Geografia Delle Comunicazioni e Commercio Internazionale
Geografia Delle Comunicazioni e Commercio Internazionale
CONCETTI CHIAVE:
spazio: è l’oggetto di cui si occupa la geografia; la geografia si occupa del rapporto tra i
determinati fenomeni che osserviamo e lo spazio; a seconda del fenomeno abbiamo i diversi
ambiti della geografia. Di fenomeni di natura economica, come l’organizzazione della
produzione, le crisi globali, il commercio estero, se ne occupa la geografia economica; di
demografia e flussi migratori la geografia della popolazione. Nel tempo è cambiato il modo di
studiare ed interpretare lo spazio: in passato l’analisi geografica andava ad individuare la
localizzazione degli oggetti geografici nello spazio, attraverso latitudine e longitudine, e le
distanze tra gli oggetti. La geografia finiva per enumerare e catalogare tipologie molto
descrittive, era nozionistica e faceva riferimento ad uno spazio assoluto, che adesso non viene
considerato più così. Le carte geografiche, ad esempio, mostrano uno stesso oggetto realizzato
con due proiezioni diverse;
abbiamo dunque due
rappresentazioni diverse.
Con Peters i continenti
sono allungati lungo i
meridiani, mentre con
Mercatore i continenti
sono distesi lungo i
paralleli. Nessuna delle
due è sbagliata,
semplicemente sono
diverse. La proiezione geografica è uno strumento che ci permette di trasferire su un piano la
Terra, che è un solido di forma sferoide. Ogni proiezione è imperfetta, in quanto deforma o le
aree o le lunghezze. Perciò uno stesso fenomeno viene rappresentato in forma diversa. Lo
spazio non è, infine, ASSOLUTO.
Se parliamo di spazio, parliamo anche di distanza. Dunque, se introduciamo un altro concetto
di distanza, oltre a quella chilometrica,
ecco che l’idea di spazio assoluto è ancora
più irrealistica. Ha molto più senso di
parlare di distanza funzionale, ovvero
misurata non in chilometri, ma in termini
di tempi di percorrenza (tempo che un
individuo/merce impiega per andare da un
punto all’altro > distanza tempo) o di
distanza-costo (costo che comporta lo
spostamento di un individuo/merce da un
punto all’altro). L’innovazione tecnologica
nell’ambito di trasporti e comunicazioni ha ridotto la distanza funzionale: oggi i luoghi
sembrano più vicini perché possiamo spostarci più velocemente. La carta mostra come si sono
avvicinate le capitali europee con lo sviluppo dell’alta velocità ferroviaria (riduzione della
distanza funzionale tra 1993 e 2020). Questa carta si chiama “shrinking Europe”.
Si è prodotto dunque il fenomeno di convergenza spazio-temporale, ovvero si prodotto un
avvicinamento tra i diversi punti della superficie terrestre per effetto dello sviluppo dei
trasporti. Ciò caratterizza il fenomeno della globalizzazione. I luoghi sono più vicini sia per
tempo che per costo.
Oggi si studia lo spazio di relazioni, cioè le relazioni tra gli oggetti. Se da tutte le relazioni
isoliamo quelle economiche, otteniamo l’ambito di studio della geografia economica e
delimitiamo lo spazio geo-
economico.
La geografia studia relazioni
orizzontali (o interazioni spaziali,
sono le relazioni che legano due
oggetti sulla superficie terrestre.
ES> flussi commerciali, scambi di
servizi, flussi di capitali,
informazioni, flussi migratori,
flussi turistici) e verticali (legano
l’oggetto rispetto al luogo in cui è
collocato, come risorse
ambientali, strutture,
conoscenze. ES> come l’uomo
prende le risorse ambientali, infrastrutture, sviluppo di risorse di tipo storico-culturale). Le
relazioni orizzontali e verticali danno vita al concetto di territorio (<> spazio).
L’organizzazione territoriale è l’assetto che un territorio assume in quel determinato momento
storico.
ambiente: si parla di ambiente fisico, cioè le risorse fisico-naturali. L’ambiente è una parte del
territorio per la geografia, perché tra le risorse del territorio ci sono anche quelle ambientali.
La geografia ha sempre studiato il rapporto tra uomo e ambiente, ma in passato l’ambiente
veniva visto come l’elemento che condizionava l’organizzazione territoriale, le pratiche umane;
ora, invece, a causa dell’emergenza ambientale, studiamo la pressione che tutte le attività
umane esercitano sull’ambiente.
scala geografica: il ragionamento geografico è trans-scalare, cioè uno stesso fenomeno viene
spesso studiato a scala geografica diversa. È il livello d’analisi che prendiamo come riferimento
(scala mondiale, nazionale, regionale, …a seconda del fenomeno usiamo la scala più adeguata,
anche se certi fenomeni necessitano più scale. ES> per il commercio internazionale si usa una
scala globale; per la delocalizzazione produttiva si può usare una scala globale, ma se vogliamo
vedere come viene impoverito il paese d’origine allora si usa una scala locale)
tempo: bisogna sempre considerare il fattore tempo perché molto spesso una determinata
organizzazione territoriale deriva anche da ciò che è successo in passato.
LA GLOBALIZZAZIONE
Fenomeno dell’annullamento spazio-tempo, che è collegato alla distanza funzionale e convergenza
spazio-temporale. Abbiamo l’impressione di poterci muovere velocemente in qualunque punto
dello spazio attraverso mezzi di comunicazioni più veloci e anche meno costosi, così anche le
merci. Più che
annullamento, è una
riduzione delle due
coordinate. Tuttavia,
dipende: scaricare un e-
book è immediato, il che
dà l’impressione di
annullamento, mentre
l’ordine di un libro
cartaceo impiega
comunque del tempo.
Altro aspetto è la
diffusione globale di
prodotti e di servizi
soprattutto da parte delle
grandi multinazionali: la
globalizzazione ha
prodotto un’omogenizzazione dei gusti e delle scelte dei consumatori. Vediamo un esempio della
Ferrero.
Valorizzando
un prodotto
del territorio di
Alba, ovvero la
nocciola
(relazione
verticale), la
Ferrero crea la
Nutella. Dagli
anni’60 si
sviluppa il
commercio
della Nutella in
tutto il mondo
(si sviluppano quindi relazioni orizzontali: serve la materia prima anche da altri paesi, come la
nocciola dalla Turchia, il cacao dal Ghana, ecc. Abbiamo centri di approvvigionamento, fabbriche e
centri logistici in tutto il mondo. L’ultimo passaggio dopo la conquista dei mercati e la creazione di
reti internazionali è l’acquisizione di altre imprese o segmenti di altre imprese che hanno
trasformato il gruppo di Alba in una grande multinazionale. Questa teoria di omogenizzazione non
riguarda solo i prodotti, ma anche i servizi, come Walmart, colosso della distribuzione organizzata.
Questi grandi centri sono, infatti, uguali dappertutto. Da qui la formazione dei “non luoghi”
dell’antropologo Marc Auge: sono luoghi uguali dappertutto, che non hanno una propria identità,
dove grande folle di persone si incrociano senza però venire a contatto, come Walmart, centri
commerciali, aeroporti, stazioni.
Di globalizzazione non se ne parla solo ora: di “villaggio globale” ne aveva già parlato il sociologo
canadese Marshall McLuhan nel 1964. Affermava che lo sviluppo dei media avrebbe determinato
un’omologazione dei gusti, dei prodotti, delle idee. Negli anni ’60 vedeva ciò nella televisione.
Nel 1983 parla di globalizzazione per primo l’economista americano T. Levitt, che vedeva la
globalizzazione come una progressiva integrazione dei mercati.
Entrambe sono oggi riduttive: la prima punta sempre al concetto di globalizzazione come
omologazione, mentre la seconda vede solo l’aspetto economico.
Più scientifica è la definizione del geografo Dematteis, che invita a leggere la globalizzazione come
un cambiamento di scala nell’organizzazione di molti fenomeni, che hanno non più una
dimensione locale, ma globale (ES> la produzione, il problema ambientale). Ciò comporta che
aumentino le interazioni tra soggetti che si trovano in diversi punti della superficie terrestre.
Bisogna vedere la globalizzazione come l’ampliamento, intensificazione e accelerazione tra
soggetti di diverse aree del pianeta, che coinvolge non solo la dimensione economica, ma anche
culturale, ambientale, ecc. Partendo da questa prospettiva, la globalizzazione non è più un fatto
contingente, dell’oggi, ma è l’esito di un percorso storico. Qui Dematteis si aggancia alle
interpretazioni di altri autori, che affermano l’esistenza di altre fasi di globalizzazione nel passato
nel momento in cui ci sono stati fenomeni particolarmente dirompenti che hanno aperto il sistema
di relazioni internazionali (soprattutto commerciali), come la scoperta dell’America (dall’America
provengono molti prodotti, come pomodori, mais).
Gli storici leggono la rivoluzione industriale dell’800 in Inghilterra come prima globalizzazione,
seguita da una seconda legata dalla diffusione dal modo di produzione fordista, dall’utilizzo di
petrolio, dalla rivoluzione dei trasporti e da tutte le innovazioni che hanno ridotto i tempi di
percorrenza (’10-‘70). La globalizzazione (’80-oggi) sarebbe una terza globalizzazione messa in
moto da molti fenomeni che accelerano le relazioni internazionali e determinano il cambiamento
di scala.
Cosa cambia tra queste fasi? Il coincidere di una serie di fenomeni che fanno esplodere il processo
di globalizzazione, quali:
COMMERCIO INTERNAZIONALE
Il commercio è sempre esistito, prima sotto forma di
baratto e poi monetaria. È un flusso che nel corso del
tempo è cresciuto, diffondendosi maggiormente dopo
l’inizio della rivoluzione industriale (1850), che apre le
relazioni commerciali su scala globale. I beni che
circolavano erano soprattutto prodotti minerari
(carbone), materie prime, beni finiti e anche beni di
piantagione (caffè, cotone, …). Il commercio
internazionale comincia a crescere
nel secondo dopoguerra (anni
‘60/70) fino ad arrivare agli anni
della globalizzazione.
principali poli esportatori). Col tempo, è cambiata l’importanza delle tre macroaree: dal 2003 è
diminuita in maniera consistente la
quota dell’UE e dell’America
settentrionale, mentre è aumentata
quella dell’Asia Orientale. Nei dati
vediamo lo spostamento dello
sviluppo economico dall’Occidete
all’Oriente.
Vediamo qui (diagramma dei flussi) la
direzione dei flussi, la geografia degli
scambi globali di beni. Lo spessore
della freccia denota il volume degli
scambi. Nelle ellissi (macroaree) ci
sono dei valori che simboleggiano gli
scambi interni. La figura esclude i flussi
di interscambio inferiori a 40 mld di dollari. I flussi di interscambio sono più densi tra la triade. Ci
sono scambi importanti anche tra Medio Oriente e Asia (petrolio).
La Cina ha cambiato il suo ruolo: non è più un Paese dove si va a produrre, ma investe nei Paesi
Occidentali: è dunque ormai un protagonista.
È in atto un rallentamento della
globalizzazione? Leggendo i dati (FDI,
Trade, GDP), la risposta è affermativa.
Ha rallentato anche il commercio
internazionale.
GLI INTERPORTI
Tutta l’organizzazione di trasporti intermodali ha bisogno di centri organizzatori, di nodi, e
l’intermodalità ha cambiato molto l’organizzazione dei nodi di trasporto (come il porto).
L’intermodalità ha determinato la nascita di nodi completamente nuovi, come interporti, o porti
interni o secchi, perché sono porti terrestri. Gli interporti sono nati per iniziativa di soggetti locali
che hanno ritenuto necessario creare queste strutture per gestire i flussi intermodali.
