conoscenza, non solo per la ricerca di base, ma anche per quella applicata, quindi anche il
trasferimento tecnologico dall’università alle imprese. L’università ha un ruolo importante per
la creazione del capitale umano (attraggono talenti da tutto il mondo, e quindi le imprese in
queste aree hanno a disposizione una forza lavoro preparata, specializzata ed adeguata alle
loro esigenze; inoltre, riguarda anche il personale universitario: c’è mobilità tra l’università e le
imprese con professori che lavorano nell’impresa). Questo è un caso di economia di
agglomerazione, e non di localizzazione. Si creano una serie di condizioni di contesto che
facilitano la localizzazione industriale. La creazione di nuove imprese, come start-up, non è
solo una condizione indiretta, ma è diretta (sono speso le università a finanziare o predisporre i
finanziamenti per queste nuove start-up, che spesso partono da progetti universitari, tesi). Non
sono condizioni deterministiche (non è detto che l’università faccia tutto ciò), ma ci vuole una
attitudine, propensione che si consolida nel tempo alla collaborazione tra mondo
dell’università e mondo
dell’impresa (se non si collabora,
queste dinamiche non si possono
mettere in moto).
 Venture capital, o capitale di
rischio > ci riferiamo a tutte quelle
imprese che investono in attività
innovative e, in caso, molto
remunerative, ma anche molto
rischiose perché non tuti gli
investimenti riescono. Sono dei
finanziamenti che non avvengono
attraverso i normali canali di
finanziamento, come il mercato
bancario: le società di venture
capital sono società specializzate
nel fornire capitale di rischio (non
sempre sono imprese, ma possono essere anche individui, come i business angels). Le società
di venture capital finanziano, ma entrano anche nel capitale sociale di queste nuove imprese,
le accompagnano alla quotazione in borsa e forniscono non solo gli strumenti finanziari, ma
anche consulenza e sostegno in tutte le fasi di nascita e sviluppo dell’impresa. Anche in questo
caso non sono condizioni date, ma bisogna che si sia diffusa nell’area una cultura industriale
orientata a questi finanziamenti ed investimenti (questa è una differenza che distingue i cluster
e i distretti, dove non ci sono queste situazioni; anche nei distretti tecnologici non abbiamo una
presenza così massiccia del venture capital, al contrario degli USA)
 Infrastrutture, condizione che possiamo ricondurre all’esternalità > aprono queste aree
all’esterno.

IL CASO SILICON VALLEY


Dalla Silicon Valley parte la rivoluzione della telematica e dell’informatica. Qui abbiamo una forte
concentrazione di imprese high tech sia multinazionali che tantissime start-up, neoimprese (come
sono nate anche le grandi multinazionali). Geograficamente siamo nella parte meridionale della
San Francisco Bay (area metropolitana di San Francisco), ovvero coincide con la Santa Clara Valley.
Racchiude una serie di città, quali San José, in parte San Francisco, Cupertino, Santa Clara, Palo
Alto, ecc. L’appellativo di Silicon Valley è stato dato all’inizio degli anni ’70 da un giornalista che,
dopo aver visitato l’area, è rimasto sorpreso dal numero elevato di imprese che lavoravano i
semiconduttori a base di silicio. Siamo su grandi dimensioni demografiche (> 3 milioni di abitanti
ed 1 milione e mezzo di posti di lavoro) imparagonabili a quelle dei distretti italiani (100.000
abitanti a Montebelluna). È un’area con una popolazione giovane (52% dei residenti ha meno di 40
anni) e multiculturale (la popolazione proviene da tutto il mondo, col 39% dei residenti nato fuori
dagli USA e con una percentuale uguale tra popolazione bianca e quella asiatica). La Silicon Valley
è accomunata ai nostri distretti dal fatto di essere stati scoperti negli anni ’70, ma di essere nati
prima: le premesse per la nascita della Silicon Valley e il suo sviluppo avviene qualche decennio
prima. Fino agli anni ’30 questa era un’area a vocazione agricola, specializzata nella produzione
della frutta (al tempo le poche industrie erano del settore agroalimentare). Le cose cambiano negli
anni ’80 a causa del Dipartimento della Difesa americano (nei primi anni ’30 il Ministero della
Difesa localizza qui una base aerea della marina militare e verso la fine degli anni ’30 un
laboratorio di ricerca nelle tecnologie militari. Questo fa da volano per un primo sviluppo di
imprese nel settore dell’elettronica, che in molti casi non nascono qui, ma si rilocalizzano da altri
Stati degli USA. Si crea, dunque, un indotto determinato dalla rilocalizzazione di imprese del
settore dell’elettronica, che lavorano soprattutto negli strumenti elettronici che consentono di
rilevare i nemici, quali segnali radar, ma anche di imprese dell’aerospaziale, come la Lokid) e
l’Università di Stanford (quest’università, creata alla fine dell’’800 da un imprenditore che aveva
fatto fortuna nel settore delle ferrovie, non era inizialmente una grande università internazionale.