Successivamente è intervenuta la legge che ha normato tutta la questione degli interporti
dandone una definizione (legge 240, 1990). Gli interporti sono un insieme di strutture di servizi
integrati e finalizzati allo scambio di merci tra le diverse modalità di trasporto, comunque
comprendenti uno scalo ferroviario idoneo a formare o ricevere treni completi e in collegamento
con porti, aeroporti e viabilità di grande comunicazione. L’interporto è un terminal intermodale,
ma è anche una “città delle merci”, un’infrastruttura in cui si concentrano servizi che riguardano il
trattamento delle merci.
Oggi gli interporti hanno anche nuove funzioni, come aumentare l’efficienza e la competitività
delle imprese che lavorano nel settore dei trasporti e della logistica, concentrandole in un’unica
struttura. Il numero di questi operatori è aumentato ed è essenziale per gestire questi cicli di
trasporto. Le imprese di trasporto ora sono situate nell’interporto. L’interporto diventa
un’economia esterna, un vantaggio che consente alle imprese di ridurre costi e tempi, vantaggio
che imprese lontane dalle infrastrutture non hanno.
Altra funzione che gli interporti dovrebbero avere è velocizzare i flussi e ridurre la congestione
verso i centri urbani: dovrebbero infatti gestire i flussi di traffico esterni, ma anche quelli che
vanno verso le città.
I servizi offerti dall’interporto sono:
servizi alle merci: riguardano il trasporto intermodale, il trasferimento delle unità di carico da
una modalità all’altra, ma anche quelli di dogana, di immagazzinaggio, di trasformazione
(imballaggio, etichettature, controllo qualità)
servizi ai mezzi: ampia gamma di servizi come riparazione, manutenzione di veicoli e unità di
carico, di parcheggio, di sorveglianza, …
servizi alla persona: abbiamo centri congressi, hotel, servizi di ristorazione, servizi informatici e
telematici, banche, uffici postali, …
Di questi tre il core business dell’interporto è, però, il servizio alle merci: è su questi che si gioca la
competitività e l’efficienza di un interporto. Gli altri sono servizi di supporto, ma non strategici.
Gli interporti sono
localizzati vicino ai grandi
centri urbani, ma non
troppo: usufruiscono così
di tutte le infrastrutture di
trasporto avanzate che
troviamo normalmente
vicino ai centri urbani,
come assi autostradali,
grandi stazioni ferroviarie,
aeroporti; rimangono,
tuttavia, esterni, per non
interferire con i flussi di
traffico che entrano nelle
città. Il loro
posizionamento nelle aree
extraurbane è dato anche
dalla necessità di grandi
superfici.
Vediamo un addensamento di interporti nella parte orientale del nord Italia, dove abbiamo il
tessuto produttivo più dinamico.
Non ci sono interporti in Lombardia: perché? È dovuto a scelte della regione Lombardia che,
invece di sviluppare interporti, sviluppa molti terminal intermodali, ma che non hanno le
caratteristiche di legge per essere definiti interporti, come lo scalo ferroviario.
INTERPORTO QUADRANTE EUROPA DI VERONA
Questo interporto è molto
importante in Europa perché
localizzato all’incrocio di
corridoio scandinavo-
mediterraneo (dalla
Finlandia, attraversa il cuore
dell’Europa e Italia, e fino a
Malta) e corridoio
mediterraneo (dai confini
dell’Ucraina, attraversa
dall’est all’ovest l’Europa,
l’Italia settentrionale, Francia
e infine Spagna). In Europa
questi grandi corridoi fanno
parte delle strategie di
politica dei trasporti dell’UE.
Sono uno degli strumenti con
cui l’UE cerca di raggiungere
lo sviluppo economico dei
diversi Paesi e la coesione
(obiettivi principali +
sostenibilità ambientale).
Questi grandi corridoi (o TEN-
T, Trans-European Transport
Network) sono dei fasci di vie
di comunicazione strategiche
perché comprendono grandi
assi autostradali, ferroviari,
vie fluviali e non sono ancora
compiutamente realizzati,
non sono continui, ma pezzi
ancora da raccordare (ES: delle line di alta velocità ferroviaria in Italia sono ancora da completare).
L’interporto è situato nella
periferia della città di Verona.
Viene denominato quadrante
perché occupa un quadrilatero
delimitato dai principali assi di
comunicazione. Gli assi sono
quelli che si posizionano su
questi due corridoi: le due
autostrade del Brennero (ad
ovest), l’autostrada A4 (a sud) e
le ferrovie Milano-Venezia e del
Brennero. Oltre a questo, abbiamo tutto il
sistema della viabilità ordinaria: la strada
statale 11, le due complanari (tangenziali).
All’interno dell’interporto si scambiano
due modalità: il ferro e la gomma. Ciò non
esclude la terza modalità: sempre vicino
all’interporto c’è l’aeroporto., anche se
questa modalità non è ancora integrata.
Occupa un’area di 2.000.000 mq che, con
le successive espansioni, si prevede
andranno a 4.000.000.
Questa infrastruttura tratta tutte le tipologie di prodotti, essendo a servizio di un ampio bacino di
gravitazione. Ha, comunque, due specializzazioni prevalenti: la commercializzazione e
distribuzione di trasporti dell’ortofrutta (il refrigerato) e la commercializzazione e distribuzione di
auto. La destinazione principale dei traffici dell’interporto è il nord Europa. Il 70% del trasporto
ferroviario va verso la Germania (partner principale).
L’infrastruttura si colloca nell’ambito di un’azione di sviluppo di Verona che parte dal secondo
dopoguerra; è il terzo progetto del Consorzio Zai, ente che dal 1948 ha guidato l’industrializzazione
e sviluppo di Verona. Verona usciva distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
L’idea era di ricostruire la città, ma anche di intraprendere un percorso di sviluppo economico
basato sull’industrializzazione. Tra la fine dell’800 e il primo decennio del ‘900 (età giolittiana) si
avvia già un percorso di industrializzazione nel nostro Paese. A Verona, esclusa qualche impresa
già presente, il processo di sviluppo industriale non era mai decollato. È con questo obiettivo che si
costituisce questo consorzio di cui fanno parte il Comune, la Provincia e la Camera di Commercio
di Verona. La prima realizzazione del consorzio Zai è la zona agricolo-industriale di Verona (area Zai
storia o Zai 1). Nel corso degli anni ’50 si localizzano industrie di tutti i settori (meccanico,
calzature, …). Verso la fine degli ann
’70 si pensa ad un’altra area
industriale (la Zai 2) perché la Zai
storica era satura. Come terza
realizzazione si ha la creazione
dell’interporto (Consorzio Zai), area
destinata a scambi intermodali.
Al cuore dell’interporto abbiamo il
terminal intermodale ed il nodo
ferroviario, area in cui vengono accolti
e formati i treni intermodali. Tutto
l’interporto è raccordato. I terminal
sono passati da uno a tre negli anni. Il
terminal è terrestre, ma tutte si
assomigliano molto: sono sempre grandi piazzali dove vengono depositate le UTI, ci sono grandi
impianti di sollevamento, mezzi via terra.
Altra parte importante sono i magazzini generali, chiamati oggi terminal ungardener (sono
passati da pubblici a privati, e da normali magazzini a veri e propri terminal: vengono svolte tutte
le attività di imballaggio, etichettatura e anche la parte logistica). Le destinazioni qui sono sempre
la Germania, ma anche verso porti, come La Spezia o Rostock. Terzo elemento del sistema è l’area
della dogana, dove vengono effettuate tutte le pratiche doganali per le merci extracomunitarie.
C’è l’area degli spedizionieri e corrieri. Troviamo il centro logistico (Volkswagen Italia, distributore
del centro Europa; è una
presenza storica). Abbiamo i
servizi ai mezzi, un’area
dedicata agli autotrasportatori.
Il centro direzionale, sede del
Consorzio Zai, è il centro
amministrativo. Infine, abbiamo
tutti i servizi alla persona. C’è
anche il centro agro-alimentare,
una delle più grandi piattaforme
per la raccolta, distribuzione e
commercializzazione
all’ingrosso per prodotti
dell’ortofrutta.
IL PORTO DI ROTTERDAM
Il Porto di Rotterdam è il principale porto
europeo, sebbene abbia perso posizioni
rispetto ai giganti asiatici. È situato nell’Olanda
meridionale, in una zona geografica
particolare: Rotterdam si trova sulle principali
diramazioni del bacino del Reno (fiume Mosa,
Nuova Mosa e Rotte).
È un porto molto trafficato, di origine antica e
che ha avuto uno sviluppo graduale nel corso
del tempo con successive addizioni che lo
hanno portato a diventare l’Europorto (ha una
lunghezza di 40 km). Questo porto nasce nel 1440, ma, per circa 400 anni, rimane nel suo nucleo
originario nonostante il commercio fosse aumentato. Si sviluppano attività portuali a Rotterdam
perché la posizione geografica è ottima come punto di scambio e trasbordo tra Inghilterra e area
germanica. Le attività del porto, già nel ‘600, crescono molto: qui si insedia la compagnia olandese
delle Indie Orientali. Il primo impulso allo sviluppo fisico e strutturale del porto è la rivoluzione
industriale, quando, quindi, aumenta il flusso di prodotti che Inghilterra e il mondo tedesco si
scambiano. Nella seconda metà dell’’800 viene costruito un importante nuovo canale (New
Waterway), che permette l’accesso anche a grandi navi dal Mar del Nord. Un ulteriore sviluppo si
ha tra gli anni ’20 e ’40 con l’addizione di nuovi moli portuali. Durante la Seconda Guerra mondiale
il porto viene completamente distrutto e poi ricostruito e negli anni ’50 vengono predisposte
nuove aree per il deposito dei carburanti (il porto di Rotterdam si specializza nel traffico dei
carburanti, soprattutto del petrolio). Negli anni ’60 cresce molto in estensione il porto (anni che
coincidono con il periodo di forte crescita di tutti i Paesi occidentali). Arriva negli anni ’70 la
containerizzazione e
l’intermodalità;
perciò, c’è l’esigenza
di nuovi terminali per
accogliere le navi e i
container. I traffici
crescono e si rende
dunque necessaria un
nuovo terminal
destinato ai container
e la cui costruzione
non è ancora
terminata. Sono
strutture artificiali
costruite nel mare.
Il porto di Rotterdam ha 80 km di banchine, 8 terminal container, 7 terminal RO-RO, 20 terminal
per le rinfuse liquide e un retroterra che, grazie all’efficiente collegamento con i mezzi terrestri,
comprende grande parte dell’Europa centrale e raggiunge la Pianura Padana. Per i collegamenti
via mare, il porto di Rotterdam ha rapporti co tutto il mondo. La competitività di un porto gateway
si gioca sui servizi offerti, sulla velocità delle operazioni e sull’efficienza della rete di trasporto
terrestre.
Verso gli anni ’80 i flussi aerei crescono: questo è dovuto alla deregulation, ovvero alla
liberalizzazione del settore che avviene in momenti diversi negli USA e nell’UE, ma che porta
all’abbattimento delle barriere alla concorrenza e alla eliminazione dei controlli sulle tariffe. Questi
due processi hanno tempistiche e motivazioni diverse: negli USA il processo di liberalizzaizone
comincia nel 1978 col Deregulation Act e parte per la spinta di molte piccole compagnie che
volevano entrare nel mercato del trasporto aereo (non c’era, come in Europa, il monopolio delle
compagnie di bandiera, ma era comunque un mercato controllato da un’agenzia federale e che
esercitava un’azione di controllo sull’ingresso di nuovi operatori nel mercato del trasporto aereo e
sulle tariffe; inizialmente, ha portato alla presenza di molte compagnie aeree nel settore, seguita
dalla razionalizzazione e da processi di fusione e accorpamento, così da stabilizzare il numore delle
compagnie); in Europa, invece, la liberalizzazione inizia nel 1988 e avviene in più tappe con tre
pacchetti di iniziative comunitarie, che tra il 1988 e il 1993 liberalizzano il settore anche in Europa
(in Europa ogni Paese aveva la propria compagnia di bandiera che gestiva e monopolizzava tutto il
settore del trasporto aereo e, per quanto riguardava gli scambi tra Paesi europei, valevano gli
accordi bilaterali tra le ripsettive compagnie di bandiera); il processo di liberalizzazione in Europa è
parte di quel processo di integrazione economica, dei mercati, di coesione che l’UE intendeva
raggiungere. L’integrazione dei mercati passa anche per la liberalizzazione del trasporto aereo e la
liberalizzazione dei trasporti delle persone (il processo della liberalizzazione del trasporto aereo
non è stato completato finché tutti i Paesi europei hanno adottato l’Accordo di Schengen,
permettendo il libero movimento di persone e merci nello spazio europeo). Le compagnie di
bandiera sono state nella maggior parte dei casi privatizzate.