AS trasformarla in questo, è stato il professor di ingegneria elettrica Termann che per primo ha
creato legami tra università e impresa. Una delle prime imprese nate grazie alla presenza
dell’università e ai finanziamenti raccolti dal professore è uno dei colossi del settore
dell’elettronica, ovvero la HP. La HP nasce come una piccola start-up nel garage di uno dei due
studenti, Humit e Pecard: nasce su un progetto di commercializzazione del lavoro di tesi di laurea
di uno dei due, che aveva svolto la tesi di laurea su un oscillatore audio che, assieme al collega, è
stato incentivato dal professor Termann a sfruttare commercialmente. Da qui nasce la HP che
inizialmente produceva queste strumentazioni elettroniche utilizzate soprattutto in ambito
militare. La prima grande commessa di questo prodotto è, però, arrivata dalla casa di produzione
Walt Disney. I finanziamenti arrivano anche all’Università di Stanford per lavorare su progetti che
interessano l’ambito militare. Contemporaneamente nascono altre impresse dell’elettronica,
quindi l’università fa da spin-off per la nascita di altre imprese. Ciò che determina un primo
sviluppo della Silicon Valley sono la Seconda Guerra mondiale e la Guerra Fredda. Questi due
eventi catalizzano verso le prime imprese di quest’area un flusso di investimenti che consentirà di
rimanere sul mercato).
La capacità della Silicon Valley è stata quella di svincolarsi progressivamente dai finanziamenti
pubblici e di lavorare per il settore privato (processo graduale). Altro fattore importante per lo
sviluppo dell’area è la creazione dello Stanford Industrial Park (1951), il primo parco industriale
degli USA (idea innovativa > questo parco svolge la funzione di incubatore di impresa, fornendo
terreni ed edifici per l’insediamento delle industrie a titolo gratuito o prezzi simbolici, mettendo a
disposizione una serie di servizi per queste imprese di nuova generazione e procurando
finanziamenti attraverso l’Università di Stanford).
Negli anni ’50 e parte dei ’60 il
cluster è ancora molto
dipendente dai finanziamenti
pubblici (le commesse che
provengono dal settore
militare assorbono ancora il
50% della domanda dei
semiconduttori). Negli anni ’70,
però, le commesse statali si
abbassano al 10%: è già nata
un’economia in grado di
autosostenersi.
Il percorso di sviluppo della Silicon Valley avviene attraverso più traiettorie tecnologiche: partiamo
dalle strumentazioni militari e arriviamo negli anni ’50 al cambiamento di traiettoria tecnologica
(anche se in un primo momento questi prodotti sono sempre richiesti dal Ministero della Difesa >
era dei semiconduttori in silicio, che faranno la prima fortuna della Silicon Valley). A dare il via a
questo business è un’impresa che si trasferisce dall’esterno (Shockley Transistor Corporation). Alla
fine degli anni ’50 otto degli ingegneri portati nella sua impresa da Shockley abbandonano
l’impresa per darne origine ad un’altra (Fairchild), che darà vita ad una serie di spin-off aziendali e
dunque al cluster. Gli “otto traditori” via via abbandoneranno anche la Fairchild e daranno origine
a loro proprie imprese.
Le traiettorie tecnologiche sono cambiate nel tempo con le nuove scoperte ed invenzioni: i
semiconduttori a silicio sono stati alla base della creazione di microprocessori e dei PC. Il periodo
tra anni ’70 e ’90 è stato il periodo del PC a partire dal modello della Apple. Dagli anni ‘90 con l’era
di Internet si apre l’era dei servizi (software, Internet). Abbiamo poi l’era dei dispositivi mobile, dei
social network e delle start-up della sharing economy (AirB&B, Uber). Questa è l’esperienza più
innovativa in questo ambito, è un cluster high tech irriproducibile e con un raro spirito di open
Innovation.