La deregulation ha permesso a più operatori privati di entrare nel mercato e, eliminando i controlli
sulle tariffe, queste si sono abbassate, rendendo più economico viaggiare in aereo. Aumentando il
numero di compagnie aeree, è aumentato anche il numero di voli e opzioni per i passeggeri. Ciò ha
avuto una serie di ricadute economiche su molti settori, come il turismo internazionale (cresciuto
molto negli ultimi decenni perché viaggiare anche sulle lunghe distanze non è più proibitivo).
Tra le compagnie entrate nel mercato, ce ne sono di particolari. Ci sono compagnie private che
offrono un servizio tradizionale, ma ci sono anche le compagnie low-cost (con prezzi più bassi e
con modelli di business particolari). I modelli di business delle compagnie low-cost riguardano
l’eliminazione del catering a bordo, la standardizzazione dei velivoli (queste compagnie fanno
grandi acquisti di velivoli dello stesso tipo o di pochissime tipologie; riduce i costi di
addestramento del personale, che diventa intercambiabile, la necessità di scorte e consente di
ottenere sconti consistenti nel momento in cui fanno questi grandi acquisti), la massimizzazione
del carico attraverso l’aumento della densità dei posti (che occupano meno spazio), i collegamenti
point-to-point (non operano su scali hub, ma su collegamenti diretti e su scali secondari, dove i
costi sono minori e gli aeroporti offrono condizioni vantaggiose), la biglietteria online e la riduzione
dei tempi morti (i tempi che passano tra decollo e atterraggio) in aeroporto. Oggi non offrono più
solo il trasporto, ma queste compagnie sono diventate anche degli operatori turistici. Queste
compagnie hanno decretato lo sviluppo e il successo di aeroporti minori, come l’Aeroporto di
Bergamo, diventato base della Ryanair. Le diverse società aeroportuali hanno, infatti, spesso fatto
a gara per attrarre le compagnie low-cost, offrendo condizioni particolarmente vantaggiose. Ci
sono anche svantaggi: ci sono un tasso di mortalità alto, condizioni di lavoro scarse.
La liberalizzazione non solo ha aperto il mercato e permesso di ridurre il prezzo dei biglietti, ma ha
anche cambiato i modelli organizzativi, introducendo il sistema hub&spoke. Principalmente sono
due i modelli organizzativi degli
aeroporti: point-to-point (collegamenti
diretti tra aeroporti; per collegare un 8
aeroporti, servono 28 rotte. Nella
realtà questa situazione è irrealizzabile
perché si apre una rotta solo se c’è una
domanda e se c’è una convenienza
economica, questi 8 punti non
potranno mai essere collegati a due a
due. Questo sistema predominava
prima della deregulation: venivano
messe in atto solo le rotte principali e
molto spesso gli aerei viaggiavano semivuoti; questo sistema è adottato ancora dalle low-cost e si
regge perché le compagnie low-cost hanno altre strategie per abbattere costi e prezzi e perché con
questi prezzi bassi hanno un’ampia domanda per i loro servizi) e hub&spoke (abbiamo un
aeroporto centrale che fa da hub, cioè punto di snodo, di raccolta di flussi di trasporto che
arrivano da aeroporti più piccoli, cioè gli spoke; in questi hub si concentra l’operatività di alcune
compagnie, che gestiscono questo sistema e sono soprattutto le grandi major. I passeggeri
arrivano dagli aeroporti minori in uno hub, vengono caricati su aerei più grandi e poi l’aereo parte
per la sua destinazione. Così, le compagnie aeree realizzano economie di scala portando più
passeggerei verso la stessa destinazione e, come conseguenza, riducono i costi ed i prezzi del
biglietto. I flussi dagli spoke devono arrivare nella stessa fascia oraria, così da minimizzare la sosta
dei passeggeri in aeroporto; i vettori principali, per gestire meglio il sistema, si assicurano il
controllo dei vettori regionali attraverso alleanze. Questo sistema di coincidenze ha forti picchi, è
un traffico ad onde).
Gli aeroporti hub devono avere dei requisiti: l’accessibilità (deve essere al centro di reti di
trasporto aereo), la localizzazione presso grandi aree metropolitane (oltre al traffico dagli spoke,
una grande area metropolitana genera un traffico aggiuntivo, una domanda di trasporto
aggiuntiva, che deriva anche dalle infrastrutture in cui è collocata l’area metropolitana), capacità di
sostenere picchi di traffico aereo (devono essere efficienti nella gestione delle operazioni di
decollo e atterraggio), devono essere aerostazioni concepite per agevolare il trasferimento dei
passeggeri da un aereo all’altro (il passaggio aumenta i tempi di percorrenza, perciò il passeggero
ha un vantaggio sul costo, ma non sulle tempistiche).
Abbiamo visto gli aeroporti come nodi che attivano delle relazioni orizzontali, ma gli aeroporti,
come le industrie, producono un impatto economico sul territorio in cui sono localizzate. Gli
impatti sono 4:
diretto: è un impatto che vediamo in termini di occupazione, aumento del reddito dell’aerea,
del valore aggiunto ed è l’impatto generato dalle attività connesse all’aeroporto (attività inside,
svolte all’interno dell’aeroporto); le principali aree di occupazione dell’aeroporto sono quella
delle compagnie aeree, del ground handling, della gestione della società aeroportuale, del
controllo del traffico aereo, le attività commerciali (negozi, ristorazione), le attività di sicurezza
e controllo dei passeggeri, la dogana e i servizi dell’immigrazione, del ground transport
(movimentazione dei passeggeri) e le attività di manutenzioni
indiretto: riguarda attività che si collocano a valle della filiera della gestione aeroportuale e
dell’aviazione (non sono presenti nell’aeroporto, ma godono della vicinanza dell’aeroporto);
sono, ad esempio, imprese che forniscono carburante, gli alberghi, le agenzie viaggi
indotto: è l’impatto generato dal reddito prodotto dagli occupati del settore avio sugli altri
settori economici (meccanismo dei cicli di spesa)
catalitico (o dinamico): si riferisce ai vantaggi che un’economia locale deriva dalla vicinanza con
un aeroporto; soprattutto il commercio estero (sia direttamente che indirettamente),
localizzazione di imprese (soprattutto multinazionali; si vengono a creare delle airport cities,
piccole agglomerazioni della città dove si localizzano attività economiche che utilizzano
l’aeroporto per i loro affari) e il turismo (l’aeroporto dà l’opportunità ad una località do
effettuare un servizio tradizionale come quello turistico in una nuova modalità, avendo nuovi
flussi turistici; senza la presenza di scali aeroportuali, molti centri non possono sviluppare
un’attività di tipo turistico nonostante le loro risorse, come le Canarie). La dimensione dello
scalo e della connettività ad altri scali influenza l’impatto.
Vediamo come aeroporti
principali quelli dei Paesi di
vecchia industrializzazione, a
differenza di quello che
succede in altri tipi di
trasporto, ma l’aeroporto di
Pechino passa al secondo
posto e compare l’aeroporto
di Shangai. Ci si può,
dunque, attendere in futuro
una scalata delle classifiche
degli aeroporti cinesi.
indice di teledensità: è dato dal rapporto tra abbonamenti telefonici (telefonia fissa e mobile) e
abitanti
utilizzo di pc: la vendita di computer ogni 100 abitanti calibrata sulla vita media di questi
prodotti
diffusione di internet: il numero di utenti internet ogni 100 abitanti
IL COMMERCIO ELETTRONICO
Per OCSE e UNCTAD, il commercio elettronico (e-commerce) è la vendita o l’acquisto di beni e
servizi, effettuati da un’impresa, un individuo, un’amministrazione o qualsiasi altra entità pubblica
o privata, attraverso l’impiego di una rete Internet.
Per la Commissione Europea, il commercio elettronico è lo svolgimento di attività commerciali e di
transazioni per via elettronica comprendenti attività diverse quali la commercializzazione di beni e
servizi per via elettronica, la distribuzione online di contenuti digitali, l’effettuazione per via
elettronica di operazioni finanziarie in borsa, gli appalti pubblici per via elettronica e altre
procedure di tipo transattivo della Pubblica Amministrazione.
Il commercio elettronico nasce con Internet (attorno alla metà degli anni ‘90). Esistevano anche
prima, tuttavia, forme di commercio elettronico, almeno per le imprese. Negli anni ’70 esisteva il
sistema EDI (electronic data interchange), considerato precursore del commercio elettronico:
consisteva in reti di comunicazione chiuse che permettevano il trasferimento di dati e documenti
in formato elettronico (fatture, ordini di acquisto) da un’impresa all’altra; questi dati viaggiavano
attraverso le linee telefoniche e consentiva di evitare l’uso del cartaceo, e quindi di fax e posta,
con notevole riduzione dei costi. Ci sono comunque dei limiti: le imprese, per utilizzare questo tipo
di commercio elettronico, dovevano dotarsi di questi sistemi dedicati di comunicazione (questo
poteva essere fatto da grandi imprese, ma non era conveniente per piccole imprese che non
avevano una grande mole di documenti da trasmettere); inoltre, rispetto ad Internet oggi, era un
sistema rigido, ovvero era poco interattivo (si poteva solo accettare o rifiutare).
Tutto ciò cambia con l’arrivo di Internet nella metà degli anni ’90 e con la sua diffusione presso
strati sempre più ampi di popolazione. L’e-commerce ha, nel primo momento, uno sviluppo lento
e legato ad alcune tipologie di prodotti (Amazon è nato come libreria digitale). Nella prima metà
degli anni 2000 si è esteso a più prodotti ed anche ai servizi (viaggi, biglietti per eventi e trasporti).
Ciò che ha dato un impulso allo sviluppo del commercio elettronico è stata nella prima decade dei
2000 lo sviluppo del web 2.0 (dal web statico al web dinamico in cui l’utente interagisce con la
rete: può valutare, dare giudizi, ecc). Il consumatore è attivo. Si diffondono poi una serie di
dispositivi mobili (cellulare, tablet), che hanno aumentato la possibilità di accesso alla rete ed in
qualsiasi luogo in cui ci sia connessione Internet.
Possiamo delineare diverse tipologie di e-commerce a seconda del criterio che scegliamo.
Se come criterio abbiamo la tipologia di bene o servizio che è oggetto di transazione, possiamo
distinguere tra e-commerce indiretto (quando la transazione avviene per via digitale, attraverso
Internet, ma il bene viene recapitato attraverso i mezzi tradizionali, i comuni mezzi di trasporto;
questo capita con l’acquisto di abbigliamento online) ed e-commerce diretto (sia la transazione
che l’acquisizione del bene avvengono attraverso Internet, non c’è niente di materiale; questo
avviene con l’acquisto di beni digitali, come un ebook, e di servizi, come un biglietto aereo).
Se invece andiamo a vedere le tipologie di attori che intervengono nelle transazioni, possiamo
avere 4 tipologie:
il B2B (Business-to-Business; qui gli attori sono esclusivamente le imprese, che mettono in atto
relazioni commerciali tra loro; è questa la forma di commercio elettronico che genera il volume
più grande di affari; i rapporti possono riguardare un produttore ed un grossista, un grossista
ed un venditore al dettaglio o tra imprese che si collocano in segmenti diversi di queste grandi
catene di produzione; nel ricorrere a questo sistema il vantaggio riguarda l’elevato numero di
acquirenti e fornitori, l’entrata più rapida in nuovi mercati e aiuta le piccole imprese che
riescono ad entrare in maniera più agevole e rapida nelle grandi catene del valore nazionali o
globali)
il B2C (Business-to-Consumer; gli attori sono le imprese che vendono e i consumatori che
acquistano; è una modalità diffusasi col procedere della diffusione di Internet; il vantaggio è
reciproco, in quanto l’impresa ha accesso ad un mercato globale di consumatori e il
consumatore ha accesso ad un’offerta di prodotti mondiale e non ha nei suoi acquisti limiti di
tempo e spazio)
il C2C (Consumer-to-Consumer; gli attori sono solo i consumatori che agiscono da venditori e
da consumatori; è una forma di e-commerce sviluppata grazie alla nascita e alla diffusione di
siti di aste online, come Ebay. Dopo questo, sono nati altri siti dove si vendono prodotti usati o
si scambiano servizi, come Airbnb)
il B2G (Business-to-Government; riguarda le pubbliche amministrazioni; gli attori sono sempre
le imprese nel ruolo di fornitori presso la pubblica amministrazione, che acquista i servizi, ma
possono esserlo anche i cittadini).
C’è anche una quinta tipologia, che non è ancora stata codificata dall’ United Nations Conference
on Trade and Development, la quale presenta aspetti particolare: è la C2B (Consumer-to-Business),
cioè abbiamo sempre consumatori e imprese come attori. In questo caso, però, cambia la
direzione del rapporto: qui il consumatore crea valore per l’azienda attraverso tre modalità:
AMAZON
Il caso di Amazon è significativo perché ci mostra l’evoluzione di un marketplace molto sviluppato.
È stato il primo operatore in questo segmento, ha conquistato una posizione di dominanza ed è
cambiato nel corso del tempo (era nato come libreria online negli anni ’90, passando poi a CD,
videogiochi, film e ad oggi ogni tipologia di prodotto).
Amazon ha un doppio canale: è sia marketplace (fa esclusivamente da intermediario tra venditori
che propongono i loro prodotti sul sito e consumatori che acquistano) che retailer (Amazon
acquista la proprietà della merce e poi la rivende sul suo sito; è Amazon, dunque, a fissare il prezzo
finale per il cliente ed anche a gestire il rapporto diretto col cliente).
Vediamo che Amazon ha, dunque, una doppia anima.
Nel corso di questi ultimi anni ha sviluppato anche una serie di servizi: il servizio prime
(abbonamento che consente di avere spedizioni molto rapide; con questo abbonamento si ha
accesso a contenuti digitali, quali ebook, musica, serie tv, film, andando così in competizione con
altri operatori che trattano esclusivamente questo tipo di prodotto, come Spotify, Netflix; c’è
anche la possibilità di conservare le foto nel cloud, si ha l’assistente virtuale Alexa, ci sono
iniziative promozionali, come il Prime Day). Amazon è entrato nel segmento del negozio fisico in
due modi: nel 2017 acquisendo la catena dei supermercati Whole Foods Market (supermercati che
trattano soprattutto prodotti biologici, freschi) e dal 2018 ha creato gli Amazon Go dei piccoli
supermercati in grandi aree metropolitane dove l’acquisto è automatizzato (non ci sono casse, file:
il cliente scansiona l’app scaricata e dopodiché può fare i suoi acquisti perché il negozio è dotato di
un sistema di telecamere, di sensori sugli scaffali e di un sistema di intelligenza artificiale che rileva
i movimenti e scarica il costo dei prodotti dal conto del cliente). Questi supermercati, che vendono
una gamma limitata di prodotti, esistono solo in grandi città americane, come Seattle, New York,
Chicago. Questa esperienza doveva arrivare anche in Europa, ma si è accavallato agli anni di
pandemia. Il motivo della creazione di questi negozi è quello di monitorare i comportamenti
d’acquisto.
Amazon ha rivoluzionato la logistica, che è molto impattante, entrando negli assetti del territorio.
Chi vende si può appoggiare alla logistica di Amazon: piccole imprese con reti non troppo
sviluppate possono appoggiarsi a questa.
Il centro smistamento di Verona serve il nord-est italiano, non è grandissimo (8.500 mq) ed è stata
riqualificata un’area dismessa occupata da un calzaturificio chiuso dagli anni ’60 nella zona
industriale di Verona.
A Verona (Nogarole Rocca) c’è anche un centro logistico di Zalando; occupa un’area di 130.000 mq
ed è stato costruito ex novo. Serve il mercato italiano ed altri del sud dell’Europa, come Spagna e
Francia.
Questi centri sono molto contestati dal punto di vista delle condizioni di lavoro. Da un lato i sindaci
sono sempre molto attratti dalla creazione di questi centri che offrono posti di lavoro, ma dall’altro
la qualità dei posti di lavoro è pessima. I dipendenti non sono, infatti, sempre assunti dal
marketplace, ma da intermediari, che sono spesso le cooperative: queste offrono condizioni di
lavoro svantaggiose (Zalando non aveva assunto nessuno direttamente, ma c’era un intermediario,
ovvero un operatore logistico tedesco, che assumeva i lavoratori proponendo contratti di lavoro
svantaggiosi di due-tre mesi; questo non favorisce lo sviluppo locale).
Il commercio elettronico sta oscurando il commercio tradizionale. Questo ha una serie di
conseguenze territoriali che fanno sparire attività fondamentali su cui vivono le città. Sono ondate
id innovazioni che cambiano l’assetto di un sistema economico e gli assetti spaziali, ma ci sono
forme di adeguamento e nascono nuove idee.
Il segmento più importante dell’e-commerce è il
B2B (88,5% di vendite), e non il B2C (11,5%).
In Europa si vede la crescita di acquisti nel commercio elettronico. Il dato totale mostra una
continua crescita del
commercio elettronico. La
fascia di età più avanzata è
quella che pratica meno questo
tipo di acquisto, mentre nelle
fasce dei giovani vediamo un
utilizzo sempre maggiore e gli
utenti Internet più giovani
supera quella dei 25/50 anni.
L’e-commerce ha avuto un
balzo nel periodo della
pandemia, essendo tutti in
casa. Anche chi non era pratico,
è stato spinto all’utilizzo dell’e-
commerce. A livello globale c’è
stato un aumento del 58% e in
Italia l’e-commerce è
aumentato del 78%. Nel 2018 i Paesi nordici erano più soliti acquistare online, mentre l’Italia
contava solo il 47% di utenti Internet che facevano acquisti online.
I prodotti che si
acquistano
maggiormente
attraverso l’e-
commerce in Europa è
l’abbigliamento e i beni
sportivi; vengono poi le
vacanze, beni per la
casa, biglietti libri, ecc.
Ci sono comportamenti
di acquisto, però,
diversi e correlati alle
fasce di età.
coordinamento e controllo di varie fasi della catena di produzione localizzate in diversi Paesi (la
multinazionale è una grande impresa ramificata, organizzata a rete)
capacità di trarre vantaggio dalle differenze geografiche nella distribuzione dei fattori di
produzione e nelle politiche nazionali (quando la multinazionale si localizza, individua i fattori
di localizzazione, quali costo del lavoro, incentivi fiscali, riduzione di dazi, offerta di terreni a
titolo gratuito o a basso prezzo, più vantaggiosi su scala globale e va a posizionare le sue unità
produttive)
potenziale flessibilità (la multinazionale è un organismo articolato, ma al contempo è molto
flessibile: è in grado di smobilizzare un impianto, chiudere un sito produttivo, cambiare un
fornitore molto velocemente)
Nel momento in cui la multinazionale si insedia, offre molti posti di lavoro; quando, però, lascia
un’area, assistiamo a fenomeni di industrializzazione, caduta dei posti di lavoro che sono gravi
laddove non c’è un tessuto produttivo autonomo (in aree a debole sviluppo).
Le multinazionali sono le protagoniste dell’economia globale e della globalizzazione, partecipando
alla formazione del PIL globale per circa 1/3, il 60% delle esportazioni è attribuito a loro ed il
fatturato di alcuni di questi colossi è addirittura superiore al PIL di interi Paesi: sono giganti
dell’economia, che hanno anche la capacità di coordinare i governi, gli attori politici.
Il numero ufficiale di multinazionali era, nel
2009, di 82.000, mentre nel 2016 ne abbiamo
320.000: assistiamo ad un fenomeno in
continua crescita. L’UNCTAD considera
multinazionale qualunque impresa abbia una
filiale all’estero e di cui controlla almeno il
10% delle azioni. Se il criterio è così elastico,
cadono nelle multinazionali non solo i colossi,
ma anche piccole imprese o studi che hanno
aperto una sola filiale all’estero (micro-
multinazionali). Secondo Mediobanca, invece, le multinazionali sono solo 390 (nel 2017) e sono
imprese che hanno un
fatturato superiore a 3 mld,
con almeno il 10% del
fatturato realizzato all’estero
e che hanno attività
produttive in almeno uno
stato estero; inoltre, mette
degli sbarramenti per i
settori: manifatturiero,
energia, telecomunicazioni,
utilities e software & web.
1) UNCTAD; 2) Global Fortune
Nel 2018 al primo posto sta da anni Walmart; la maggior parte degli altri colossi opera nel settore
dell’energia. Tra queste multinazionali ce en sono di Pesi di nuova industrializzazione, come Cina.
Nel 2020 secondo il mensile Global Fortune abbiamo gli stessi nomi, ad eccezione di Amazon.
Una sorpresa è il 2021: Amazon è al secondo posto (effetto pandemia), ma abbiamo anche ai
vertici la CDSL e la United Health Group, due grandi conglomerate che operano nel comparto della
salute (farmacie, assicurazioni sanitarie). Anche questo è effetto della pandemia.
La rivista Global Fortune rappresenta anche
In Asia la distribuzione è ancora più concentrata, nella Cina costiera e Pechino, Corea del Sud,
Taiwan e Giappone (il suo sviluppo economico è partito prima come la sua forma particolare di
capitalismo, ma che si colloca negli stessi decenni dello sviluppo degli altri Paesi industrializzati).
FORDISMO
Il modo di produzione fordista nasce negli anni ’10 del ‘900 negli stabilimenti della Ford di Detroit.
Dalla Ford si diffonde poi a tutte le altre case automobilistiche (come la Fiat a Torino negli anni
‘20). Si diffonde poi a tutti gli altri comparti manufatturieri e soprattutto nella seconda metà del
‘900 (’50, ’60 e metà ’70 > epoca aurea del fordismo).
Questo modello di produzione si basa sulla produzione di beni standardizzati per un consumo di
massa (tanti prodotti, ma con una gamma limitata).
Ciò che rende possibile la produzione fordista è un’organizzazione scientifica del lavoro che si basa
sulla catena di montaggio, ovvero una frammentazione del processo produttivo che vede una serie
di mansioni ripetitive (l’operaio esegue solo quella piccola parte del processo produttivo); poi, il
tutto viene ricomposto nella catena di montaggio.
Questo sistema assicura una forte produttività del lavoro; per questo le imprese fordiste riescono
a soddisfare una produzione di massa (con la catena di montaggio aumenta la produttività del
lavoro).
Il lavoro è prevalentemente dequalificato (non servono grandi competenze), nella fabbrica le
gerarchie sono molto rigide (netta separazione tra mansioni manuali e mansioni amministrative e
dirigenziali); è anche un lavoro fortemente sindacalizzato.
Questo modo di produzione ha una serie di conseguenze dal punto di vista territoriale: dà origine
al gigantismo industriale (grandi imprese che crescono sempre di più e che escono da un ambito
nazionale per produrre all’estero) > nasce un primo vero processo di multinazionalizzazione.
In tutti i Paesi in cui si diffonde questo modo di produzione si assiste alla formazione di grandi
regioni urbane industriali (il fordismo traina la nascita delle grandi città): sono, ad esempio, il
triangolo industriale in Italia (Milano, Torino e Genova), ecc.