Nonostante ciò, anche la Silicon Valley ha avuto i suoi periodi di crisi, che vediamo
nell’occupazione. In questo periodo abbiamo momenti di caduta, che coincidono con i primi anni
2000 (prima bolla speculativa, prima crisi delle società tecnologiche > sono cresciuti moltissimo gli
investimenti della Borsa in queste società high tech, ma molte di queste erano imprese che non
producevano nulla né dal punto di vista di beni fisici né di servizi > le dot.com, società legate ad
Internet e poi scomparsa dal mercato). Altro periodo di crisi è stato il passaggio tra il 2008-09-10,
ovvero della crisi economica globale che ha interessato tutti i settori. C’è anche una crisi che
coincide col periodo della pandemia (caduta dei posti di lavoro + smart working in antitesi allo
spirito della Silicon Valley).
Questi posti di lavoro sono concentrati per il 50% in community infrastructure and services (servizi
per la comunità di carattere pubblico e privato), per il 26% in Innovation and information products
and services e 16% in Business infrastructure and services (servizi all’impresa destinati soprattutto
al settore dell’high tech).
Nonostante il clima di open Innovation, abbiamo comunque i brevetti soprattutto concentrati nel
settore dei computer, delle comunicazioni (cuore dell’industria high tech).
I fattori di successo della Silicon Valley sono:

 Investimenti nel settore militare, che hanno catalizzato flussi ingenti di finanziamenti. Tuttavia,
la capacità della Silicon Valley è stata quello di svincolarsi progressivamente dall’ambito
militare e di confluire in un sistema produttivo autonomo rivolto al settore privato
 Funzione dell’Università di Stanford, che ha fornito forza lavoro specializzata e ha finanziato o
direttamente o reperendo canali di finanziamento per le iniziative imprenditoriali (non è
un’economia esterna che conferisce un vantaggio indiretto all’area, ma l’Università ha fatto da
promotore a questi finanziamenti)
 Propensione allo spin-off aziendale, che in molte aree non si riscontra
 Presenza del venture capital, che è essenziale per il finanziamento di tutte le attività
economiche
 Ambiente dinamico, multiculturale, informale e molto creativo, che non si trova in altri cluster
Le tendenze più recenti sono sotto osservazione e la più preoccupante è che molte imprese nate
nella Silicon Valley stiano oggi andando a localizzarsi altrove, quali Tesla e la Oracle (ora in Texas).
La stessa HP ha minacciato di volersi rilocalizzare in Texas.
Perché? Si sono messe in atto delle diseconomie di agglomerazione: ciò che costituiva dei vantaggi
è diventato da alcuni punti di vista uno svantaggio. Uno dei motivi per cui molti imprenditori
prendono in considerazione la rilocalizzazione in altra area è l’alta tassazione, sia per quanto
riguarda le imprese che le persone. Altri motivi sono il costo della vita (aumentato soprattutto per
gli alloggi > tipica diseconomia di agglomerazione che interviene in contesti particolarmente
sviluppati). Certe imprese, tra cui Tesla, hanno lamentato i continui lockdown imposti dal
governatore della California, bloccando l’attività delle imprese.
Queste condizioni non si sono riprodotte in Texas, dove la tassazione è più bassa (per attrarre
queste imprese), non ci sono stati così tanti lockdown e il costo della vita è più basso.
Anche in queste aree si sono verificati processi di delocalizzazione produttiva: via via la produzione
del computer, che diventa più standardizzato, si sposta in aree a basso costo del lavoro. Ad
esempio, la Apple crea una catena del valore con imprese sub-fornitrici localizzate in tutto il
mondo, mentre nella casa madre si concentrano le attività a più elevato valore aggiunto.
LA LIBERALIZZAZIONE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE: IL MULTILATERALISMO
E LA WTO
La liberalizzazione del commercio internazionale si è realizzata attraverso due modalità principali:
il multilateralismo ed il regionalismo.
La liberalizzazione commerciale è un processo che si è messo in moto soprattutto dopo la Seconda
Guerra mondiale. Avviene secondo due modalità:

 multilateralismo > liberismo commerciale in senso stretto, ovvero l’abbattimento a livello


globale delle barriere che ostacolano il trasferimento dei beni e dei servizi. È all’interno di
questo percorso che è stato importante il ruolo della WTO, che ha fatto da guida al processo
del multilateralismo
 regionalismo commerciale > avviene attraverso la costituzione degli accordi regionali per il
commercio. Ci si riferisce alla situazione in cui due o più Paesi creano un accordo per ridurre o
eliminare le barriere commerciali al loro interno, escludendo da questo vantaggio i Paesi
esterni all’accordo. I Paesi che sottoscrivono un accordo regionale per il commercio sono Paesi
geograficamente vicini, almeno localizzati nello stesso continente
Gli accordi regionali sembrano in contraddizione col multilateralismo.