Dal punto di vista ambientale il modello fordista guarda ad una crescita illimitata e prevedeva un
uso illimitato di risorse non rinnovabili, quali petrolio (utilizzato non solo come fonte energetica,
ma entra in tutti i cicli di produzione, come la plastica) e carbone. È, quindi, un modello non
sostenibile.
Questa fase di crescita si interrompe agli inizi degli anni ’70 (1973 > data simbolica della prima crisi
petrolifera che interrompe questo lungo percorso di crescita delle economie occidentali).
Alla crisi del fordismo concorrono più cause, quali l’aumento dei costi di produzione (generato
dalla crisi energetica che va ad incidere sui costi delle materie prime e sui costi di trasporto, ma
anche dall’aumento del costo del lavoro > il lavoro fordista era altamente sindacalizzato), la
saturazione di beni standardizzati del mercato (il mercato non assorbisce più prodotti quali
elettrodomestici, auto), cambiamento della domanda del consumatore (si preferiscono beni meno
standardizzati, più sensibili alla moda; sono richieste che la rigidità della produzione fordista non
riesce a soddisfare), il progresso tecnologico (nella seconda metà degli anni ’70 siamo già nella
terza rivoluzione industriale, periodo in cui cominciano a diffondersi le innovazioni riguardanti la
microelettronica, l’informatica, che vanno a modificare non solo ; consentono le prime
esternalizzazioni su grande scala). È a causa dell’esternalizzazione di imprese americane del tessile
ed elettronica, che la concorrenza di certi Paesi comincia ad affacciarsi con costi di produzione più
bassi, cosicché Paesi di nuova industrializzazione cominciano a competere con Paesi industrializzati
per i beni standardizzati.
Tutto ciò ha delle conseguenze sia sul piano economico che geografico: questo periodo di
transizione che ci farà passare all’economia globalizzata comporta processi di deindustrializzazione
e declino urbano tra la metà anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, legati alla crisi fordista. Molte
imprese chiudono o, dopo fasi di difficoltà, si riorganizzano in senso e flessibile e spostano le
produzioni in Paesi a basso costo di lavoro. La conseguenza nei Paesi industrializzati è che
l’industria non offre più posti di lavoro come nella fase precedente e cominciano a manifestarsi
fenomeni di deindustrializzazione, ovvero alla caduta di occupazione nel settore manifatturiero. La
deindustrializzazione porta con sé anche la crisi della città: per la prima volta dalla rivoluzione
industriale le città dei Paesi industrializzati perdono popolazione (fenomeni di declino urbano); ci si
accorge di questo prima negli Stati Uniti, dove grandi città non attraggono più flussi migratori
come prima (lo stesso succede in grandi e medie città europee).
In questo periodo, mentre la grande impresa entra in crisi, vediamo emergere dei sistemi
produttivi specializzati, costituiti da imprese di piccole e medie dimensioni che sostengono
l’occupazione, le esportazioni, vedono crescere il numero di imprese e sono i distretti industriali. I
distretti industriali non nascono dalla crisi dell’economia fordista (in quanto sono nati prima), ma
emergono: al contrario delle grandi città, sono aree estremamente vitali in cui cresce la
produzione, l’occupazione ed assicurano benessere alle regioni in cui questi distretti sono presenti.
Non a caso in questo periodo cominciano ad acquistare forza le regioni italiane di nord-est e
centro che, durante il periodo della grande crescita fordista, diventano importanti perché sono le
aree di localizzazione privilegiata di questi sistemi di piccola-media impresa.
Dopo la crisi la grande impresa si riprende e si riorganizza in maniera flessibile, trasformandosi da
impresa fordista ad impresa globale. Vediamo nuovi assetti di questo fenomeno di
multinazionalizzaione già presente nei decenni precedenti. Le economie occidentali diventano
post-industriali o terziarizzate, quindi l’industria non contribuisce più come in passato né alla
composizione del PIL né alla composizione dell’occupazione (è soprattutto il settore terziario che
detiene le quote più rilevanti).
È questo il periodo in cui nascono le multinazionali di quarta generazione, cioè le imprese
multinazionali globali: non localizza più filiali all’estero, ma ha una vera e proprio struttura a rete.
Compaiono modalità di internazionalizzazione molteplici: non avviene più solo attraverso
l’investimento diretto estero, ma anche forme di alleanze tra imprese, quali joint venture o
alleanze strategiche, che è una partnership meno impegnativa che non prevede la formazione di
un terzo soggetto. Altra modalità di internazionalizzazione è la subfornitura internazionale, che si
riferisce al processo di esternalizzazione della produzione: si affida parte della produzione ad un
subfornitore straniero, un’impresa straniera indipendente. Possono essere attivate anche più
formule insieme. Il moltiplicarsi di queste modalità di internazionalizzazione fa capire come le reti
già esistenti nel periodo fordista diventano più fitte, complesse. Le logiche che guidano questi
investimenti sono la logica degli investimenti guidati dal mercato (si va all’estero per conquistare
nuovi mercati), gli investimenti guidati da fattori di costo (delocalizzare la produzione di singoli
componenti per ridurre i costi di produzione) e investimenti guidati dalla tecnologia (esternalizzare
per avvalersi di imprese di subfornitori specializzati).
Oggi nell’economia globalizzata abbiamo una compresenza tra produzioni specializzate
(prevedono delle strategie di investimento e delle logiche localizzative differenziate) e produzioni
standardizzate (i prodotti standardizzati non sono stati eliminati). Oggi la filiale non replica più la
casa madre, ma oggi sono unità quasi indipendenti, le scelte localizzative vengono fatte in
relazione a ciascuna filiale (non più in relazione alle strategie della casa madre): è
un’organizzazione spaziale multimpianto, multidivisionale (<> organizzazione spaziale delle
multinazionali nell’epoca fordista) che ha dato vita al modello delle global value chains.
Cos’è una global value chain/grande catena di produzione? È una grande rete che mette in
contatto imprese manifatturiere, di servizio, di distribuzione che realizzano un processo
produttivo. Non è cambiata la definizione rispetto a quella data da Porter, che per primo parlò di
catena di valore. Tutta la sequenza di fasi che ci porta dall’ideazione, progettazione, produzione,
distribuzione e servizi post-vendita non è più svolta in un’impresa o all’interno di un contesto
nazionale, ma si è frammentata in un contesto globale.
Ci sono condizioni esterne che hanno consentito lo sviluppo dell’impresa globale, della
multinazionale di quarta generazione; quindi, non è solo un processo interno, quali:
Le global value chains, o global commodity chains, dal punto di vista geografico e organizzativo
assumono configurazioni diverse. La letteratura ne ha individuato due tipi:
catene guidate dal produttore > interessano la produzione di beni che sono ad alta o media
tecnologia e che comportano continuamente l’introduzione di innovazioni di processo di
prodotto e che, per questa ragione, sono controllati da pochi produttori. Sono reti che
rimangono abbastanza concentrate non necessariamente geograficamente, ma, essendo
controllate da pochi produttori, spesso le unità produttive di queste grandi reti sono localizzate
in Paesi economicamente avanzati. È un assetto tipico dei settori come quello dell’automobile
(oggi i produttori sono sempre meno, controllano sempre di più il mercato e queste reti di
produzione)
catene guidate dal consumatore > sono quelle che troviamo, ad esempio, in beni e prodotti
ormai abbastanza standardizzati, che non richiedono grandi tecnologie e il cui successo fa leva
su valori quali il design, il marketing, la distribuzione (il comparto moda, la produzione di
arredamento, di giocattoli). In questo caso il modello organizzativo è quello di reti molto estese
di delocalizzazione, esternalizzazione: le imprese tendono ad esternalizzare tutta la
produzione, arrivando alle imprese senza stabilimento (imprese che non producono più nulla,
che controllano le fasi a monte del processo produttivo, ovvero l’ideazione, la progettazione, il
design, e a valle, come la distribuzione, ma non la produzione: questa è la situazione tipica di
grandi marchi dell’abbigliamento e delle calzature, come la Nike). Tante imprese, come la
Benetton, è un’impresa quasi senza stabilimento perché delega tutta la produzione all’esterno,
soprattutto delega la produzione a subfornitori internazionali (e non più locali). Tra le catene
guidate dal consumatore e le imprese senza stabilimento spesso si includono anche imprese
non manifatturiere, ma, ad esempio, del settore della grande distribuzione organizzata, perché
si avvalgono di un numero elevatissimo di fornitori in tutto il mondo (i prodotti che Walmart
vende arrivano da fornitori localizzati in tutto il mondo)
Esempio di grandi catene
produttive è la Apple: il
modello della Apple si dice non
essere compreso in nessuno
dei due modelli, perché la
Apple non fa produrre
semplicemente esternamente
delle componenti, ma degli
interi moduli del suo prodotto
(più complesso). La Apple ha
una serie di fornitori localizzati
Parte dello sviluppo industriale di questi Paesi di nuova industrializzazione si è realizzata attraverso
le “zone economiche speciali”, che sono grandi aree industriali che hanno normative particolari
rispetto al resto del Paese in cui sono localizzate. La dicitura “zona economica speciale” include un
notevole numero di tipologie di zone economiche speciali, quali zone franche, aree per
l’esportazione (in ogni Paese ce n’è una tipologia). Hanno, però, alcune caratteristiche comuni al di
là del nome dato a queste aree:
sono parti del territorio nazionale che sono delimitate e caratterizzate da un regime normativo
diverso rispetto al resto del Paese in materia di investimenti, tassazione e lavoro. Sono zone
che concedono vantaggi di carattere fiscale, in termini di riduzione dei dazi agli investitori
stranieri e una maggiore flessibilità per quanto riguarda le condizioni del lavoro
hanno una struttura di governance dedicata, ovvero hanno una propria autonomia dal punto di
vista amministrativo, non dipendendo né dal governo centrale né da organismi politici
regionali, locali (questo serve a garantire un migliore funzionamento di queste aree, per
garantire che i vantaggi concessi
agli imprenditori siano poi
usufruibili dalle imprese stesse)
hanno una dotazione
infrastrutturale di buon livello o di
livello superiore rispetto al resto
del Paese. Parliamo di
infrastrutture di trasporto, telematiche, di servizi per le imprese (presenza di parchi
tecnologici, ecc), tutto l’insieme di economie esterne che vanno a costituire un supporto alle
imprese straniere che si localizzano in queste aree
Questa politica di industrializzazione perseguita attraverso le zone economiche speciali, che è
caratteristica di molti Paesi, è stata una strategia per cercare di mettere in moto un processo di
industrializzazione, per ridurre tassi di disoccupazione particolarmente elevati. Questa strategia è
stata particolarmente criticata perché certi studiosi ritengono che una strategia di questo tipo
aumenti i divari spaziali, le differenze di sviluppo tra aree di uno stesso Paese perché gli
investimenti da parte dei governi si concentrano spesso su queste aree a discapito del resto del
Paese.
Un po’ tutti i Paesi di nuova industrializzazione o che hanno visto una transizione ad un’economia
di mercato (come Russia ed Europa dell’Est) hanno seguito questa strategia della creazione di zone
economiche speciali. Lo stesso è stato fatto in Africa e in America latina.
Un tipo particolare di zone economiche speciali (più impianti di produzione che zone) sono le
maquiladoras messicane: sono impianti manifatturieri di proprietà straniera localizzati in Messico
che si trovano prevalentemente situati lungo il confine con gli USA e in parte nel Messico centrale.
Questi impianti importano materiali, semilavorati, macchinari in regime di duty free (esenti da
dazi), lavorano questi materiali, assemblano e li esportano principalmente verso gli USA. Queste
maquiladoras non sono un’esperienza recente, in quanto questo progetto nasce negli anni ’60 per
accordo del governo messicano ed americano per localizzare questi impianti in una zona vicina agli
USA, a basso costo del lavoro dove potevano operare in regime di duty free le grandi imprese
americane. Il Messico fa questo accordo perché soprattutto al confine con gli USA c’era un alto
tasso di disoccupazione creata dal venir meno negli anni ’60 del programma di collaborazione tra
USA e Messico che permetteva ai lavoratori messicani stagionali di entrare legalmente negli USA
per lavorare in agricoltura. Ciò ha determinato la forte disoccupazione nelle zone confinanti con gli
USA e il governo messicano, per cercare di assorbire questi alti tassi di disoccupazione, ha aderito
al progetto maquiladoras.
Lo sviluppo di questi impianti è stato particolarmente intenso tra il 1994 e il 2000 dopo la
creazione dell’accordo di libero scambio tra Canada, USA e Messico (il NAFTA). Questi impianti
sono molto contestati per la durezza delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti gli operai, la
cui netta maggioranza è femminile.
LA CINA
Il momento cruciale per l’industrializzazione cinese è la morte di Mao: il successore Deng Xiaoping
negli anni successivi mette in atto una politica di riforme che avviene attraverso la politica delle
quattro modernizzazioni, ovvero un insieme di quattro azioni di modernizzazione che riguardavano
essenzialmente quattro settori (agricoltura, industria, settore della scienza e della tecnologia e
settore della difesa).
Ciò che apre agli investimenti stranieri è la politica della porta aperta, ovvero l’apertura agli
investimenti stranieri e al commercio estero avvenuta anche attraverso la costituzione di zone
economiche speciali. Attraverso questa apertura si potevano acquisire capitali e tecnologie,
colmando il gap tecnologico ed economico che la Cina in quel momento aveva.
Le zone economiche speciali sono inizialmente quattro e sono zone costiere perché la politica delle
zone economiche speciali parte come un esperimento ed è la prima graduale apertura verso
un’economica di mercato. Sono state definite delle isole di capitalismo in un mondo ancora
dominato da un’economia di tipo pianificato. Da queste quattro zone economiche speciali se en
creano molte altri, come le città costiere, zone localizzate nei delta dei grandi fiumi, e altre che
sono invece localizzate sui confini terrestri.
Altri fattori che consentono la spiegazione del rapido
sviluppo di questo grande Paese sono il forte
differenziale salariale rispetto ai Paesi
economicamente avanzati, materie prime disponibili
a più basso costo, normative più elastiche in tema di
protezione ambientale
ed una manodopera
che aveva un buon
livello di
scolarizzazione.
I primi imprenditori
che hanno investito in
Cina pensavano non solo ad andare a delocalizzare gli impianti per produrre a basso costo del
lavoro, ma pensavano alla Cina come un futuro mercato di espansione per i prodotti occidentali,
tenendo conto delle normali dinamiche che si verificano quando si mette in moto un processo di
sviluppo (si forma uno strato di ceti medi, di consumatori, ed era su questo che gli imprenditori
contavano, ragionando anche sui grandi numeri della popolazione). Almeno in certi periodi gli
investimenti in Cina erano molto popolari tra gli imprenditori e sollecitavano delle strategie di
imitazioni (x ha avuto successo, allora mi butto anch’io), senza contare che sul territorio c’erano
una serie di strutture delle camere di commercio, dell’istituto per il commercio estero italiano che
sostenevano gli imprenditori nelle loro avventure in un territorio così lontano.
Il risultato di questo percorso è un forte sviluppo che vediamo nell’andamento del PIL. Rapportato
a quello degli USA, vediamo prima una fase di crescita costante, ma contenuta; dalla metà degli
anni 2000 abbiamo invece un’impennata e una crescita continua dell’economia cinese.
La trasformazione
dell’economia cinese è visibile
anche dal cambiamento della
composizione percentuale del
PIL tra gli anni ’70 (prima dello
sviluppo) e il presente. Nel
momento in cui si mette in
moto un percorso di sviluppo
industriale, il settore
dell’agricoltura diventa via via
meno importante: diminuisce la
quota sia nella composizione del
PIL che nella composizione della
forza lavoro (è la curva tipica
una rotta terrestre (azzurro chiaro) che attraversa tutto il continente asiatico e parte del
continente europeo. Parte dalla Cina, attraverso una serie di ramificazioni un ramo arriva in
Iran per poi partire verso la Turchia, un altro ramo arriva verso l’Europa orientale (Mosca) ed
un altro verso la Germania (porto di Rotterdam), l’Italia e la Spagna. È una rotta terrestre fatta
di autostrade, ferrovie, oleodotti, gasdotti e di infrastrutture come nodi, interporti, ponti,
parchi scientifici
una rotta marittima (blu) che parte dai porti della Cina meridionale, arriva al continente
indiano, un ramo giunge al Pakistan e poi nuovamente all’Iran, un altro al Kenya e un altro (più
importante) attraverso il canale di Suez arriva ai porti del Mediterraneo (Grecia, Italia)
la rotta artica (rosso) la cui possibilità di realizzazione dipende, purtroppo, dallo scioglimento
dei ghiacci polari
Questo grande programma di infrastrutture e cooperazione tra Europa e Cina è visto con estremo
interesse da entrambe le parti: dalla Cina per incrementare i suoi traffici verso l’Europa in maniera
più veloce rispetto ai tragitti attuali; dall’Europa per entrare ulteriormente nel mercato cinese.
Questo progetto, che ha già visto una serie di investimenti, viene molto contrastato dagli USA, che
sono i grandi esclusi. È un rapporto che vede ai due lati Europa e Cina e, in mezzo, una serie di altri
Paesi. Questo progetto comporta un forte impegno in infrastrutture perché è realizzato solo in
parte (ci sono già assi ferroviari che attraversano, partendo dalla Cina, il continente asiatico e
arrivano, ad esempio,
all’interporto di Duisburg).
Centrale soprattutto nel
percorso via terra è il
Kazakistan: ci sono Stati che
fino a questo momento sono
rimasti ai margini
dell’economia, ma che in
questo progetto diventano
essenziali. Il Kazakistan ha al
suo interno dei punti che
sono in assoluto i più lontani
dal mare, i più interni, ma ha una posizione strategica nella Nuova Via della Seta ed è per questo
che sono state localizzate delle infrastrutture in quest’area attraversata dalle rotte ferroviarie.
Proprio nel territorio cinese sul confine col Kazakistan è nato un interporto che sta per diventare
uno tra i più grandi del mondo: il porto di Khorgos (porto secco o interporto con annessa zona
franca). È diventato un importante nodo di scambio percorso da un numero sempre crescente di
treni. Tra il 2010 e il 2016 in questa zona sono sorte una serie di infrastrutture, quali zona
industriale, ferrovia, strade, aree residenziali, progetto per un aeroporto, zone commerciali.
Questa tabella rappresenta la
percentuale dei principali
Paesi industriali sul totale
della produzione
manifatturiera mondiale.
Vediamo, solo dal 2000 al
2014, come è aumentata la
quota della Cina (da 8,3% a
32,8%, diventando il maggior
Paese manifatturiero,
spazzando Paesi di vecchia
industrializzazione). La quota
degli USA diminuisce, quindi non è più il principale Paese industriale. Ancora peggiore è la
contrazione Giappone (da 16% a 6,2%), che per processi di sviluppo non ha niente a che fare con i
Paesi del sud-est asiatico e Cina (in quanto industrializzato prima). Diminuisce in maniera
consistente anche l’Italia nel periodo post-crisi. Sostanzialmente hanno tenuto la Germania (con
una leggera riduzione) e la Corea del Sud.
Tutti questi cambiamenti hanno cambiato la composizione del PIL e dell’occupazione nella maggior
parte dei Paesi industrializzati.
Questa è una traiettoria tipica dei Paesi economicamente avanzati: dall’epoca del primo
censimento (1860) vediamo una costante diminuzione della quota del settore primario.
Progressivamente, avviene la modernizzazione dell’agricoltura, che porta ad una perdita di
occupati. Comincia, seppur debolmente, a crescere la percentuale di occupati nel settore
industriale, ancora prima del fordismo, e ancor più nell’epoca d’oro del fordismo, ovvero quando
l’industria diventa la base economica di molti di questi Paesi (anni ‘70). Qui avviene il passaggio da
un’economia fordista ad una post-
fordista che si riflette anche
sull’occupazione. Verso la metà degli
anni ’70 avviene un sorpasso: per la
prima volta il numero di occupati nel
settore terziario è più alto di quello
degli occupati nel settore industriale
(terziarizzazione dell’economia). La
curva dei servizi viene ad essere
opposta e speculare rispetto a quella
dell’agricoltura. I Paesi economicamente avanzati hanno un numero maggiore al 70% di occupati
nei servizi.
I DISTRETTI INDUSTRIALI
Il distretto industriale è un modello che è peculiare dello sviluppo economico ed industriale del
nostro Paese. Sostengono le esportazioni e sono un modello che tanti Paesi hanno cercato di
replicare.
È un modello che si sviluppa dagli anni ’70 (anche se nasce prima). Cambia ovviamente negli anni.
A partire dagli anni ’90 il distretto diventa un oggetto di politiche industriali: sono state emanate le
prime normative e messe in atto delle politiche industriale specifiche per i distretti.
L’economista toscano Becattini è il primo ad accorgersi dell’esistenza dei distretti semplicemente
guardando la realtà toscana (come Prato, Arezzo). Si rende conto che in Toscana esistono delle
realtà costituite da sistemi produttivi localizzati, specializzati dove le imprese si dividono il lavoro
tra di loro e che sono altamente dinamici in un periodo in cui l’impresa stava entrando in crisi
(passaggio dal fordismo al post-fordismo). A questi sistemi produttivi localizzati Becattini dà il
nome di distretti industriali. Queste formazioni economico-territoriali si riscontrano in altre parti
del territorio italiano, soprattutto a nord-est e centro. Il Becattini è il precursore di un filone di
studi che ha riguardato molte altre regioni del nostro Paese e che ha riguardato anche la
letteratura internazionale.
Il distretto industriale è un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in
un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità
di persone e di una popolazione di imprese industriale.
Ciò che caratterizza il distretto è la sua localizzazione in una piccola area geografica con precisi
tratti naturali e storici. Le due dimensioni del distretto sono poi la comunità di persone
(incorporano un sistema di valori riguardanti l’economia, quali attitudine al rischio, spirito di
imprenditorialità, cultura del lavoro, omogeneo; persone che vivono e lavorano da tempo nello
stesso territorio, che si conoscono e che hanno intrecciato delle relazioni anche fiduciarie tra di
loro, di collaborazione) ed una popolazione di imprese industriali (prevalentemente piccole
imprese, specializzate in un settore produttivo e che si dividono il lavoro tra di loro, ovvero
specializzate per fase produttiva).
Il concetto di distretto industriale è ripreso da Marshall, un economista di fine ‘800: aveva
osservato che in molti Paesi, ma soprattutto in alcune aree dell’Inghilterra, esistevano ancora delle
concentrazioni di piccole imprese, soprattutto artigiane, molto specializzate e che si dividevano il
lavoro. La peculiarità era che questi sistemi persistevano sul territorio nel momento in cui il
sistema industriale stava andando verso le grandi dimensione d’impresa. Marshall le vede come
forme residuali. Dopo di lui l’analisi dei distretti industriali è stata abbandonata e poi ripresa da
Becattini.
Per Marshall il distretto industriale è un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese,
facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra
le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza.
Mette in evidenza il mix di collaborazione (in senso verticale, c’è collaborazione tra imprese
specializzate su fasi diverse del ciclo produttivo) e concorrenza (in senso orizzontale, le imprese
che producono lo stesso bene sono in forte concorrenza, che nelle prime fasi di sviluppo del
distretto tende alla riduzione dei costi di produzione).