Le barriere agli scambi possono essere barriere tariffarie (quelle che modificano direttamente i
prezzi dei beni che si scambiano attraverso l’introduzione di un’imposta, come il dazio doganale) e
non tariffarie (quelle che o influenzano indirettamente i prezzi di prodotti o distorcono il processo
del commercio internazionale perché limitano l’accesso al commercio ad alcuni Paesi; sono quelle
più difficili da individuare, chiamate anche barriere occulte. Su queste si gioca oggi la
liberalizzazione commerciale > quelle tariffarie si sono molto abbassate dalla Seconda Guerra
mondiale ad oggi. Esempi sono i contingentamenti, ovvero limiti quantitativi imposti alle
importazioni di determinati prodotti, le barriere sanitarie e di standard, ovvero normative che un
Paese pone a tutela dei consumatori o ambiente > come la carne americana trattata con ormoni
vietata in Europa, i sussidi che un Paese può mettere a sostegno delle proprie esportazioni).
IL MULTILATERALISMO
Nel 1944 è stata indetta da parte degli USA la conferenza di Bretton Woods, da cui sono usciti tre
importanti organismi che sono chiamati i regolatori della globalizzazione, che sono il Fondo
monetario internazionale, la Banca Mondiale e l’International Trade Organization. I primi due
esistono tutt’ora con lo stesso nome, mentre l’ultimo ha avuto una nascita e un percorso più
travagliato: ciò ha portato alla costituzione della WTO.
L’International Trade Organization, che avrebbe dovuto essere l’istituzione che avrebbe
liberalizzato il commercio internazionale, è rimasta sula carta: l’organizzazione non è mai nata. Di
questa organizzazione è sopravvissuto solo un accordo: il General Agreement on Tariffs and Trade
(GATT 1947). Questo accordo è stato sottoscritto nel 1947 da 23 Paesi ed è entrato in vigore nel
1948. È importante perché tutto il processo di liberalizzazione commerciale del secondo
dopoguerra fino alla costituzione della WTO si è svolto nell’ambito del GATT 1947: questo accordo
ha costituito il quadro di riferimento per la successiva liberalizzazione commerciale. Nel corso del
tempo il GATT si è evoluto attraverso una serie di 8 negoziati, chiamati rounds, durante i quali
sono state concordate riduzioni tariffarie. Il più importante di questi negoziati è quello che parte
nel 1986: l’Uruguay Round. Questo è il round negoziale da cui parte il processo che porterà alla
costituzione di una vera e propria organizzazione, cioè la WTO. Nelle intenzioni dei negoziatori
questo round doveva risolversi nel giro di 4-5 anni, ma in realtà la WTO si è costituita nel 1994 ed è
diventata operativa nel 1995: il 1° gennaio 1995 la WTO è diventata l’organizzazione che presiede
la liberalizzazione commerciale. Dopo la costituzione della WTO ci saranno altri round negoziali,
come il Doha Round del 2001 che termina con l’Accordo di Bali nel 2013.
Gli USA indicono la conferenza di Bretton Woods prima della fine della WW2 perché volevano
cominciare a discutere di quello che sarebbe stato l’ordine economico mondiale una volta
terminata la guerra. Gli USA volevano evitare di ricadere in quelle condizioni che si sono prodotte
tra le due guerre, cause economiche della WW2, quali protezionismo e svalutazioni monetarie: tra
le due guerre, soprattutto dopo la crisi del ’20, tutti i Paesi alzano i dazi (adottano politiche
protezionistiche per tutelare le produzioni interne e convogliare le domande verso la produzione
interna); contemporaneamente svalutano la moneta per sostenere le esportazioni. Se tutti
adottano questa strategia, tutto il commercio internazionale si blocca, come in effetti succede: si è
prodotto, soprattutto dopo la crisi del ’29, un crollo del commercio internazionale del 60%. Gli USA
pensavano, in merito alla ricostruzione post-bellica, ad un sistema di liberalizzazione commerciale,
di libera circolazione dei capitali che andasse a vantaggio di tutti i Paesi e alla creazione di una
serie di istituzioni che governassero questo processo di liberalizzazione e questo nuovo sistema
economico globale che doveva emergere dopo la WW2. Alla base di questa filosofia c’è la legge
economica dei vantaggi comparati, ovvero ciascun Paese si specializza nelle produzioni per le quali
detiene effettivamente un vantaggio, esporta questi beni ed importa tutti gli altri (vantaggio anche
per i consumatori che possono avere sul mercato più beni a prezzi contenuti). Alla conferenza
partecipano le potenze mondiali dell’epoca, con l’esclusione della Germania e dei suoi alleati.
Quando il sistema si metterà in moto, anche i Paesi sconfitti entreranno in questo meccanismo.
L’esito più importante della conferenza è stata la realizzazione di queste tre organizzazioni
precitate:

 Fondo Monetario internazionale > da statuto si occupa di promuovere la cooperazione


monetaria internazionale e la stabilità dei rapporti di cambio, ma ha in realtà niente più che
una funzione di monitoraggio, perché il sistema di cambi fissi uscito dalla conferenza è stato
abolito negli anni ’70. Si occupa di sostenere la crescita economica, l’occupazione e
l’espansione del commercio internazionale ed offre assistenza finanziaria a Paesi che hanno
problemi di squilibri nella bilancia dei pagamenti. Il Fondo si finanzia con le quote versate dai
Paesi aderenti (ogni Paese versa una quota direttamente proporzionale alla sua situazione
economica, al suo livello di ricchezza > questo meccanismo è importante perché va ad influire
sul meccanismo del voto, in quanto non vale il principio un Paese=un voto, ma il voto è
ponderato in base alla quota che ciascun Paese versa al Fondo Monetario. Visto che molte
decisioni all’interno del Fondo vengono prese con maggioranze qualificate, ovvero 2/3 o 3/4
degli aventi diritto, e i diritti di voto sono ponderati in base alla quota versata, i Paesi che
condizionano le decisioni sono USA, Giappone, Germania, Francia, UK e Cina, ovvero i Paesi
ricchi). Per ottenere i finanziamenti del Fondo Monetario i Paesi devono sottostare ai piani di
aggiustamento strutturale, cioè devono mettere in ordine i propri conti (agire sul versante
dello stato sociale, riducendo i finanziamenti per lo stato sociale, privatizzare > azioni che
vanno a colpire gli stati più deboli delle popolazioni > l’azione del Fondo Monetario è per
questo molto contestata). Il Fondo Monetario è intervenuto nel finanziamento di molti Paesi,
non solo poveri, ma anche per sostenere la transizione dei Paesi dell’Est Europa dall’economia
pianificata all’economia di mercato, per salvare la Grecia durante la crisi economica.
 Banca Mondiale > è nata inizialmente con il nome di Banca per la ricostruzione e lo sviluppo
perché la sua funzione principale doveva essere quella di sostenere la ricostruzione dei Paesi
usciti dalla WW2, ovvero i Paesi europei e il Giappone. Già negli anni ’60 questa funzione è
venuta meno in quanto i Paesi si erano ripresi dallo shock della guerra e negli anni ’70 queste
economie crescevano a pieno ritmo. La funzione è stata quindi riorientata verso i finanziamenti
di progetti di sviluppo (grandi infrastrutture, come dighe, centrali idroelettriche, aeroporti, che
in molti casi hanno generato fortissimi danni ambientali) nei Paesi poveri. Oggi la funzione
della Banca Mondiale è stata riorientata verso un obiettivo di riduzione della povertà e lotta
alla corruzione nei Paesi in via di sviluppo (finanzia ancora microprogetti, che riguardano
l’agricoltura, il finanziamento di imprese locali, l’accesso all’acqua potabile, più vicini ad
obiettivi di sviluppo locale). Anche la Banca Mondiale viene finanziata dai Paesi aderenti, ma è
più democratica del Fondo perché una quota dei diritti di voto è ponderata, mentre un’altra è
uguale a tutti i Paesi. Partendo da questi finanziamenti dei Paesi membri, la Banca Mondiale si
finanzia anche emettendo delle proprie obbligazioni sui mercati. Il vantaggio per i Paesi che
ricorrono ai finanziamenti della Banca Mondiale è di avere dei tassi d’interesse più bassi
rispetto a quelli operati sul mercato bancario e più dilazionati nel tempo.

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