Possiamo individuare le principali caratteristiche costitutive del distretto industriale:
piccola dimensione geografica; occupa un’area più grande del comune, ma più piccola della
provincia (un distretto va dai 15 ai 20 comuni); parliamo di distretti che si sviluppano in aree
extraurbane
forte vocazione settoriale; questi distretti si sono specializzati sin dall’inizio in quelle che sono
le tipiche produzioni del made in Italy: parliamo di specializzazione di filiera perché nei distretti
si è sviluppato non solo un settore merceologico di specializzazione, ma anche tutti quei settori
complementari che vanno a concorrere per la realizzazione del prodotto finito
prevalenza di imprese di piccole e medie dimensioni (non esclusività); queste piccole imprese
sono normalmente indipendenti dal punto di vista giuridico, ma sono legate da rapporti di
collaborazione tra loro (sono specializzate per fase, ovvero divisione del lavoro > elemento
peculiare della distrettualità)
forte cultura del lavoro, spirito di imprenditorialità e di identità
reti di istituzioni pubbliche, ma anche soggetti privati che, soprattutto in certe fasi dello
sviluppo del distretto, ne hanno accompagnato la crescita; basti pensare alla presenza delle
banche locali, cioè banche di piccole dimensioni radicate nel territorio che finanziavano queste
attività imprenditoriali
radicamento nel territorio; i distretti derivano spesso dall’evoluzione di tessuti artigianali, di
specializzazioni che si sono consolidate nel tempo e dove si sono messi in moto ad un certo
punto questi meccanismi di industrializzazione, di divisione del lavoro
Alcune di queste non hanno più la stessa intensità, come gli aspetti di identità, di radicamento
dell’industria nel territorio.
ECONOMIE ESTERNE DI AGGLOMERAZIONE
Altro punto che riguarda il funzionamento dei distretti industriali sono le economie esterne di
agglomerazione, concetto chiave della geografia.
Parliamo di economie esterne, o esternalità, ogni volta in cui il comportamento di un soggetto
economico condiziona il comportamento di un altro soggetto economico, anche in negativo
(esternalità negative). Sono esterne all’impresa.
Una tipologia di economie esterne sono quelle di agglomerazione: sono dei vantaggi in termini di
riduzione dei costi unitari di produzione, di aumento dell’efficienze, di aumento della produttività
che si verificano quando in un’area si localizzano più soggetti economici spazialmente vicini.
Distinguiamo due tipologie di economie di agglomerazione:
ci sono distretti che nascono come evoluzione di un tessuto artigianale preesistente, ovvero
precedentemente si forma un tessuto artigianale di piccole imprese che tendono a
specializzarsi; a partire da un certo momento il tessuto compie un salto di scala e si evolve
industrializzandosi e specializzando le fasi di produzione. Ci sono dunque imprese che
assumono il ruolo di committenti e altre di subfornitrici, a cui viene affidata una parte del
processo produttivo o una componente. Da lì comincia il percorso evolutivo del distretto.
ci sono, però, situazioni in cui il distretto nasce per esternalizzazione di fasi produttive da
imprese di grandi dimensioni: una grande impresa, o per contenere i costi o per fare fronte a
fasi di aumento della produzione senza aumentare la scala dell’impianto, danno all’esterno fasi
di lavorazione o la produzione di componenti. Spesso queste imprese subfornitrici sono
imprese costituite da ex dipendenti che si mettono in proprio: l’impresa madre fa da
incubatrice di processi di sviluppo di piccole imprese che in molti casi procedono da soli anche
nel caso in cui l’impresa madre chiuda o se ne vada: si forma un tessuto industriale per
gemmazione.
Il caso del distretto dello Sport Assistant fa parte della prima tipologia (si forma prima un tessuto
artigianale, c’è un lungo periodo di incubazione e poi si passa ad una produzione di tipo industriale
e ad una specializzazione per fasi), mentre il distretto tessile dell’alto vicentino è nato per processi
di gemmazione, di spin-off di piccole imprese da parte dell’impresa madre (grandi lanifici che
hanno dato all’esterno delle fasi di produzione).
In questi percorsi non c’è niente di deterministico: ci sono stati casi in cui si è formato un tessuto
di imprese artigianali che non ha dato vita ad un distretto, ma si è semplicemente dissolto.
Servono ovviamente altre caratteristiche, quali l’attitudine al rischio, lo spirito di imprenditorialità.
Questa prima fase vede aumentare il numero di imprese, crescere l’occupazione, ma in misura
ancora contenuta. Lo sviluppo dei distretti non è totalmente endogeno: questi processi sono
endogeni all’area, ma i distretti partecipano di tutti quei vantaggi di cui hanno partecipato le
imprese in questo periodo, di quel generale processo id liberalizzazione degli scambi, di apertura
dei mercati, di introduzione di tecnologie caratteristico dei primi decenni del secondo dopoguerra
(contesto esterno favorevole alla nascita di questi sistemi produttivi locali).
La fase successiva, quella che definiamo di sviluppo del distretto, si colloca negli anni ’70/’80: qui
vediamo crescere tutte le dimensioni in maniera esplosiva, quali il numero di imprese,
l’occupazione, la produzione. Le imprese distrettuali si delineano come imprese orientate verso
l’esportazione. Si complessifica anche l’organizzazione del lavoro all’interno di questi sistemi
produttivi: nascono una serie di imprese a monte e a valle del processo produttivo (imprese che si
occupano degli approvvigionamenti, della logistica, di servizio, si sviluppa settori complementari
rispetto al settore principale di specializzazione). Ciò porta all’evoluzione del distretto da distretto
specializzato in un settore ad un distretto che è più filiera. Anche i rapporti tra imprese non sono
più semplici come nella fase precedente (committente-subfornitore, dove il subfornitore era
legato ad un solo committente), ma sono più complessi: abbiamo rapporti di pluricommittenza
dove un subfornitore è legato a più committenti; si delineano, inoltre, diversi livelli di subfornitura,
dove ad esempio un committente attiva un subfornitore che a sua volta attiva un laboratorio
artigiano. Si parla dunque di area sistema integrata, e non più di specializzazione di fase.
Ad un certo punto questo ciclo di forte crescita si interrompe e i distretti entrano in una fase di
maturità (terza fase): cambiano le condizioni del contesto competitivo, quindi cominciano ad
apparire sullo scenario internazionale nuovi competitori (Paesi che realizzano a costi ancora più
contenuti gli stessi beni standardizzati che si producono nei distretti). La fase di maturità (anni
‘80/’90) coincide con l’arrivo della globalizzazione. Qui cominciano a mettersi in atto alcune
trasformazioni che poi vedremo nella fase successiva alla crisi economica. Per superare questo
momento di transizione, crisi i distretti mettono in atto diverse strategie che non si escludono a
vicenda (i distretti più evoluti mettono in atto un po’ tutte queste strategie):
La legge stabilisce che ciascun distretto e rete deve avere un rappresentante: le imprese che
aderiscono ai distretti e i soggetti pubblici nelle reti devono individuare un soggetto giuridico che
rappresenti il distretto, che faccia da interlocutore nei rapporti con la regione. Questo soggetto
raccoglie le istanze, le esigenze delle imprese che operano nei distretti, i progetti delle reti
innovative. Questi soggetti sono, per quanto riguarda i distretti, dei consorzi, che fanno da soggetti
giuridici e rappresentati.
Sulla base di criteri così restrittivi, sono stati riconosciuti solo 17 distretti (il numero si riduce
considerevolmente), che sono effettivamente quelli storici.
Nella legge sono indicate degli ambiti di intervento all’interno dei quali si possono presentare i
progetti. L’articolo n.7 della legge del 2014 ci indica questi ambiti di intervento, che sono quelli che
possono sollecitare la competitività del distretto:
ricerca e innovazione > sfida dei distretti nell’ambito post-crisi e post-pandemia. Ricerca di
nuovi prodotti e processi produttivi, progetti che riguardano lo scambio di tecnologie e
conoscenze tra le imprese.
internazionalizzazione > tutte le iniziative che permettono di far conoscere le imprese e i
prodotti dei distretti sui mercati globali; si possono finanziare anche la partecipazione a grandi
fiere del settore
infrastrutture > sia in senso fisico che
servizi. Potrebbero essere
infrastrutture logistiche, infrastrutture
digitali (progetti che finanziano
l’introduzione nelle imprese delle
nuove tecnologie digitali che vanno a
ridurre il digital divide)
sviluppo sostenibile e salvaguardia
ambientale
difesa dell’occupazione e sviluppo di
nuova occupazione > si specifica che si
possono finanziare anche quei progetti
che riguardano il rientro di produzioni
precedentemente delocalizzate (riferimento non esplicito al tema del reshoring)
sviluppo di imprenditoria innovativa e di nuova o rinnovata imprenditorialità > si fa riferimento
alle start-up
partecipazione a progetti promossi dall’UE > si specifica anche in materia di cluster (altro modo
di definire questi sistemi produttivi locali che si utilizza nella letteratura internazionale e nei
documenti dell’UE)
ogni ulteriore iniziativa finalizzata al rafforzamento competitivo delle imprese
La produzione di calzature nella nostra regione è organizzata in tre aree specializzate di
produzione che, guardando alla normativa attuale, avremmo due distretti (Montebelluna e Riviera
del Brenta), mentre il distretto veronese non ha soddisfatto i criteri (è definito in un altro elenco
che raggruppa aree di produzione specializzate che non soddisfano questi criteri restrittivi). Sono
tre aree di produzione diverse dal punto di vista del prodotto: Montebelluna è specializzato nella
calzatura, attrezzatura e abbigliamento sportivo; Riviera del Brenta (tra Padova e Venezia) è
specializzato nella produzione di una scarpa fine soprattutto per donna rivolta ad un segmento di
mercato elevato (prodotto costoso > i produttori di questa area sono licenziatari dei grandi marchi
della moda); il distretto di Verona è specializzato maggiormente nella produzione i una scarpa di
fascia di mercato media o media-bassa.
Montebelluna e Riviera del Brenta hanno un’origine ed una traiettoria di sviluppo comune:
entrambi sono distretti con una forte storicità ed entrambi traggono origine da un nucleo di
specializzazione artigianale (‘800). Si passa poi ad una produzione industriale (sistema di fabbrica).
Certi storici vedono le origini del distretto nell’origine veneziana: Venezia non era specializzata
solo nei commerci, ma aveva anche delle specializzazioni manifatturiere ben precise, tra cui la
produzione di scarpe. Queste produzioni venivano realizzate soprattutto nei domini di terra ferma.
Verona ha avuto, invece, una nascita ed un’evoluzione del tutto diversa: non c’è una vera e propria
storicità. Le imprese si sono sviluppate soprattutto come terziste di imprese tedesche negli anni
’50 (non ci sono preesistenze). Dal punto di vista evolutivo il distretto veronese è stato più colpito
dalla delocalizzazione produttiva: alcune imprese si sono trasferite o hanno attivato rapporti con
sub-fornitori soprattutto nell’est Europa (Romania soprattutto). Qui ci siamo accorti del fenomeno
delocalizzazione: dalla metà degli anni ’90 il flusso di importazioni di calzature verso la provincia di
Verona cresce sempre più dalla Romania (non stavamo importando, ma sono imprese che
producono in Romania e che poi
immettono i prodotti nel mercato
domestico).
Il distretto di Montebelluna si trova
nella parte occidentale della
provincia di Treviso. Il distretto è
costituito da 16 comuni (15 in
provincia di Treviso, 1 in provincia di
Belluno). Questa è l’individuazione
della regione Veneto (con altre fonti,
e quindi criteri meno o più elastici,
troviamo dati diversi).
FASE DI INCUBAZIONE. All’inizio dell’’800 troviamo una decina di laboratori artigiani (botteghe di
calzolai dove si produceva questo prodotto molto rudimentale e rozzo, che era una scarpa da
lavoro con la tomaia in cuoio e la suola in legno). Questo primo nucleo si espande: già attorno al
1870 siamo a 50 laboratori e, un secolo dopo, agli inizi del ‘900 siamo a 200 laboratori artigiani: c’è
stata una continua crescita nel tempo che ha permesso che questo substrato non si perdesse.
Siamo in un’area agricola che rimane ancor tale (non c’è uno sviluppo industriale tale da cambiare
l’economia dell’area). Tutto viene appreso attraverso il lavoro (non ci sono scuole, istituti). Questo
tessuto si è sviluppato in quest’area per la posizione, che è ottimale tra aree di
approvvigionamento delle materie prime (pellami dell’alto vicentino e legno dei boschi di
Montebelluna); inoltre, questo prodotto era acquistato da tutti i montanari della zona (c’era un
mercato di sbocco). Ovviamente giocano un ruolo importante anche l’attitudine al rischio, lo
spirito di imprenditorialità, ecc.
TRANSIZIONE AL SISTEMA FABBRICA. Tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900 nascono le
aziende storiche dell’area: Tecnica, Nordica, Dolomite. Ci sono eventi esterni che inducono lo
sviluppo di questo distretto, quali:
Ad oggi, nel distretto sono rimaste le nicchie produttive definitesi storicamente e quelle nate negli
ultimi decenni: al cuore del distretto troviamo il nucleo costituito dalla calzatura da montagna e lo
scarpone da sci (innovazioni più attuali, il segmento che continua ad innovare); accanto al nucleo,
ci sono tuti gli altri segmenti che riguardano la calzatura e l’abbigliamento sportivo (produzione di
scarpe tecniche), il segmento della scarpa sportiva casual (Geox, Stonefly), delle attrezzature
sportive, dell’abbigliamento casual sportivo (in termini di fatturato è il segmento più importante) e
altri settori collaterali, che concorrono al funzionamento del distretto e di tutta la filiera (imprese
che sperimentano sui materiali plastici, industrie che producono stampi, macchinari e componenti,
il design, la progettazione, la ricerca e sviluppo, la logistica). Le produzioni si calzature riguardano
ogni tipo di scarpe: scarpe ortopediche, da trekking, antinfortunistiche.
Qualche indagine durante la pandemia ha rivelato che il distretto ha visto un crollo delle
esportazioni nei primi mesi del lockdown, soprattutto per il segmento dello scarpone da sci e
attività outdoor; ha sofferto meno il settore dell’abbigliamento sportivo. Analisi di quest’anno
sottolineano la ripresa del distretto ed oggi, nel post-pandemia, il distretto punta alle nuove
tecnologie.
Rapporto tra distretto e legge regionale n.13/2014. Anche con le precedenti normative il distretto
è sempre stato riconosciuto e ha sempre presentato patti di sviluppo, anche quando la normativa
lasciava agli enti locali la possibilità di auto riconoscersi. Il distretto è stato riconosciuto e ha
nominato come soggetto giuridico responsabile il consorzio UNINT, un consorzio che lavora per
favorire l’integrazione tra imprese su progetti di ricerca, di internazionalizzazione di cui fanno
parte Unindustria di Treviso, la Confindustria di Padova e la Confindustria di Belluno Dolomiti.
Nel programma di sviluppo 2017-2020 le linee di ricerca sono state soprattutto quattro: ricerca ed
innovazione relativa ai processi produttivi e ai prodotti (introduzione delle tecnologie dell’Industria
4.0, come sensori, stampa in 3D; sostenibilità ambientale, ovvero fare ricerca e migliorare i
processi e i prodotti sia per la produttività e la performance dei prodotti sia per renderli meno
impattanti dal punto di vista ambientale > ridurre consumi energetici, cercare materiali plastici
biocompatibili, cercare di indurre una circolarità nei processi produttivi, ovvero riutilizzare lo
scarto); internazionalizzazione (supportare progetti di imprese che vanno all’estero o che
partecipano alle principali fiere/manifestazioni del settore > si sono mosse soprattutto le piccole e
medie imprese, perché le grandi imprese non hanno bisogno del supporto della regione per
l’internazionalizzazione); formazione del capitale umano (è legata all’introduzione di queste nuove
tecnologie, per le quali le risorse umane non hanno le competenze).
CLUSTER E CLUSTER HIGH-TECH. IL CASO SILICON VALLEY.
Al di fuori del nostro Paese come si distribuiscono le attività economiche dal punto di vista
spaziale? Le attività economiche hanno la tendenza a raggrupparsi spazialmente anche quando
non esistono quei meccanismi di divisione materiale del lavoro tipici del distretto, perché vale il
meccanismo delle economie di agglomerazione (dalla vicinanza spaziale le imprese traggono dei
benefici). Queste attività non sono solo di produzione materiale, ma sono anche di servizi, di
qualunque tipo. Tipico caso sono i servizi finanziari a New York, che tendono a raggrupparsi
spazialmente nella zona di Wall Street, a Milano abbiamo il quadrilatero della moda
(organizzazione e promozione dell’alta moda).
Nella letteratura internazionale per individuare questi raggruppamenti di imprese si utilizza il
termine cluster, in alternativa al distretto. “Cluster” significa raggruppamento e questo concetto
ha una paternità, che è l’economista americano Porter: sviluppa l’idea e la definizione di cluster in
due lavori del 1989 (lavori sul vantaggio competitivo delle nazioni) e un articolo del 1999 (dove
illustra la teoria dei cluster). Porter parte dall’osservazione che le imprese più innovative di tutti i
settori produttivi tendono a concentrarsi in alcune regioni e a formare dei raggruppamenti, i
cluster. Tutta questa letteratura sui distretti e di Porter va a smentire l’ipotesi dello spazio nella
globalizzazione come tutto omogeneo, uguale: se esiste questa tendenza delle attività economiche
a concentrarsi, lo spazio non è omogeneo, uguale.
Il cluster è una concentrazione geografica di imprese, fornitori di beni e servizi specializzati e
istituzioni, fortemente interconnessi, che competono, ma anche collaborano tra loro in un
particolare settore.
C’è l’idea della concentrazione geografica che, però, trae in inganno: “geografica” non significa
sempre spazialmente contigua come si intende per il distretto; c’è l’elemento della
specializzazione; ci sono altri soggetti che normalmente non troviamo nei distretti, come le
istituzioni; elemento che troviamo sia nei cluster che nei distretti è la duplice matrice
collaborazione-competizione.
Andando a vedere i cluster che Porter individua materialmente negli USA, vediamo che si perde la
specificità industriale del distretto: ci sono molte attività economiche, sia di carattere
manifatturiero che di servizio. Porter vede il cluster in tutte le agglomerazioni di attività
economiche che troviamo nel mondo e che non fanno riferimento al meccanismo delle economie
di localizzazione.
La categoria del cluster è più ampia rispetto al distretto industriale.
L’elemento più importante non è la vicinanza spaziale delle imprese, ma le reti che le collegano: è
più l’estensione di queste reti che determina il cluster. Il soggetto che più si avvicina al cluster di
Porter sono le reti innovative che delinea la regione Veneto, dove c’è una forte interazione tra le
imprese e tra le imprese ed istituzioni. Anche qui non è necessario che due imprese che attivano
questi rapporti siano vicine.
Mentre nei cluster c’è la presenza di istituzioni, nei distretti non sono previste dalla letteratura
classica: i distretti sono anti in maniera slegata da istituzioni di ricerca, università (dei legami si
stanno creando solo oggi con la regione, i comuni, le università).
INDUSTRIA/CLUSTER HIGH-TECH
L’industria ad alta tecnologia non è l’industria innovativa, perché qualunque settore può essere
innovativo, anche settori tradizionali come quello dello scarpone da sci. L’industria high tech ha
caratteristiche precise, quali:
intensità di ricerca e sviluppo > una quota consistente degli investimenti viene destinata alla
ricerca e sviluppo
impiega forza lavoro qualificata > ricercatori, ingegneri, tecnici, che sono figure molto
specializzate
richiede
investimenti
consistenti, a
redditività differita
nel tempo (nel
momento in cui
elaboro
un’invenzione, tra
questa e il suo
sfruttamento
commerciale spesso passa parecchio tempo) e ad alto rischio (molti prodotti non vanno a buon
fine dal punto di vista commerciale)
riguarda settori, quali l’aerospaziale, la robotica, le biotecnologie, le nanotecnologie,
l’elettronica (nella sua parte di progettazione e concezione), l’informatica, la farmaceutica e le
telecomunicazioni > abbiamo settori vecchi, come la farmaceutica, ma anche nuovi, come le
biotecnologie
Esistono nel mondo diverse concentrazioni spaziali di industrie high tech sia nei Paesi
economicamente avanzati o di veccia industrializzazione sia nei Paesi emergenti, a cui è dato il
nome di cluster high tech o distretti dell’alta tecnologia.
Alcuni di questi sono la Silicon Valley (California; da questo cluster è partita la rivoluzione
dell’informatica e della telematica, derivano la maggior parte dei dispositivi e servizi che
utilizziamo in questi decenni), Cambridge (UK; per quanto riguarda le biotecnologie, l’industria del
software, l’industria farmaceutica), Grenoble (Francia; abbiamo le nanotecnologie), Etna Valley
(gruppo di imprese specializzate nella microelettronica nata quando a Catania si è insediata la ST
Microelectronics, azienda italo-francese con la sede in Svizzera), Trieste (fisica), Bangalore (India; è
la Silicon Valley dei Paesi di nuova industrializzazione e riguarda il software, ecc.).
I ricercatori hanno notato che i cluster high tech presentano una serie di caratteristiche comuni,
dalle quali si possono individuare i fattori di localizzazione prevalenti dei cluster dell’alta
tecnologia. Questi fattori sono:
Investimenti nel settore militare, che hanno catalizzato flussi ingenti di finanziamenti. Tuttavia,
la capacità della Silicon Valley è stata quello di svincolarsi progressivamente dall’ambito
militare e di confluire in un sistema produttivo autonomo rivolto al settore privato
Funzione dell’Università di Stanford, che ha fornito forza lavoro specializzata e ha finanziato o
direttamente o reperendo canali di finanziamento per le iniziative imprenditoriali (non è
un’economia esterna che conferisce un vantaggio indiretto all’area, ma l’Università ha fatto da
promotore a questi finanziamenti)
Propensione allo spin-off aziendale, che in molte aree non si riscontra
Presenza del venture capital, che è essenziale per il finanziamento di tutte le attività
economiche
Ambiente dinamico, multiculturale, informale e molto creativo, che non si trova in altri cluster
Le tendenze più recenti sono sotto osservazione e la più preoccupante è che molte imprese nate
nella Silicon Valley stiano oggi andando a localizzarsi altrove, quali Tesla e la Oracle (ora in Texas).
La stessa HP ha minacciato di volersi rilocalizzare in Texas.
Perché? Si sono messe in atto delle diseconomie di agglomerazione: ciò che costituiva dei vantaggi
è diventato da alcuni punti di vista uno svantaggio. Uno dei motivi per cui molti imprenditori
prendono in considerazione la rilocalizzazione in altra area è l’alta tassazione, sia per quanto
riguarda le imprese che le persone. Altri motivi sono il costo della vita (aumentato soprattutto per
gli alloggi > tipica diseconomia di agglomerazione che interviene in contesti particolarmente
sviluppati). Certe imprese, tra cui Tesla, hanno lamentato i continui lockdown imposti dal
governatore della California, bloccando l’attività delle imprese.
Queste condizioni non si sono riprodotte in Texas, dove la tassazione è più bassa (per attrarre
queste imprese), non ci sono stati così tanti lockdown e il costo della vita è più basso.
Anche in queste aree si sono verificati processi di delocalizzazione produttiva: via via la produzione
del computer, che diventa più standardizzato, si sposta in aree a basso costo del lavoro. Ad
esempio, la Apple crea una catena del valore con imprese sub-fornitrici localizzate in tutto il
mondo, mentre nella casa madre si concentrano le attività a più elevato valore aggiunto.
LA LIBERALIZZAZIONE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE: IL MULTILATERALISMO
E LA WTO
La liberalizzazione del commercio internazionale si è realizzata attraverso due modalità principali:
il multilateralismo ed il regionalismo.
La liberalizzazione commerciale è un processo che si è messo in moto soprattutto dopo la Seconda
Guerra mondiale. Avviene secondo due modalità: