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Diritto Internazionale conforti

Diritto Internazionale (Università del Salento)

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DIRITTO INTERNAZIONALE
B.Conforti

INTRODUZIONE

1. Definizione del diritto internazionale.

Il diritto internazionale può essere definito come il diritto della


‘comunità degli Stati’. Tale complesso di norme si forma al di sopra dello Stato,
scaturendo dalla cooperazione con gli altri Stati, e lo Stato stesso con proprie
norme, anche di rango costituzionale, si impegna a rispettarlo. Si dice che il
diritto internazionale ‘regola i rapporti fra Stati’ per indicare il fatto che le
norme internazionali si indirizzano in linea di massima agli Stati, creano cioè
diritti ed obblighi per questi ultimi. La caratteristica più rilevante del diritto
internazionale odierno è che esso non regola solo materie attinenti ai rapporti
interstatali ma, pur indirizzandosi fondamentalmente agli Stati, tende a
disciplinare rapporti interni alle varie comunità statali.
Il diritto internazionale viene anche chiamato diritto internazionale
pubblico in contrapposizione al diritto internazionale privato, che è formato da
quelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno Stato, stabilendo
quando esso va applicato e quando invece i giudici di quello Stato sono tenuti
ad applicare norme di diritto privato straniero. Nel diritto internazionale
privato in senso lato rientrano anche tutte le norme che provvedono a
delimitare verso l’esterno i rami pubblicistici dell’ordinamento statale: ad es. le
norme che stabiliscono in quali casi la legge penale si applica a reati commessi
fuori dal territorio o da stranieri. In realtà, il diritto internazionale non è né
pubblico né privato, tale distinzione essendosi sviluppata ed avendo senso solo
con riguardo all’ordinamento statale.

2. Funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del diritto


internazionale.

Per quanto riguarda la funzione normativa occorre distinguere fra diritto


internazionale generale e diritto particolare, cioè tra norme che si indirizzano a
tutti gli Stati e quelle che vincolano una stretta cerchia di soggetti, di solito i
soggetti che hanno partecipato direttamente alla loro formazione. Alle norme
di diritto internazionale generale fa riferimento l’art. 10 Cost. italiana
(“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”). Tali norme generali sono le norme

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consuetudinarie, formatesi nell’ambito della comunità attraverso l’uso: di


queste norme può affermarsi l’esistenza solo se si dimostra che esse
corrispondono ad una prassi costantemente seguita dagli Stati.
La caratteristica della consuetudine, fonte primaria dell’ordinamento
internazionale, è che essa ha dato luogo ad uno scarso numero di norme. A
parte le norme strumentali (come quelle che regolano i requisiti di validità ed
efficacia dei trattati, e quindi si limitano a disciplinare un’ulteriore fonte
normativa) non sono molte le norme materiali, ossia le norme che
direttamente impongono diritti ed obblighi agli Stati. Le tipiche norme di diritto
internazionale particolare sono invece quelle poste da accordi (o patti, o
convenzioni, o trattati) internazionali e che vincolano solo gli Stati contraenti.
Esse costituiscono la parte più rilevante del diritto internazionale. L’accordo
internazionale è subordinato alla consuetudine: la norma internazionale pacta
sunt servanda ha natura consuetudinaria. Al di sotto degli accordi si trovano i
procedimenti previsti da accordi, fonti di terzo grado. Tali procedimenti
costituiscono fonti di diritto internazionale particolare e traggono la loro forza
dagli accordi internazionali che li prevedono, vincolando solo gli Stati aderenti.

Circa la funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale,


essa è funzione di carattere prevalentemente arbitrale. L’arbitrato, a differenza
della giurisdizione, poggia sull’accordo tra le parti, accordo diretto a sottoporre
la controversia ad un determinato giudice. Non mancano istanze giurisdizionali
istituzionalizzate, ossia tribunali permanenti istituiti da singoli trattati; anche in
questi casi, comunque, il fondamento della competenza del giudice resta
pattizio

Circa i mezzi che nel diritto internazionale sono adoperati per assicurare
coattivamente l’osservanza delle norme e per reprimerne le violazioni, occorre
realisticamente riconoscere che siffatti mezzi sono quasi tutti riportabili alla
categoria dell’autotutela.

Circa il carattere obbligatorio del diritto internazionale, nessuno nega che


delle norme si formino al di sopra dello Stato, vuoi per consuetudine, vuoi
attraverso la stipulazione di trattati fra Stati medesimi; ciò che si nega è che si
tratti di un vero e proprio fenomeno giuridico, capace di imporsi in modo
continuo ed efficace al singolo Stato. L’osservanza del diritto internazionale
riposa sulla volontà degli operatori giuridici interni diretta ad utilizzare, fino al
limite massimo di utilizzabilità, gli strumenti che lo stesso diritto statale offre a
garanzia di siffatta osservanza, e quindi far prevalere per questa via le istanza
internazionalistiche su quelle nazionalistiche. È una formulazione in termini
moderni della tesi sostenuta dalla dottrina positivistica tedesca del XIX secolo

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(Jellinek), la quale considerava il diritto internazionale come frutto di una


autolimitazione del singolo Stato. Infatti, la comunità internazionale nel suo
complesso non dispone di mezzi giuridici per reagire efficacemente e
imparzialmente in caso di violazione di norme internazionali. Ciò che occorre
superare è però l’idea di arbitrio del singolo Stato (la sua libertà di sciogliersi in
ogni momento da qualsiasi impegno internazionale), insita anch’essa nella
teoria dell’autolimitazione: una corretta amministrazione del diritto interno
dello Stato costituisce l’unica remora efficace, dal punto di vista giuridico,
all’esercizio di un simile arbitrio.

Se la cooperazione del diritto interno è indispensabile per assicurare al


diritto internazionale il suo valore e la sua forza in quanto fenomeno giuridico,
il diritto internazionale può essere anche considerato avendovi riguardo
esclusivamente alla sua esistenza nell’ambito della comunità internazionale, al
livello delle relazioni internazionali (aspetto ‘politico diplomatico’ del diritto
internazionale). Da questo punto di vista esso appare come sostegno di una
sana diplomazia: lo Stato che può dimostrare che un suo comportamento è
conforme alle regole del diritto internazionale ha un argomento molto forte a
favore della sua causa. Nell’esplicazione di tale funzione esso appare come una
sorta di morale positiva internazionale.

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3. Lo Stato come soggetto di diritto internazionale.

Lo Stato comunità è quel fenomeno che corrisponde alla comunità umana


stanziata su di una parte della superficie terrestre e sottoposta a leggi che la
tengono unita. Lo Stato organizzazione è invece quello costituito dall’insieme
degli organi che esercitano il potere di imperio sui singoli associati. La qualifica
di soggetto di diritto internazionale spetta allo Stato organizzazione: è
all’insieme degli organi statali che si ha riguardo allorché si lega la soggettività
internazionale dello Stato al criterio dell’effettività, ossia dell’effettivo esercizio
del potere di governo; sono gli organi statali che partecipano alla formazione
delle norme internazionali, norme tutte dirette a disciplinare e limitare
l’esercizio del potere di governo; sono solo gli organi statali che, con la loro
condotta, possono ingenerare la responsabilità internazionale dello Stato.
Quando si parla di organi statali si fa riferimento a tutti gli organi, comprese le
amministrazioni locali e gli enti pubblici minori.

Lo Stato organizzazione è destinatario delle norme internazionali in quanto e


finché eserciti effettivamente il proprio potere su di una comunità territoriale.
Va pertanto negata la soggettività dei Governi in esilio e delle organizzazioni, o
fonti, o comitati di liberazione nazionale che abbiano sede in un territorio
straniero (ad es. l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con sede a
Tunisi).

Oltre all’effettività, un altro requisito da considerare necessario ai fini della


soggettività internazionale dello Stato è quello dell’indipendenza o sovranità
esterna: occorre cioè che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro
Stato. Non sono infatti da considerare soggetti di diritto internazionale gli Stati
membri di Stati federati. Lo Stato federale, Stato unico legislativamente e
amministrativamente decentrato, non va confuso con la Confederazione,
unione internazionale fra Stati perfettamente indipendenti e sovrani.
Formalmente è indipendente e sovrano lo Stato il cui ordinamento sia
originario, tragga la sua forza giuridica da una propria Costituzione e non
dall’ordinamento giuridico, dalla Costituzione di un altro Stato. Non influisce
sulla soggettività la dimensione dello Stato. Vi è una eccezione: il dato formale
non può invocarsi, e deve cedere di fronte al dato reale, quando in fatto
l’ingerenza da parte di un altro Stato nell’esercizio del potere di governo è
totale, e quindi il Governo indigeno è un Governo ‘fantoccio’.

L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente


il proprio potere su di una comunità territoriale diviene soggetto internazionale
in modo automatico; non è infatti necessario che sia riconosciuta dagli altri

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Stati. Per il diritto internazionale, il riconoscimento è un atto meramente lecito,


e meramente lecito è il non riconoscimento: entrambi non producono
conseguenze giuridiche. Il riconoscimento appartiene alla sfera della politica:
esso rivela null’altro che l’intenzione di stringere rapporti amichevoli, di
scambiare rappresentanze diplomatiche. La maggiore o minore intensità che si
intende imprimere alla collaborazione viene di solito sottolineata
rispettivamente con la formula del riconoscimento de jure, cioè pieno, e quella
del riconoscimento de facto. Il riconoscimento non è dunque costitutivo della
personalità internazionale, ma si può cogliere la tendenza, presente nella prassi
ma mai tradotta in norme giuridiche, da parte degli Stati preesistenti ad una
nuova organizzazione di governo, di giudicare se lo Stato nuovo ‘meriti’ o meno
la soggettività, ancorando il loro giudizio ad un certo valore o ad una certa
ideologia; in epoca attuale si tende a ritenere che non siano da riconoscere
come soggetti i Governi affermatisi con la forza, gli Stati ‘non democratici’, gli
Stati che violano i diritti umani, ecc. È vero che, secondo sicuri principi generali
di diritto internazionale, uno Stato è obbligato a non minacciare la pace ed a
rispettare i diritti umani; ma è anche vero che simili obblighi, in quanto tali, non
condizionano ma anzi presuppongono la personalità giuridica dello Stato
medesimo.

Circa la soggettività del Governo (o Partito) insurrezionale, gli insorti non sono
certo soggetti di diritto internazionale. Ma se essi riescono a costituire, già nel
corso della guerra civile, un’organizzazione di governo che controlla
effettivamente una parte del territorio, allora si è di fronte ad una forma sia
pure embrionale di Stato alla quale la personalità non può negarsi,
indipendentemente dal fatto che tal personalità sia destinata ad estinguersi
qualora, alla fine, l’insurrezione non abbia successo.

La maggior parte della dottrina contemporanea parla di una personalità, sia


pure limitata, degli individui, persone fisiche e giuridiche. Essa trae spunto
soprattutto dal moltiplicarsi di quelle norme convenzionali che obbligano gli
Stati a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo; sempre più spesso, inoltre,
l’individuo può ricorrere, se non vede riconosciuto il proprio diritto, ad organi
internazionali appositamente creati: alla tutela dell’interesse individuale sia
accompagna l’attribuzione all’individuo di un potere di azione. Anche il diritto
consuetudinario fornisce ampia materia per sostenere la personalità
internazionale degli individui: i c.d. crimina juris gentium comprendono i crimini
di guerra e contro la pace e la sicurezza dell’umanità e dunque quei reati per i
quali lo Stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti
normalmente assegnatigli. Parte della dottrina non accoglie questa tesi. In
definitiva, è vero che molte norme internazionali si prestano ad essere

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interpretate come regole che si indirizzano direttamente agli individui, ma è


anche vero che la comunità internazionale resta ancora strutturata come una
comunità di governanti e non di governati. La personalità internazionale
dell’individuo è comunque stata affermata anche dalla Corte Internazionale di
Giustizia (per la prima volta nel 2001).

Numerose sono le norme internazionali che tutelano le minoranze etniche, ma


esse non assurgono a soggetti di diritto internazionale. Nella prassi
internazionale si parla spesso di ‘diritti dei popoli’: il termine ‘popolo’ è usato
solo in modo enfatico e può essere tranquillamente sostituito dal termine
‘Stato’. Il discorso è diverso quando di un diritto dei popoli si parla in relazione
a norme che si occupano del popolo come contrapposto allo Stato, che si
occupano dei governati come contrapposti ai governanti. A parte i diritti umani,
l’unica norma in cui si esprime detta contrapposizione è il principio di
autodeterminazione dei popoli. Esso non solo è contenuto in testi
convenzionali, come tali vincolanti solo gli Stati contraenti, ma ha acquistato
carattere consuetudinario attraverso una prassi sviluppatasi ad opera delle
Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta ONU sia in certe
solenni Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’Organizzazione.
Anche la Corte Internazionale di Giustizia ne ha riconosciuto l’esistenza come
principio consuetudinario. Tale principio si applica soltanto ai popoli sottoposti
ad un Governo straniero (c.d. autodeterminazione esterna), in primo luogo ai
popoli soggetti a dominazione coloniale, in secondo luogo alle popolazioni di
territori conquistati ed occupati con la forza: l’autodeterminazione comporta il
diritto dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipendenti e di
scegliere liberamente il proprio regime politico. Perché il principio sia
applicabile, salvo il caso dei territori coloniali, la dominazione straniera non
deve risalire oltre l’epoca in cui il principio stesso si è affermato come principio
giuridico, ossia oltre l’epoca successiva alla fine della seconda guerra mondiale.

Quando si tratta di territori nei quali il Governo straniero, presente con le


proprie forze armate, si appoggia ad un Governo locale dal quale ha magari
ricevuto una richiesta di ‘aiuto’, il principio di autodeterminazione si applica
imponendo a entrambi i Governi la cessazione dell’occupazione straniera. Circa
l’autodeterminazione dei territori coloniali, si è formata una regola nell’ambito
dell’ONU che attribuisce all’Assemblea generale la competenza a decidere, con
effetti vincolanti per tutti gli Stati, circa la sorte dei territori medesimi:
l’Assemblea deve conformarsi al principio di autodeterminazione, altrimenti la
sua decisione è illegittima e senza efficacia. L’autodeterminazione dei territori
coloniali deve coordinarsi poi con il principio dell’integrità territoriale, in base
al quale occorre tenere conto dei legami storico geografici del territorio da

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decolonizzare con uno Stato contiguo formatosi anch’esso per


decolonizzazione: il principio di autodeterminazione deve cedergli il passo solo
quando la popolazione locale non sia in maggioranza indigena ma importata
dalla madrepatria.

È da escludere invece che il diritto internazionale richieda che tutti i Governi


esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza dei sudditi e siano
costoro liberamente scelti (c.d. autodeterminazione interna). Dunque, il diritto
internazionale impone allo Stato che governa un territorio non suo di
consentire l’autodeterminazione. Lecito è considerato poi l’appoggio fornito ai
movimenti di liberazione nazionale. Non si può parlare di un vero e proprio
diritto soggettivo internazionale dei popoli alla autodeterminazione: come nel
caso delle minoranze, i rapporti di diritto internazionale intercorrono
esclusivamente tra gli Stati; è nei confronti di tutti gli Stati che l’obbligo per il
Governo straniero di consentire l’autodeterminazione sussiste ed è nei rapporti
tra lo Stato che governa il territorio e gli altri Stati che l’appoggio ai movimenti
di liberazione nazionale non può essere considerato illecito.

Non si può più negare piena personalità alle organizzazioni internazionali,


ossia alle associazioni fra Stati dotate di organi per il perseguimento degli
interessi comuni. Gli accordi che le organizzazioni stipulano nei vari campi
connessi alla loro attività vengono considerati come produttivi di diritti ed
obblighi veri e propri delle organizzazioni, restando senza effetti sulla sfera
giuridica degli Stati membri. Sintomatico è l’art. 300 del Trattato della
Comunità europea, secondo cui gli accordi conclusi dall’organizzazione
vincolano anche gli Stati membri; di disposizioni del genere non vi sarebbe
bisogno se, per regola generale, non valesse il contrario. La personalità di tutte
le organizzazioni internazionali è stata nettamente affermata dalla Corte
Internazionale di Giustizia in un parere (1980) sull’interpretazione dell’accordo
(1951) tra Organizzazione Mondiale della Sanità ed Egitto. Non bisogna
confondere la personalità di diritto internazionale delle organizzazioni con la
loro personalità di diritto interno: se un’organizzazione internazionale acquista
immobili o contrae obbligazioni in uno Stato, sarà l’ordinamento di
quest’ultimo a stabilire entro che limiti essa ha la capacità di farlo.
Normalmente gli accordi istitutivi delle organizzazioni prevedono l’obbligo degli
Stati membri di riconoscerne la capacità giuridica nei rispettivi ordinamenti.

Alla Chiesa cattolica, anche nel periodo tra il 1870 e il 1929, periodo in cui
venne meno ogni suo dominio territoriale, la personalità internazionale è stata
sempre per tradizione riconosciuta. Essa si concreta non solo nel potere di
concludere accordi internazionali ma, data l’esistenza dello Stato della Città del

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Vaticano, anche in tutte le situazioni che presuppongono il governo di una


comunità territoriale.

Una parte della dottrina italiana riconosce la qualità di soggetto internazionale


anche al Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, ordine religioso
dipendente dalla Santa Sede. L’Ordine ha governato un tempo su Rodi e, fino
alla fine del Settecento, su Malta; intrattiene rapporti diplomatici con molti
Paesi e ha ottenuto la qualifica di osservatore alle Nazioni Unite. La sua attività
principale ha carattere assistenziale, funzione nobile ma non tale da giustificare
il possesso della personalità internazionale.

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PARTE PRIMA

LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI

4. Il diritto internazionale generale. La consuetudine ed i suoi elementi


costitutivi.

Le norme di diritto internazionale generale, che vincolano cioè tutti gli Stati,
hanno natura consuetudinaria. La consuetudine internazionale è costituita da
un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, dal ripetersi di un
certo comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e
della necessità del comportamento stesso. Due sono gli elementi che
caratterizzano questa fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis. È
vero che, almeno nel momento iniziale di formazione della consuetudine, il
comportamento non è tanto sentito come giuridicamente quanto come
socialmente dovuto. Se non si facesse leva sull’opinio juris, mancherebbe però
la possibilità di distinguere tra mero ‘uso’, determinato ad es. da motivi di
cortesia, di cerimoniale ecc., e consuetudine produttiva di norme giuridiche.
L’esistenza o meno dell’opinio juris è poi il solo criterio utilizzabile per ricavare
una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale: i trattati costituiscono
uno dei punti di riferimento più utilizzati nella costruzione di una regola
consuetudinaria internazionale, ma possono essere interpretati sia come
conferma di norme consuetudinarie già esistenti, sia come creazione di nuove
norme e limitate ai rapporti fra Stati contraenti; e per l’appunto solo
un’indagine sull’opinio juris, solo la ricerca tendente a stabilire se gli Stati
contraenti abbiano inteso il vincolo contrattuale nel primo o nel secondo senso
può consentire, o escludere, l’utilizzazione di tutta una serie di trattati come
prova dell’esistenza di una norma consuetudinaria.

Un principio consuetudinario non può essere tratto da una prassi


convenzionale, sia pure costante e ripetuta nel tempo, quando è chiaro che il
principio medesimo è il frutto delle concessioni che una parte degli Stati
contraenti fanno al solo scopo di ottenere altre concessioni. Il Tribunale Iran
Stati Uniti (istituito nel 1981) si è rifiutato di dedurre un principio di ‘indennizzo
parziale’, applicabile all’espropriazione ed alla nazionalizzazione di beni
stranieri, dalla prassi dei c.d. lump sum agreements, accordi mediante i quali lo
Stato nazionale dei soggetti i cui beni sono stati nazionalizzati o espropriati
all’estero accetta dallo Stato nazionalizzante o espropriante una somma
globale, solitamente inferiore all’intero valore dei beni. Secondo il Tribunale, i

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lump sum agreements sarebbero frutto di transazioni e quindi non indicativi di


norme di diritto internazionale generale.

L’elemento dell’opinio juris serve infine a distinguere il comportamento dello


Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, cioè il
comportamento diretto a modificare o ad abrogare una determinata
consuetudine attraverso la formazione di una consuetudine nuova o
semplicemente di una ‘desuetudine’, dal comportamento che costituisce
invece un mero illecito internazionale.

Circa la diuturnitas, se il trascorrere di un certo tempo per la formazione della


norma è necessario, e se è vero che certe norme consuetudinarie hanno
carattere plurisecolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel
volgere di pochi anni. Il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è
un certo contegno tra i membri della comunità internazionale.

Tutti gli organi statali possono partecipare al procedimento di formazione


della norma consuetudinaria. Possono concorrere non solo gli atti ‘esterni’
degli Stati (trattati, note diplomatiche, comportamenti in seno ad organi
internazionali) ma anche atti ‘interni’ (leggi, sentenze, atti amministrativi). Non
vi è alcun ordine di priorità tra tutti questi atti, ma solo la maggiore importanza
dell’uno o dell’altro a seconda del contenuto della norma consuetudinaria. Le
corti supreme statali hanno un ruolo decisivo nella creazione del diritto
consuetudinario ed è loro compito, di fronte a consuetudini antiche che
contrastino con fondamentali e diffusi valori costituzionali, promuoverne, sia
pure con cautela, la revisione.

La contestazione della norma consuetudinaria da parte di un singolo Stato,


anche ripetutamente (fenomeno del c.d. persistent objector), è irrilevante; a
maggior ragione, non occorre la prova dell’accettazione della norma
consuetudinaria da parte dello Stato nei cui confronti questa è invocata; se tale
prova fosse necessaria la consuetudine dovrebbe configurarsi come accordo
tacito. Ma quando una regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla
più gran parte degli Stati appartenenti ad un gruppo, essa non solo non è
opponibile a quelli che la contestano ma non è neanche da considerarsi
esistente come regola consuetudinaria. Le risoluzioni (raccomandazioni) delle
organizzazioni internazionali non hanno forza vincolante e le norme in esse
contenute possono acquistare tale forza solo se vengono trasformate in
consuetudini internazionali, ossia se sono confermate dalla diuturnitas e
dall’opinio juris, oppure se vengono trasfuse in convenzioni internazionali; si
dice che tali risoluzioni appartengono al ‘diritto morbido’ (soft law).

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Oltre alle norme consuetudinarie generali, si afferma l’esistenza consuetudini


particolari, cioè vincolanti una ristretta cerchia di Stati (ad es. le consuetudini
regionali o locali). È possibile, nel caso di trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali, che le parti contraenti diano vita ad una prassi modificatrice
delle norme a suo tempo pattuite. Ciò non accade allorché si tratti di
organizzazioni internazionali che comprendono un organo giurisdizionale
destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo (la Corte di Giustizia delle
Comunità europee ha stabilito, in una sentenza del 1994, che “una semplice
prassi non può prevalere sulle norme del Trattato”).

Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica:


le norme consuetudinarie possono essere applicate a rapporti della vita sociale
che non esistevano all’epoca della formazione della norma (ad es.
l’applicazione delle norme sulla navigazione marittima ai rapporti attinenti alla
navigazione aerea).

5. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

L’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia annovera fra le


fonti i “principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili”. Detti principi
sono indicati nell’articolo al terzo posto, dopo gli accordi e le consuetudini, e si
tratta quindi di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o
consuetudinarie applicabili ad un caso concreto. Il ricorso ai principi generali di
diritto costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune
del diritto pattizio o consuetudinario. Due requisiti devono sussistere perché
principi statali possano essere applicati a titolo di principi generali di diritto
internazionale. Occorre innanzitutto che essi esistano e siano uniformemente
applicati nella più gran parte degli Stati; in secondo luogo, occorre che siano
sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto
internazionale, che essi cioè perseguano dei valori e impongano dei
comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno
necessari anche sul piano internazionale. Costituiscono una categoria sui
generis di norme consuetudinarie internazionali, rispetto alle quali la
diuturnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli
Stati all’interno dei rispettivi ordinamenti. Circa l’opinio juris sive necessitatis,
essa è presente in quelle regole intese dagli organi dello Stato come aventi un
valore universale. Il ricorso ai principi generali del diritto è particolarmente
attuato nella materia della punizione dei crimini internazionali ad opera di
tribunali internazionali penali. Se il primo requisito per l’esistenza di un

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principio generale di diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia
uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati, ne deriva che la
ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno Stato
di farne applicazione anche quando il principio medesimo non esista
nell’ordinamento statale; ciò sempre che, come di solito avviene,
l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale. Ad es. i
principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali fanno parte, al pari
delle norme consuetudinarie, dell’ordinamento italiano, in virtù dell’art. 101
Cost. (“L’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute”); dato che, in virtù dell’art. 10 Cost., la contrarietà
di una legge ordinaria italiana al diritto internazionale generale comporta
l’illegittimità costituzionale della medesima, tale illegittimità potrà dichiararsi
anche in caso di contrarietà ad un principio generale di diritto riconosciuto
dalle Nazioni civili.

6. Altre presunte norme generali non scritte. L’equità e il ruolo della


giurisprudenza interna e internazionale nella formazione del diritto
internazionale generale. La c.d. frammentazione del diritto internazionale.

Una parte della dottrina (Quadri) pone al di sopra delle norme consuetudinarie
un’altra categoria di norme generali non scritte, i principi ‘costituzionali’
connaturati con la comunità internazionale. Questi sarebbero le norme
primarie del diritto internazionale, “espressione immediata e diretta della
volontà del corpo sociale” e comprenderebbero quelle norme volute e imposte
dalle “forze prevalenti” in un dato momento storico nell’ambito della comunità
internazionale. Tra i principi, alcuni avrebbero carattere formale, in quanto si
limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri carattere
materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente rapporti fra Stati. I principi
formali sarebbero due: consuetudo est servanda e pacta sunt servanda.
L’osservanza delle consuetudini e degli accordi si spiegherebbe quindi in
quanto voluta e imposta dalle forze prevalenti della comunità internazionale.
Così consuetudine ed accordo sarebbero fonti di secondo grado. Ma la dottrina
comune in tema di gerarchia delle fonti internazionali considera la
consuetudine fonte primaria, esaurente il diritto internazionale generale,
mentre si ritiene che l’accordo, fonte secondaria, tragga la sua forza dalla
consuetudine (si ritiene cioè che la norma pacta sunt servanda sia una norma
consuetudinaria). I principi materiali potrebbero avere qualunque contenuto
(Quadri cita quello che ha sancito la libertà dei mari). Ciò che non convince è
che, seguendo tale tesi, un gruppo di Stati o anche un solo Stato potrebbe
imporre, disponendo della forza necessaria, la propria volontà a tutti gli altri

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membri della comunità internazionale. Inoltre, l’interprete interno, dovendo


stabilire quali norme internazionali generali siano da applicare in Italia così
come vuole l’art. 10 Cost. si dovrebbe chiedere di volta in volta se non vi siano
‘imposizioni’, in una determinata materia, da parte delle forze dominanti nella
comunità internazionale.

Si discute se sia fonte di norme internazionali l’equità, definita come il “comune


sentimento del giusto e dell’ingiusto”. A parte la c.d. equità infra o secundum
legem, ossia la possibilità di utilizzare l’equità come ausilio meramente
interpretativo, ed a parte il caso in cui un tribunale arbitrale internazionale è
espressamente autorizzato a giudicare ex aequo et bono, la risposta è negativa.
È da escludere non solo l’equità contra legem, contraria cioè a norme
consuetudinarie o pattizie, ma anche l’equità praeter legem, diretta a colmare
le lacune del diritto internazionale. L’equità va inquadrata nel procedimento di
formazione del diritto consuetudinario: spesso il ricorso all’equità si atteggia
come una sorta di opinio juris sive necessitatis. Quando una sentenza interna
ricorre a considerazioni di equità nel quadro del diritto consuetudinario, essa
influisce direttamente sulla formazione della consuetudine: le decisioni dei
Tribunali interni costituiscono infatti una delle categorie più importanti di
comportamenti statali dai quali la consuetudine va dedotta. L’influenza è
diretta ma relativa, trattandosi di una decisione autorevole ma proveniente da
un singolo Stato. Circa le decisioni dei Tribunali internazionali, l’influenza è
invece indiretta, dato che non si tratta della prassi degli Stati, me assai incisiva.
Quando poi a pronunciarsi è la Corte Internazionale di Giustizia, ossia “l’organo
giudiziario principale delle Nazioni Unite” (art. 92 Carta ONU), l’influenza è
massima, visto che esprime l’opinio juris sive necessitatis della massima
Organizzazione mondiale. Anche questa opinione però deve trovare prima o
poi riscontro nella prassi degli Stati.

Si dice che la moltiplicazione delle istanze giurisdizionali internazionali, con la


possibilità di decisioni discordanti, mini l’unità del diritto internazionale e si
paventa la ‘frammentazione’ di quest’ultimo; cosicché da taluni si auspica un
ruolo centrale per la Corte Internazionale di Giustizia. In realtà, il pericolo non
sussiste: sulle interpretazioni discordanti delle sentenze sarà la prassi degli Stati
ad operare la scelta definitiva. Del tema si è occupata la Commissione di diritto
internazionale delle Nazioni Unite a partire dal 2002, ma finora i lavori non
hanno approdato a nulla.

7. Inesistenza di norme generali scritte. Il valore degli accordi di codificazione.

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Il fenomeno della codificazione del diritto internazionale generale


consuetudinario data alla fine del XIX secolo. Fino alla prima guerra mondiale
furono le norme del c.d. diritto internazionale bellico ad essere trasfuse in testi
scritti (Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre). Tentativi
di codificazione furono fatti anche all’epoca della Società delle Nazioni, ma
senza risultati. È con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione ha preso
slancio.

L’art. 13 della Carta ONU prevede che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite
intraprenda studi e faccia raccomandazioni per “…incoraggiare lo sviluppo
progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione…”. Sulla base di
questa disposizione l’Assemblea costituì (1947) come proprio organo
sussidiario la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite. Questa
è composta da esperti che vi siedono a titolo personale (cioè da individui che
non rappresentano alcun Governo) ed ha il compito di provvedere alla
preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie relative a
determinate materie. Si può dire che l’epoca delle grandi codificazioni si è
conclusa e la Commissione si occupa attualmente di temi assai specifici.

Le principali convenzioni sono: Convenzione di Vienna (1961) sulle relazioni ed


immunità diplomatiche; Convenzione sulle missioni speciali (1969);
Convenzione di Vienna (1963) sulle relazioni consolari; Convenzioni di Ginevra
(1958) sul diritto del mare; Convenzione di Vienna (1969) sul diritto dei trattati;
Convenzione di Vienna (1986) sul diritto dei trattati conclusi da Stati con
organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali; Convenzione di
Vienna (1978) sulla successione degli Stati nei trattati; Convenzione di Vienna
(1983) sulla successione di Stati in materia di beni, archivi e debiti di Stati;
Convenzione di Montego Bay (1982) sul diritto del mare; Convenzione sul diritto
relativo alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali a fini diversi dalla
navigazione (1997); Convenzione sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei
loro beni (2004).

La Commissione non è l’unico organismo in seno al quale si predispongono


progetti di accordi di codificazione: l’Assemblea generale ha spesso convocato
conferenze di Stati in seno alle quali anche il progetto è stato redatto oppure la
redazione del progetto è stata affidata ad organi sussidiari come i Comitati ad
hoc. Rispetto alle convenzioni progettate dalla Commissione la loro
particolarità sta nel fatto che anche il progetto non è frutto del lavoro di
individui indipendenti ma di individui rappresentanti gli Stati.

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Gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi internazionali, vincolano


gli Stati contraenti, cioè valgono solo per gli Stati che li ratificano. Non è il caso
di riporre un’illimitata fiducia nell’opera della Commissione, perché nell’opera
di ricostruzione delle norme internazionali influisce la mentalità dell’interprete
che siede in Commissione; inoltre, l’art. 13 della Carta ONU parla non solo di
codificazione ma anche di sviluppo progressivo del diritto internazionale e
spesso è stata invocata quest’espressione per introdurre nell’accordo norme
che in effetti erano abbastanza incerte sul piano del diritto internazionale
generale. L’accordo costituisce quindi un valido punto di partenza per
l’interprete che deve ricostruire delle norme generali consuetudinarie, ma egli
dovrà tuttavia compiere un’ulteriore verifica restando sempre da dimostrare
che le norme contenute nell’accordo corrispondano alla prassi degli Stati; e
solo se la verifica risultasse positiva egli potrà applicare la norma dell’accordo
di codificazione a titolo di diritto generale. Ammesso pure che l’accordo di
codificazione corrisponda perfettamente al diritto internazionale
consuetudinario al momento della sua redazione, è ben possibile che in epoca
successiva, il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto della
mutata pratica degli Stati. Nessun dubbio sorge circa l’inapplicabilità agli Stati
non contraenti di una norma codificata ma non più corrispondente al diritto
internazionale generale. Per quanto riguarda gli Stati contraenti, la mancanza di
un’autorità nell’ambito della comunità internazionale impedisce che si instauri
quel rapporto tra diritto consuetudinario e diritto scritto che è tipico degli
ordinamenti statali e che consiste nel valore puramente ausiliario del primo nei
settori dove esiste il secondo: consuetudini e accordi sono in linea di principio
fra loro derogabili e nulla vieta dunque che il diritto consuetudinario successivo
abroghi quello pattizio anteriore. L’interprete deve essere estremamente
sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma consuetudinaria abrogatrice
e deve dimostrare che la consuetudine si è formata col concorso degli Stati
contraenti e che questi la intendano applicabile anche nei rapporti inter se.

8. Le dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’ONU.

Fin dai primi anni di vita, l’Assemblea ha seguito la prassi di emanare, in forma
più o meno solenne, delle Dichiarazioni contenenti una serie di regole che
talvolta riguardano rapporti fra Stati ma più spesso riguardano rapporti interni
alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con
gli stranieri. Tra le principali dichiarazioni è da ricordare la Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo (1948). Le Dichiarazioni di principi non
costituiscono un’autonoma fonte di norme internazionali generali. L’Assemblea
generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi mondiali (l’atto tipico che
essa può emanare in base alla Carta è la raccomandazione) e il carattere non

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vincolante delle sue risoluzioni, ivi comprese le Dichiarazioni di principi, è


difeso con forza da una parte non indifferente dei suoi membri, come i Paesi
occidentali. Le Dichiarazioni svolgono un ruolo importante ai fini dello sviluppo
del diritto internazionale. Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le
Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi
degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e
non come atti dell’ONU. Circa il diritto pattizio, certe Dichiarazioni hanno valore
di veri e propri accordi internazionali: sono quelle Dichiarazioni che equiparano
l’inosservanza dei principi espressi alla violazione della Carta. Ma poiché
l’Assemblea non ha poteri interpretativi obbligatori per i singoli Stati, anche tali
Dichiarazioni restano mere raccomandazioni. È vero però che, equiparandosi
l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della Carta, gli Stati che
partecipano col loro voto favorevole all’atto intendono obbligarsi. Le
Dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno propriamente considerate, in
vista del modo in cui vengono in essere, come accordi in forma semplificata.

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9. I trattati. Procedimento di formazione e competenza a stipulare.

La terminologia usata è varia (trattato, convenzione, patto, ecc.; si usa il


termine Carta o Statuto per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali;
scambio di note per l’accordo risultante dallo scambio di note diplomatiche) ma
la natura dell’atto, quella propria degli atti contrattuali, non muta. L’accordo
internazionale può essere definito come l’incontro delle volontà di due o più
Stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti riguardanti questi
ultimi.

Non va accolta la distinzione fra trattati normativi e trattati contratto: i primi,


considerati come gli unici accordi produttivi di vere e proprie norme giuridiche,
sarebbero caratterizzati da volontà di identico contenuto, dirette a regolare la
condotta di un numero rilevante di Stati, mentre nei secondi, fonti di diritti e
obblighi, ossia di rapporti giuridici, non di norme, le parti muoverebbero da
posizioni contrastanti ed attuerebbero uno scambio di prestazioni più o meno
corrispettive. La distinzione non ha senso, non avendo senso la
contrapposizione fra norma e rapporto giuridico: qualsiasi atto obbligatorio
produce per ciò stesso una regola di condotta. Può accettarsi la distinzione fra
norme astratte, regolanti una situazione o un rapporto ‘tipo’ e vincolanti i
destinatari che vengano a trovarsi in quella situazione o rapporto, e norme
concrete, regolanti una situazione o un rapporto singolo e determinato.

I trattati possono dar vita sia a regole materiali, cioè a norme che direttamente
disciplinano i rapporti fra destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti,
sia a regole formali o strumentali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti
per la creazione di ulteriori norme. Tra gli accordi istitutivi di fonti acquistano
oggi grande importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali, i
quali, oltre a disciplinare direttamente certi rapporti fra Stati membri,
demandano agli organi sociali la produzione di norme ulteriori.

I trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che


ne disciplinano il procedimento di formazione nonché i requisiti di validità ed
efficacia. Tale complesso di regole forma il c.d. diritto dei trattati, cui è
dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 (in vigore dal 1980 e ratificata
dall’Italia nel 1974). Vanno menzionate anche la Convenzione di Vienna del
1978 (in vigore dal 1996), sulla successione degli Stati nei trattati, e la
Convenzione di Vienna del 1986 (mai entrata in vigore), sui trattati stipulati fra
Stati e Organizzazioni internazionali o fra Organizzazioni internazionali.

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È opinione universalmente seguita che il diritto internazionale lasci la più ampia


libertà in materia di forma e procedura per la stipulazione: l’accordo può
risultare da ogni genere di manifestazioni di volontà degli Stati, purché di
identico contenuto e purché dirette ad obbligarli. Non ha carattere tassativo
l’elencazione dei modi di stipulazione contenuta nella Convenzione di Vienna
(artt. 7 16), elencazione che tra l’altro è limitata agli accordi “conclusi per
iscritto”. Ancora oggi, comunque, il procedimento normale o solenne, ricalca
quello seguito all’epoca delle monarchie assolute. All’epoca la stipulazione del
trattato era di competenza esclusiva del Capo dello Stato; esso era negoziato
dagli emissari del Sovrano, definiti ‘plenipotenziari’ in quanto titolari di pieni
poteri per la negoziazione, che predisponevano il testo dell’accordo (da
approvare all’unanimità) e lo sottoscrivevano. Seguiva la ‘ratifica’ da parte del
Sovrano ed occorreva, infine, che la volontà del Sovrano fosse portata a
conoscenza delle controparti con lo scambio delle ratifiche. Anche oggi il
procedimento normale di formazione del trattato si apre con i negoziati
condotti dai plenipotenziari, i quali di solito sono organi del Potere esecutivo.
L’art. 7 della Convenzione di Vienna stabilisce che una persona è considerata
come rappresentante dello Stato “…se produce dei pieni poteri appropriati…”; i
pieni poteri sono ‘appropriati’ allorquando promanano dagli organi competenti
in base al diritto e alla prassi propri di ciascun Paese (dal Potere esecutivo in
Italia). I trattati multilaterali di particolare rilievo sono negoziati dai
plenipotenziari nell’ambito di conferenze diplomatiche rette da regole
procedurali preventivamente concordate; la vecchia regola dell’unanimità va
cedendo il passo al principio di maggioranza e, talvolta, le due regole si
combinano allorché sia prevista la votazione a maggioranza solo dopo che sia
stato compiuto ogni sforzo per giungere ad un’adozione concordata. I negoziati
si concludono con la firma (o la parafatura, apposizione delle sole iniziali) da
parte dei plenipotenziari. La firma non comporta ancora alcun vincolo per gli
Stati: essa ha fini di autenticazione del testo che è così predisposto in forma
definitiva e potrà quindi subire modifiche solo in seguito all’apertura di nuovi
negoziati. La manifestazione di volontà con cui lo Stato si impegna è la ratifica.
Circa l’ordinamento italiano, l’art. 878 Cost. dispone che il Presidente della
Repubblica ratifica i trattati internazionale previa, quando occorra,
l’autorizzazione delle Camere; l’art. 80 Cost. specifica che l’autorizzazione delle
Camere è necessaria, e va data con legge, quando si tratti di trattati che hanno
natura politica, o prevedono regolamenti giudiziari, o comportano variazioni
del territorio nazionale od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Le due
norme vanno combinate con l’art. 89 Cost. secondo cui “nessun atto del
Presidente della Repubblica è valido se non controfirmato dai ministri
proponenti che ne assumono la responsabilità”. È opinione comune che la
ratifica rientri tra quegli atti che il Presidente della Repubblica non possa

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rifiutarsi di sottoscrivere una volta intervenuta la ratifica governativa ma di cui


possa soltanto sollecitare il riesame prima della sottoscrizione: il che dimostra
che il potere di ratifica è, quanto al contenuto, nelle mani dell’Esecutivo e, per
le categorie di trattati indicate dall’art. 80 Cost., insieme del Potere esecutivo e
di quello legislativo. Alla ratifica è da equiparare l’adesione (o accessione), che
si ha, nel caso di trattati multilaterali, quando la manifestazione di volontà
diretta a concludere l’accordo promana da uno Stato che non ha preso parte ai
negoziati; la possibilità di partecipare all’accordo a beneficio di Stati che non lo
hanno negoziato deve essere prevista nel testo medesimo (c.d. clausola di
adesione), occorre cioè che il trattato sia aperto. Il procedimento di formazione
si conclude con lo scambio o con il deposito delle ratifiche: nel primo caso
l’accordo si perfeziona istantaneamente, mentre nel secondo, via via che le
ratifiche vengono depositate, l’accordo si forma tra gli Stati depositanti (di
solito, però, si prevede nel testo del trattato che quest’ultimo non entri in
vigore, neppure fra gli Stati depositanti, finché non si raggiunga un certo
numero di ratifiche. Allo scambio e al deposito, l’art. 16 della Convenzione di
Vienna aggiunge la notifica agli Stati contraenti o al depositario.

Secondo l’art. 102 della Carta ONU ogni trattato o accordo internazionale
‘deve’ essere registrato presso il Segretariato delle Nazioni Unite e pubblicato a
cura di quest’ultimo: unica conseguenza dell’omessa registrazione è
l’impossibilità di invocare il trattato innanzi ad un organo delle Nazioni Unite.
La registrazione non è dunque un requisito di validità del trattato.
Normalmente, tutti gli accordi internazionali sono pubblicati nella raccolta
ufficiale dell’ONU, la United Nations Treaty Series.

Le procedure alternative possono distinguersi a seconda che sfocino


comunque nella ratifica oppure si caratterizzino per un differente modo di
manifestazione della volontà da parte degli Stati. Tra le prime sono inquadrabili
le numerose variazioni che nella prassi subiscono le fasi dei negoziati e della
firma (ad es. per molti trattati predisposti da organizzazioni internazionali, alla
negoziazione diretta si sostituisce la discussione e l’approvazione da parte di un
organo dell’organizzazione). La firma viene sempre più spesso, nel caso di
accordi multilaterali, differita nel tempo: il testo del trattato, una volta redatto
di plenipotenziari, è ‘aperto’ alla firma e alla ratifica degli Stati; tale firma non
ha più funzione di autenticazione del testo ma costituisce una generica
dichiarazione di disponibilità. Circa le procedure nelle quali la manifestazione
di volontà dello Stato non consiste nella ratifica, è fondamentale il fenomeno
dei c.d. accordi in forma semplificata (o accordi ‘informali’): tale è l’accordo
concluso per effetto della sola sottoscrizione del testo da parte dei
plenipotenziari, e che si ha quando, dallo stesso testo o dai comportamenti

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concludenti delle parti, risulti che le medesime hanno inteso attribuire alla
firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà. L’art. 12 della
Convenzione di Vienna dice che “Il consenso di uno Stato ad essere vincolato da
un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di questo Stato: a)
quando il trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b) quando è in altro
modo stabilito che gli Stati partecipanti ai negoziati abbiano convenuto di
attribuire tale effetto alla firma; c) quando l’intenzione dello Stato di dare tale
effetto alla firma risulta dai pieni poteri del suo rappresentante o è stato
espresso nel corso della negoziazione”. A tale categoria di accordi sono da
riportare anche gli scambi di note diplomatiche o di altri strumenti simili,
sempre che dagli strumenti medesimi o aliunde si ricavi l’intenzione delle parti
di vincolarsi immediatamente. Per aversi un accordo in forma semplificata è
necessario che dal testo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di
obbligarsi; ciò perchè la prassi internazionale conosce numerosi casi di intese
tra Governi, cui spesso si dà il nome di accordi, ma che non hanno natura di
accordi in senso giuridico. In una zona di confine fra intese non giuridiche e
accordi in forma semplificata si collocano gli accordi sull’applicazione
provvisoria dei trattati, che si hanno quando le parti prevedono che il trattato
si applichi provvisoriamente in attesa della sua entrata in vigore. La
competenza a concludere accordi in forma semplificata, al pari della
competenza a ratificare, è regolata da ciascuno Stato con proprie norme
costituzionali. Circa l’ordinamento italiano, la stipulazione in forma semplificata
è da escludere solo quando l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui
all’art. 80 Cost. (trattati aventi natura politica, che prevedono arbitrati o
regolamenti giudiziari, che importano variazioni del territorio od oneri alle
finanze o modificazioni di leggi); in tutti gli altri casi il Potere esecutivo è libero
di decidere, insieme alle altre parti contraenti, che forma dare all’accordo e che
procedura seguire (tale tesi, nel silenzio della nostra Costituzione, è ricavata da
un’interpretazione sistematica degli artt. 80 e 87 Cost. e sembra essere
confortata dai lavori dell’Assemblea Costituente).

La categoria degli accordi in forma semplificata è riconosciuta dal legislatore: la


L. n. 839/84, nel riordinare la materia della pubblicazione degli atti normativi
della Repubblica italiana nella Gazzetta Ufficiale, prevede, all’art. 1, che tale
pubblicazione avvenga per “…gli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle
relazioni internazionali, ivi compresi quelli in forma semplificata…”. Un limite
alla competenza del Governo a stipulare accordi in forma semplificata è dato
dal divieto, che la prevalente dottrina considera come implicitamente previsto
dalla Costituzione, di concludere accordi segreti. La prassi degli accordi in forma
semplificata trova origine in quegli executive agreements statunitensi, stipulati
dal Presidente ed esenti da ratifica (di competenza del Senato), che hanno per

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oggetto materie tecnico amministrative e materie che rientrano nelle


competenze del Presidente quale Comandante delle forze armate e
responsabile della politica estera.

Un problema molto importante nasce se il Potere esecutivo si impegna


autonomamente e definitivamente sul piano internazionale relativamente a
materie per le quali la Costituzione richiede il concorso del Parlamento (e, sia
pure formalmente, del Capo dello Stato). Il Governo ha spesso utilizzato la
forma semplificata per accordi che rientravano palesemente nelle categorie
dell’art. 80 Cost.: l’esempio più significativo è costituito dalla domanda di
ammissione dell’Italia alle Nazione Unite (la Carta ONU è chiaramente un
trattato di natura politica e la partecipazione dello Stato all’Organizzazione
importa oneri finanziari di rilievo), avvenuta con un atto del Ministro degli
Esteri (emanato nel 1947 e accolto dall’Assemblea generale nel 1955). La
dottrina evita eccessi estremistici e, da un lato, esclude che per il diritto
internazionale i trattati stipulati direttamente dall’Esecutivo siano in ogni caso
validi, che l’Esecutivo abbia cioè, come si riteneva avesse un tempo il Capo
dello Stato, lo jus repraesentationis omnimodae; dall’altro, esclude che
qualsiasi vizio, anche soltanto formale, dal punto di vista interno, possa
inficiare la validità internazionale dell’accordo. Al di là delle varie soluzioni
‘internistiche’ o ‘internazionalistiche’, l’art. 46 della Convenzione di Vienna
stabilisce che “1) Il fatto che il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un
trattato sia stato espresso in violazione di una regola del suo diritto interno
sulla competenza a stipulare trattati non può essere invocato da tale Stato
come vizio del suo consenso, a meno che la violazione non sia manifesta e non
concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale. 2) Una
violazione è manifesta se obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si
comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede”. L’art. 46
corrisponde al diritto internazionale generale quando codifica il principio che la
violazione di norme interne di importanza fondamentale in tema di
competenza a stipulare sia causa di invalidità del trattato; una violazione del
genere si ha quando sia mancato, nelle materie elencate nell’art. 80 Cost., il
concorso del Parlamento. Non corrisponde al diritto consuetudinario nella
parte in cui enuncia il principio della buona fede: l’accordo concluso
dall’Esecutivo senza la relativa competenza costituzionale resta un’intesa priva
di carattere giuridico; acquista tale valore nel momento in cui l’organo messo
da parte manifesti, implicitamente o esplicitamente, il suo assenso, e purché
esso adoperi lo stesso strumento formale (la legge, per quanto riguarda
l’ordinamento italiano, nelle materie elencate dall’art. 80 Cost.) previsto dalla
Costituzione per il suo intervento.

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Figure intermedie fra gli accordi in forma semplificata e gli accordi solenni sono
gli accordi che espressamente subordinano la propria entrata in vigore alla
comunicazione, da parte di ciascun Governo firmatario, che sono state
adempiute le procedure previste dal diritto interno per “rendere applicabile nel
territorio dello Stato” l’accordo medesimo. Quando tali accordi toccano materie
rientranti nell’art. 80 devono ricevere anch’essi l’assenso del Parlamento con
una legge di approvazione oppure con una legge contenente l’ordine di
esecuzione.

Circa la capacità delle Regioni di concludere accordi internazionali, la Corte


costituzionale prese in un primo tempo una posizione drastica in senso
antiregionalista (sent. n. 170/75). La materia venne poi regolata dal D.P.R. n.
616/77, che riservava allo Stato le funzioni relative ai rapporti internazionali
nelle materie trasferite e delegate alle Regioni e faceva divieto alle Regioni di
svolgere “attività promozionali all’estero” senza il preventivo assenso
governativo. Significativa è la sent. n. 179/87 nella quale, capovolgendosi il
primitivo orientamento, si sostiene che le Regioni, procuratesi il previo assenso
del Governo centrale, possano stipulare non solo intese di rilievo
internazionale, ma addirittura “accordi in senso proprio”, tali “da impegnare la
responsabilità dello Stato” e purché si tratti di accordi che riguardino materie di
competenza regionale e non rientranti nelle categorie previste dall’art. 80 Cost.
La materia è ora regolata dalla L. cost. n. 3/2001 che prevede la competenza
della Regione, nelle materie di sua competenza, a “concludere accordi con Stati
e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme
disciplinati da leggi dello Stato”. I casi e le forme sono disciplinati dalla L. n.
131/2003 che prevede il preventivo conferimento di pieni poteri alla Regione
da parte del Governo, configurando la competenza della Regione come
competenza a stipulare per conto dello Stato, e quindi impegnando la
responsabilità dello Stato. Le iniziative regionali dirette a collaborare con
analoghi enti stranieri sono, in realtà, dei programmi, privi in sé di carattere
giuridico, che costituiscono una mera occasione per l’adozione di atti legislativi
o amministrativi da parte delle Regioni interessate.

Diffuso nella prassi contemporanea è il fenomeno degli accordi stipulati dalle


organizzazioni internazionali, sia fra loro, sia con Stati membri oppure con Stati
terzi. A siffatti accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 che
riproduce pedissequamente la Convenzione di Vienna del 1969. occorre far
capo allo statuto di ciascuna organizzazione per stabilire quali sono gli organi
competenti a stipulare e quali le materie per cui siffatta competenza è
attribuita. Si può dire che una violazione grave delle norme statutarie sulla
competenza a stipulare comporti l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme

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contenute nel trattato istitutivo, come tutte le norme pattizie, sono


modificabili per consuetudine, la competenza a stipulare può anche risultare da
regola sviluppatesi nella prassi dell’organizzazione, purché si tratti di prassi
certa e sempre che non vi sia, come avviene per le Comunità europee, un
organo giudiziario destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo, nel
qual caso il fattore determinante ai fini dell’eventuale sviluppo delle
competenze originarie diviene la giurisprudenza. L’art. 2 della Convenzione di
Vienna del 1986 precisa che per “norme dell’organizzazione” devono intendersi
“le norme statutarie, le decisioni e le risoluzioni adottate sulla base delle norme
medesime, e la prassi consolidata dell’organizzazione”. Gran parte degli accordi
stipulati dalle organizzazioni sono i c.d. accordi di collegamento che le
organizzazioni stipulano fra loro per coordinare le rispettive attività. Importanti
sono gli accordi, stipulati con gli Stati membri o con Stati terzi, che fissano il
regime della sede delle organizzazioni o attribuiscono immunità e privilegi ai
loro funzionari.

10. Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. L’incompatibilità tra
norme convenzionali.

Per il trattato internazionale vale ciò che si dice per il contratto di diritto
interno: esso fa legge fra le parti e solo fra le parti. Diritti ed obblighi per terzi
Stati non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche forma
di partecipazione dei terzi Stati al medesimo. Le parti di un trattato possono
sempre impegnarsi a tenere comportamenti che risultano vantaggiosi per i
terzi (ad es. gli accordi in tema di navigazione su fiumi, canali e stretti
internazionali, pur intercorrendo fra un numero limitato di paesi, sanciscono di
solito la libertà di navigazione per le navi di tutti gli Stati), ma tali vantaggi,
finché non si trasformino in diritti attraverso la partecipazione del terzo
all’accordo, possono sempre essere revocati ad libitum dalle parti contraenti. Il
diritto del terzo di esigere l’applicazione del trattato o di opporsi alla sua
abrogazione è sempre stato negato dalla prassi. L’art. 34 della Convenzione di
Vienna del 1969 sancisce, come regola generale, che “un trattato non crea
obblighi o diritti per un terzo Stato senza il suo consenso”; l’art. 35 specifica che
un obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di un terzo
Stato “se le parti contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e se lo
Stato accetta espressamente per iscritto l’obbligo medesimo”; l’art. 36 prevede
che un diritto possa nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo vi
consenta, ma aggiunge che il consenso si presume finché non vi siano
“indicazioni contrarie” e sempre che il trattato non disponga altrimenti; l’art. 37
autorizza i contraenti originari revocare quando vogliono il ‘diritto’ accettato
dal terzo, a meno che non ne abbiano previamente stabilita in qualche modo

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l’irrevocabilità. Dunque, perché nascano veri e propri diritti, occorre che le


parti intendano crearli e che il terzo le accetti, ma anche che l’offerta dei
contraenti originari sia concepita come irrevocabile unilateralmente.

Premesso il principio che un trattato può essere modificato o abrogato,


espressamente o implicitamente, da un trattato concluso in epoca successiva
fra gli stessi contraenti, un problema nasce se i contraenti dell’uno e dell’altro
trattato coincidono solo in parte. La soluzione discende dalla combinazione del
principio della successione dei trattati nel tempo con quello dell’inefficacia dei
trattati per i terzi: fra gli Stati contraenti di entrambi i trattati, il trattato
successivo prevale; nei confronti degli Stati che siano parti di uno solo dei due
trattati, restano invece integri, nonostante l’incompatibilità, tutti gli obblighi
che da ciascuno di essi derivano. Lo Stato contraente di entrambi i trattati si
troverà a dover scegliere se tenere fede agli impegni assunti col primo oppure
quelli assunti col secondo accordo; operata la scelta, esso non potrà non
commettere un illecito, e sarà quindi internazionalmente responsabile,
rispettivamente verso gli Stati contraenti del secondo oppure del primo
accordo. L’art. 30, dopo aver sancito, al par. 3, la regola per cui fra due trattati
conclusi fra le medesime parti “il trattato anteriore si applica solo nella misura
in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore”,
stabilisce, al par. 4, che “Quando le parti del trattato anteriore non sono tutte
parti contraenti del trattato posteriore: a) nelle relazioni tra gli Stati che
partecipano ad entrambi i trattati, la regola applicabile è quella del par. 3; b)
nelle relazioni fra uno Stato partecipante ad entrambi i trattati ed uno Stato
contraente di uno solo dei trattati medesimi, il trattato di cui due Stati sono
parti regola i loro diritti ed obblighi reciproci”. Al par. 5 è affermato che “Il par.
4 si applica senza pregiudizio dell’art. 41”. Quest’ultimo stabilisce che due o più
parti di un trattato multilaterale “non possono” concludere un accordo mirante
a modificarlo, sia pure nei loro rapporti reciproci, quando la modifica è vietata
dal trattato multilaterale oppure pregiudica la posizione delle altre parti
contraenti o è incompatibile con la realizzazione dell’oggetto e dello scopo del
trattato nel suo insieme. L’espressione “non possono” è ambigua e potrebbe
far pensare all’invalidità di tale accordo successivo contrario al primo accordo;
in realtà, l’art. 41 risolve il problema solo in termini di illiceità e di
responsabilità internazionale degli Stati contraenti dell’accordo successivo
verso le altre parti del trattato multilaterale.

Frequenti sono le c.d. dichiarazioni di ‘compatibilità’ o di ‘subordinazione’


contenute in un trattato nei confronti di un altro o di una serie di altri trattati. Il
par. 2 dell’art. 30 dice che “Quando un trattato precisa che esso è subordinato
ad un trattato anteriore o posteriore o che esso non deve essere considerato

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come incompatibile con siffatto trattato, le disposizioni di quest’ultimo


prevalgono”. Ciò non toglie che le parti si impegnino ad intraprendere tutte le
azioni (lecite) idonee a sciogliersi dagli impegni incompatibili: il negoziato
costituisce lo strumento cui si fa più ricorso a fini di armonizzazione di norme
convenzionali incompatibili.

Un esempio importante di clausola di compatibilità è l’art. 307 del Trattato CE:


“Le disposizioni del presente Trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi
derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1.1.1958 o, per gli Stati
aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati
membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra. Nella misura in cui tali
convenzioni sono incompatibili col presente Trattato, lo Stato o gli Stati membri
interessati ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità
constatate. Ove occorra, gli Stati membri si forniranno reciproca assistenza per
raggiungere tale scopo, assumendo eventualmente una comune linea di
condotta…”.

11. Le riserve nei trattati.

La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del
trattato o di accettarle con talune modifiche oppure secondo una determinata
interpretazione (c.d. dichiarazione interpretativa); cosicché tra lo Stato autore
della riserva e gli altri Stati contraenti , l’accordo si forma solo per la parte non
investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente applicabile tra gli
altri Stati. La riserva ha senso nei trattati multilaterali ed ha lo scopo di
facilitare la più larga partecipazione. Secondo il diritto internazionale classico,
la possibilità di apporre riserve deve essere tassativamente concordata nella
fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato
predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, si riteneva che uno Stato non
avesse altra alternativa che quella di ratificare o meno il trattato. Due erano i
modi per apporre riserve: o i singoli Stati dichiaravano al momento della
negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo si faceva
menzione di tale riserva; oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di
apporre riserve al momento della ratifica o dell’adesione, specificando quali
articoli potessero formare oggetto di riserva. La formulazione di riserve non
previste dal testo comportava l’esclusione dello Stato autore della riserva dal
novero dei contraenti ed equivaleva piuttosto alla proposta di un nuovo
accordo. L’istituto si è notevolmente evoluto. Tappa fondamentale è il parere
(1951) della Corte Internazionale di Giustizia reso all’Assemblea generale
dell’ONU: questa chiedeva se, non prevedendo la Convenzione sulla
repressione del genocidio (1948) la facoltà di apporre riserve, gli Stati

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potessero ugualmente procedere all’apposizione di riserve al momento della


ratifica. La Corte affermò che una riserva può essere formulata all’atto di
ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del
trattato purché essa “sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato”,
purché essa, dunque, non riguardi clausole fondamentali. Un altro Stato
contraente può comunque contestare la riserva, sostenendone
l’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo del trattato, nel qual caso, se non si
raggiunge un accordo sul punto, il trattato non può ritenersi esistente nei
rapporti fra lo Stato contestante e lo Stato autore della riserva. L’art. 19 della
Convenzione di Vienna del 1969 codifica il principio che una riserva può sempre
essere formulata purché non sia espressamente esclusa dal testo del trattato e
purché non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato medesimo.
L’art. 20 stabilisce che la riserva non prevista dal testo del trattato possa essere
contestata e che se tale contestazione non è manifestata entro dodici mesi
dalla notifica della riserva alle parti contraenti, la riserva si intende accettata.
Lo Stato contestante deve, inoltre, manifestare espressamente e “nettamente”
l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti fra i due Stati.
Altra innovazione riguarda la possibilità che uno Stato formuli riserva in un
momento successivo rispetto a quello in cui aveva ratificato il trattato purché
nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro un termine che, nella
prassi seguita dal Segretariato dell’ONU quale depositario di trattati
multilaterali, è stato prima fissato in novanta giorni e poi portato a dodici mesi
in seguito alle proteste degli Stati a causa della sua brevità. Ma la tendenza più
innovativa è costituita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
umani: trattasi della tendenza a ritenere che, se lo Stato formula una riserva
inammissibile, tale inammissibilità non comporta l’estraneità dello Stato stesso
rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva; quest’ultima dovrà ritenersi
come non apposta (ogni estensione di tale regola a tipi di trattati che non
tutelino i diritti fondamentali degli individui è comunque prematura).

Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al


trattato concorrono più organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia
decisa da uno di essi ma non dagli altri. Circa il sistema italiano, essa è valida sia
che venga formulata autonomamente dal Parlamento, sia che venga formulata
autonomamente dal Governo. Se uno degli organi non vuole una parte
dell’accordo, la manifestazione di volontà dello Stato si forma solo per la parte
residua. La tesi dell’invalidità dell’intera manifestazione di volontà dello Stato è
poco credibile in presenza di una prassi contraria. Circa la responsabilità
(politica o addirittura penale) del Governo, e dei suoi membri, di fronte al
Parlamento: se il Governo si discosta in tema di riserve da quanto deliberato
dal Parlamento, se la decisione non è presa dopo che il Parlamento sia stato

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informato e se non si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico o minoris
generis, vi è materia perché scattino i meccanismi di controllo del Legislativo
sull’Esecutivo. Circa i riflessi internazionalistici, la riserva aggiunta dal Governo
e dichiarata all’atto di deposito della ratifica è, per il diritto internazionale,
valida. Nel caso, molto teorico, di riserva contenuta nella legge di
autorizzazione ma di cui il Governo non tenga conto, per la parte coperta dalla
riserva sarà configurabile una violazione grave del diritto interno e dovrà
ritenersi che lo Stato non resti impegnato per detta parte se e finché il
Parlamento non revochi espressamente o implicitamente la riserva.

12. L’interpretazione dei trattati.

Oggi vi è la tendenza ad abbandonare il c.d. metodo subbiettivistico, metodo


mutuato dal regime dei contratti nel diritto interno ed in base al quale si
renderebbe sempre necessaria la ricerca della volontà effettiva delle parti
come contrapposta alla volontà dichiarata. Si ritiene invece che, per regola
generale, debba attribuirsi al trattato il senso che è fatto palese dal suo testo,
che risulti dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le varie parti del
testo, che si armonizza con l’oggetto e la funzione dell’atto quali dal testo sono
desumibili. I lavori preparatori hanno una funzione sussidiaria: ad essi può
ricorrersi solo in presenza di un testo ambiguo e lacunoso. A favore del metodo
obbiettivistico si pronuncia la Convenzione di Vienna del 1969; l’art. 31
stabilisce che “un trattato deve essere interpretato in buona fede secondo il
significato ordinario da attribuirsi ai termini del trattato nel loro contenuto e
alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato medesimo”; che il contesto,
oltre al testo, inclusi preambolo e allegati, comprende anche gli altri accordi o
strumenti posti in essere dalle parti in occasione della conclusione del trattato;
e che occorre tener conto di accordi successivi o di prassi seguite dalle parti
nell’applicazione del trattato, nonché di qualsiasi regola pertinente di diritto
internazionale applicabile tra le parti. Unica eccezione di rilievo alla regola
generale è la norma secondo cui “a un termine del trattato può attribuirsi un
significato particolare se è certo che tale era l’intenzione delle parti”. L’art. 32
considera i lavori preparatori come mezzo supplementare di integrazione da
usarsi quando l’esame del testo “lascia il senso ambiguo o oscuro
oppure…porta ad un risultato assurdo o irragionevole”. L’art. 33 si occupa dei
trattati redatti in più lingue tutte egualmente ufficiali: se la comparazione tra i
vari testi rivela una differenza di significato, va comunque adottato “il
significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, concilia
meglio detti testi”. Nell’ordinamento internazionale vigono, in quanto principi
generali del diritto, la regola sull’interpretazione restrittiva o estensiva e la
regola per cui fra più interpretazioni egualmente possibili occorre scegliere

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quella più favorevole alla parte più onerata (principio del favor debitoris) o al
contraente più debole. Circa l’interpretazione estensiva e, in particolare
l’analogia, è da abbandonare l’opinione per cui i trattati vadano interpretati
sempre restrittivamente in quanto comporterebbero una limitazione della
sovranità e della libertà degli Stati.

Il ricorso ai normali mezzi di interpretazione vale anche per i trattati istitutivi di


organizzazioni internazionali, come la Carta ONU e i trattati istitutivi delle
Comunità europee. Tuttavia vi è una comune tendenza a considerare tali
accordi non come trattati quanto come costituzioni. La Corte Internazionale di
Giustizia si è posta per questa strada quando ha fatto uso della c.d. teoria dei
poteri impliciti: ogni organo disporrebbe non solo dei poteri espressamente
attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri necessari per
l’esercizio dei poteri espressi. La Corte, applicando tale teoria agli organi
dell’ONU, ne ha ampliato notevolmente la portata. Nell’ambito della Comunità
europea, l’art. 308 del Trattato CE afferma che “Quando un’azione della
Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del Mercato
Comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia
previsto i poteri di azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando
all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il
Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso”. La teoria dei poteri
impliciti si colloca dunque all’estremo opposto della vecchia tendenza
all’interpretazione restrittiva dei trattati internazionali.

La Convenzione di Vienna non avalla interpretazioni ‘unilateralistiche’ dei


trattati. L’art. 31 non include, tra le “altre norme” utilizzabili per chiarire il
significato di una disposizione pattizia le norme di diritto interno, proprie di
ciascuno Stato contraente. Il giudice interno, quando una convenzione nulla
dispone in materia di interpretazione e di lacune, dovrà evitare comunque di
rifarsi esclusivamente al proprio diritto se non vi è autorizzato dallo stesso
accordo e dovrà sforzarsi di stabilire, alla luce delle regole di diritto
consuetudinario, così come codificate nella Convenzione di Vienna, quale sia il
significato unico ed obiettivo della disposizione convenzionale, deducibile dai
principi generali cui la convenzione si ispira o dai principi comuni agli
ordinamenti degli Stati contraenti. Opportuna sarà pure l’indagine tendente a
stabilire come la convenzione è interpretata dai giudici degli altri Stati
contraenti.

13. La successione degli Stati nei trattati.

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Può darsi che una parte del territorio di uno Stato passi, per effetto di cessione
o di conquista, sotto la sovranità di un altro Stato già esistente, oppure si
costituisca in Stato indipendente; può darsi invece che il cambiamento di
sovranità riguardi l’intero territorio dello Stato, oppure si smembri e dia luogo a
più Stati nuovi, o infine venga a trovarsi, in seguito ad eventi rivoluzionari, sotto
un apparato di governo radicalmente nuovo. Alla ‘successione degli Stati
rispetto ai trattati’ è dedicata la Convenzione di Vienna del 1978 (entrata in
vigore nel 1996), complementare alla Convenzione di Vienna del 1969. Per l’art.
7 la Convenzione si applica “alle successioni fra Stai che siano intervenute dopo
l’entrata in vigore della Convenzione…”; se però uno Stato successore aderisce
alla Convenzione, la sua adesione retroagisce fino al momento in cui la
successione è avvenuta, sempre che, in quel momento, la Convenzione fosse
già in vigore. La ratio della norma sta nel fatto che in molti casi lo Stato che si
sostituisce ad un altro nel governo di un territorio è uno Stato nuovo, e che
pertanto la Convenzione non potrebbe applicarsi in molti casi qualora si
pretendesse che lo Stato successore fosse già parte contraente al momento
della successione. Uno Stato successore può addirittura dichiarare di voler
applicare la Convenzione ad una successione intervenuta prima della stessa
entrata in vigore di quest’ultima, ma una tale dichiarazione varrà solo nei
confronti di quelle parti contraenti che abbiano a loro volta dichiarato di
accettarla.

Pacifico è il principio per cui lo Stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un


altro nel governo di una comunità territoriale, è vincolato dai trattati, o dalle
clausole di un trattato, di natura reale o territoriale o, come si dice,
localizzabili, cioè dai trattati che riguardano l’uso di determinate parti del
territorio, conclusi dal predecessore.

Rientrano in questa categoria i trattati che istituiscono servitù attive o passive


nei confronti di territori di Stati vicini, gli accordi per l’affitto di parti del
territorio, i trattati che prevedono la libertà di navigazione di fiumi e canali, i
trattati che impongono la smilitarizzazione di determinate aree, i trattati che
prevedono la costruzione di opere sui confini. L’obbligo di rispettare le
frontiere stabilite dal predecessore è generalmente sentito nell’ambito della
comunità internazionale. Anche i Paesi sorti dalla decolonizzazione non lo
hanno normalmente negato; la prassi africana si riallaccia alla prassi
dell’America latina nell’ambito della quale si era fatto ricorso al principio
dell’uti possidetis juris: gli Stati latino americani avrebbero ‘ereditato’ dalla
Spagna le frontiere delle circoscrizioni amministrative dell’impero coloniale
spagnolo esistenti al momento dell’indipendenza.

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La successione nei trattati localizzabili incontra il limite degli accordi che


abbiano una prevalente caratterizzazione politica, che siano cioè strettamente
legati al regime vigente prima del cambiamento di sovranità (ad es. non si
verifica successione negli accordi che concedono parti del territorio per
l’installazione di basi militari straniere); più che un limite autonomo, trattasi
dell’applicazione in materia successoria del principio generale rebus sic
stantibus, secondo cui un trattato o determinate clausole di un trattato si
estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al momento
della conclusione.

Circa i trattati non localizzabili, la regola fondamentale è la c.d. regola della


tabula rasa: lo Stato che subentra nel governo di un territorio, in linea di
principio, non è vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore. La
Convenzione distingue la situazione degli Stati sorti dalla decolonizzazione
(“Stati di nuova indipendenza”) dalla situazione di ogni altro Stato che subentri
nel governo di un territorio; mentre per i primi assume come regola
fondamentale in materia di trattati non localizzabili la regola della tabula rasa,
per i secondi assume quella opposta, della continuità dei trattati. Ma un simile
trattamento differenziato non trova riscontro nel diritto consuetudinario: come
viene chiarito nel commento ai corrispondenti articoli della Convenzione,
l’adozione del principio della continuità (e quindi della stabilità) dei trattati con
riguardi ai casi diversi da quello della decolonizzazione, ha il dichiarato scopo di
contribuire allo sviluppo progressivo del diritto internazionale più che
codificare una regola di diritto consuetudinario.

Il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una
parte del territorio di uno Stato. Può darsi che la parte di territorio distaccatasi
si aggiunga, per effetto di cessione o di conquista, al territorio di un altro Stato
preesistente (trasferimento); in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che
subisce il distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio distaccatosi
e si estendono in modo automatico gli accordi vigenti nello Stato che acquista il
territorio: la dottrina parla di mobilità delle frontiere dei trattati. Può darsi
invece che sulla parte distaccatasi si formino uno o più Stati nuovi (secessione);
anche in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di
avere vigore nel territorio che acquista l’indipendenza. La prassi depone a
sfavore della Convenzione di Vienna del 1978 nella parte in cui essa enuncia il
principio della continuità dei trattati nelle ipotesi di secessione da Potenze non
coloniali. Sul problema della secessione non influiscono i c.d. accordi di
devoluzione, con cui lo Stato indipendente consente a subentrare nei trattati
conclusi dalla ex madrepatria: l’accordo, non potendo avere efficacia rispetto
alle altre parti contraenti dei trattati devoluti, pone soltanto l’obbligo per la ex

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colonia di compiere i passi necessari affinché siffatti trattati vengano rinnovati.


L’applicazione del principio della tabula rasa agli Stati nuovi formatisi per
distacco è integrale per quanto riguarda i trattati bilaterali conclusi dal
predecessore: simili trattati potranno sopravvivere solo se rinnovati attraverso
apposito accordo con la controparte (eventualmente anche tacito, ossia
risultante da fatti concludenti). Egualmente deve dirsi circa i trattati
multilaterali chiusi: occorrerà un nuovo accordo con tutte le controparti. Ma
circa i trattati multilaterali aperti all’adesione di Stati diversi da quelli originari,
il principio della tabula rasa subisce un temperamento: lo Stato di nuova
formazione può, anziché aderire (succedendo ex nunc), procedere alla c.d.
notificazione di successione, con cui la sua partecipazione retroagisce al
momento dell’acquisto dell’indipendenza (succedendo ex tunc).

Altra ipotesi è quella dello smembramento. Mentre la secessione non implica


l’estinzione dello Stato che la subisce, la caratteristica dello smembramento sta
nel fatto che uno Stato si estingue e sul suo territorio si formano due o più
nuovi Stati. Il criterio per distinguere le due ipotesi è quello della continuità o
meno dell’organizzazione di governo preesistente: lo smembramento è da
ammettere ogniqualvolta nessuno degli Stati residui abbia la stessa
organizzazione di governo dello Stato preesistente.

Lo smembramento dell’Unione sovietica, avvenuto con gli accordi di Minsk e di


Alma Ata (1991), e quello della Cecoslovacchia sono stati effettuati
concordemente. Quello della Jugoslavia ha invece avuto luogo mediante
dichiarazioni unilaterali ed è stato accompagnato da noti eventi bellici; la tesi
della secessione, sostenuta ufficialmente dalla Serbia Montenegro, è da
escludere, non essendovi continuità né di regime né di costituzione con il
vecchio Stato socialista.

Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al


distacco; agli Stati nuovi formatisi sul territorio dello Stato smembrato è
applicabile (ovviamente s’intendono sempre gli accordi non localizzabili) il
principio della tabula rasa, temperato dalla regola che, per i trattati
multilaterali aperti, prevede la facoltà di procedere ad una notificazione di
successione. Anche la Convezione di Vienna del 1978 unifica le due ipotesi nella
pare relativa agli Stati nuovi che non siano ex territori coloniali, sottoponendole
però entrambe al principio della continuità dei trattati. La prassi recente, che
rivela una tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le obbligazioni pattizie dello
Stato smembrato, tra l’altro dividendosi pro quota i debiti contratti con Stati
esteri e con organizzazioni internazionali, non è idonea a porre nel nulla la
regola della tabula rasa, perché l’accollo risulta di solito da accordi degli Stati

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nuovi tra loro e, allorché si tratti di debiti pecuniari, l’accollo non si ispira a
principi di diritto internazionale, bensì al fine pratico di evitare di interrompere
il flusso dei crediti dall’estero.

Quando uno Stato, estinguendosi, passa a far parte di un altro Stato si ha


l’incorporazione, mentre quando due o più Stati si estinguono e danno vita ad
uno Stato nuovo si ha la fusione. Anche qui il criterio di distinzione fra le due
figure si riferisce all’organizzazione di governo: l’incorporazione va preferita alla
fusione ogniqualvolta vi sia continuità tra l’organizzazione di governo di uno
degli Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta
dall’unificazione. All’incorporazione si applica la regola della mobilità delle
frontiere dei trattati: i trattati dello Stato che si estingue cessano di avere
vigore (salvo che essi siano stati confermati dallo Stato incorporante attraverso
nuovi accordi, espressi o taciti, con le altre Parti contraenti) mentre al territorio
incorporato si estendono i trattati dello Stato incorporante; per i trattati dello
Stato incorporato vale insomma la regola della tabula rasa. Lo stesso principio
regola i casi di fusione: lo Stato sorto dalla fusione nasce libero da impegni
pattizi (a parte, ovviamente, gli accordi localizzabili). Un’eccezione al principio
della tabula rasa deve ammettersi quando le comunità statali incorporate o
fuse, pur estinguendosi come soggetti internazionali, conservino un notevole
grado di autonomia nell’ambito dello Stato incorporante o nuovo,
particolarmente quando, a seguito dell’incorporazione o della fusione, si
instauri un vincolo di tipo federale; in tal caso la prassi si è orientata nel senso
della continuità degli accordi, con efficacia limitata alla regione incorporata o
fusa e sempre che una simile limitazione sia compatibile con l’oggetto e lo
scopo dell’accordo. La Convenzione di Vienna del 1978 adotta il principio della
continuità dei trattati quali che siano le caratteristiche della riunione, senza
distinguere fra incorporazione e fusione, discostandosi ancora una volta dal
diritto consuetudinario.

Quando si verifica un mutamento di governo nell’ambito di una comunità


statale, senza che il territorio dello Stato subisca ampliamenti o diminuzioni, se
il mutamento interviene per vie extralegali ed un regime radicalmente diverso
si instaura, deve ritenersi che muti la persona di diritto internazionale. Si ha
una successione del nuovo Governo nei diritti e negli obblighi del
predecessore, eccezion fatta per i trattati incompatibili col nuovo regime; si
tratta dell’applicazione alla materia successoria del principio rebus sic
stantibus. Della materia la Convenzione di Vienna del 1978 non si occupa.

Si discute se vi sia successione internazionalmente imposta in situazioni


giuridiche di diritto interno, specialmente circa la successione nel debito

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pubblico. Se il debito non è stato contratto dal predecessore nell’ambito del


diritto interno ma abbia formato l’oggetto di un accordo internazionale
concluso con un altro Stato o con un’organizzazione internazionale (ad es. il
Fondo Monetario Internazionale o la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo),
il principio generale è quello della tabula rasa, salvi i debiti localizzabili, ossia i
debiti contratti con esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento di
sovranità oppure contratti da autorità pubbliche locali. Deve però riconoscersi
che anche per i debiti non localizzabili la prassi più recente è nel senso di una
‘equa’ ripartizione concordata fra gli Stati sorti dallo smembramento e tra
questi Stati ed i soggetti creditori. La determinazione dei criteri (dimensioni del
territorio, numero degli abitanti, ecc.) adoperabili nella ripartizione è
considerata materia di accordi. Nel caso delle Repubbliche ex sovietiche un
memorandum di intesa del 1991 prevedeva la responsabilità solidale delle
Repubbliche per i debiti esteri: in effetti questi hanno finito per gravare
unicamente sulla Russia, con la sola eccezione dell’Ucraina. Nel caso della ex
Cecoslovacchia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia si accordavano nel 1992 per
dividersi i debiti in ragione del numero di abitanti di ciascuna, e quindi secondo
un rapporto di due a uno. Nel caso della ex Jugoslavia la maggior parte dei
debiti esteri erano localizzabili. La Convenzione di Vienna del 1983 sulla
successione di Stati ‘in materia di beni, archivi e debiti di Stato’ adotta il
principio della tabula rasa soltanto con riguardo agli Stati di nuova
indipendenza, sorti dalla decolonizzazione, spingendolo a tal punto da
escludere addirittura la successione nei debiti localizzabili, salvo accordo fra
nuovo Stato e predecessore. Con riguardo alla cessione territoriale, al distacco
e allo smembramento, non solo segue il principio della successione nei debiti
localizzabili, ma prevede anche una successione “secondo una proporzione
equa” nei debiti generali del predecessore. Nel caso di incorporazione e di
fusione prevede il passaggio di tutti i debiti dello Stato incorporato o degli Stati
fusi allo Stato incorporante o a quello sorto dalla fusione.

14. Cause di invalidità e di estinzione dei trattati.

Varie cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali sono


analoghe a quelle proprie dei contratti. La loro disciplina è prevista dai principi
generali del diritto. Circa le cause di invalidità vanno menzionati: l’errore
essenziale (che l’art. 48 della Convenzione di Vienna del 1969 definisce come
“un fatto o una situazione che lo Stato supponeva esistente al momento in cui i
trattato è stato concluso e che costituiva una base essenziale del consenso di
questo Stato…”), il dolo (cui può ricondursi la corruzione dell’organo
stipulante), la violenza fisica o morale esercitata sull’organo stipulante. Trattasi

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in tutti i casi di vizi non frequenti. Circa le cause di estinzione vanno ricordate:
la condizione risolutiva, il termine finale, la denuncia o il recesso (l’atto
formale con cui lo Stato dichiara alle parti contraenti la volontà di sciogliersi dal
trattato, sempre che la possibilità di denunciare o recedere sia espressamente
o implicitamente prevista dallo stesso trattato), l’inadempimento della
controparte, la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, l’abrogazione
totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo successivo
tra le stesse parti.

Si considera come causa di invalidità anche la violenza esercitata sullo Stato


nel suo complesso: per l’art. 52 “è nullo qualsiasi trattato la cui conclusione sia
stata ottenuta con la minaccia o l’uso della forza in violazione dei principi della
Carta delle Nazioni Unite”; tale articolo corrisponde al diritto internazionale
consuetudinario come riflesso dell’idea che l’uso della forza debba essere
messo al bando dalla comunità internazionale (nullo fu considerato, ad es., il
Trattato di Berlino del 1938, con cui la Cecoslovacchia accettava di cedere alla
Germania il territorio dei Sudeti). La Corte Internazionale di Giustizia, in due
sentenze (1973) relative alle pescherie islandesi, ha dichiarato che “…secondo il
diritto internazionale contemporaneo un accordo concluso sotto la minaccia o
l’uso della forza è nullo”. Si ha riguardo alla minaccia o all’uso della forza
armata: non vi sono elementi della prassi che autorizzino a ricomprendere
sotto la nozione di violenza pressioni di altro genere, come quelle politiche o
economiche.

Per uso della forza come causa di invalidità dei trattati deve intendersi l’uso
della forza nei rapporti internazionali, ossia la violenza di tipo bellico: solo
questo tipo di violenza è in grado di costituire un male notevole per lo Stato nel
suo complesso. Altro è l’uso della forza interna, ossia l’esercizio del potere di
governo, ivi comprese tutte le possibili misure di carattere coercitivo sugli
individui. Se uno Stato sottopone a misure detentive i cittadini di un altro Stato,
ciò può giustificare l’adozione di misure di autotutela, di analogo contenuto, da
parte dello Stato offeso, ma non si può dire che l’eventuale trattato, concluso
per porre fine all’illecito esercizio del potere di governo, sia viziato da violenza,
ancorché disponga nel senso voluto dallo Stato offensore.

Il problema dei trattati ineguali, ossia dei trattati rispetto ai quali una parte
non abbia disposto di un ampio margine di potere contrattuale, non si risolve
sul piano della validità: l’ineguaglianza può trovare una correzione solo sul
piano interpretativo (se si esamina la giurisprudenza degli Stati vinti relativa ai
trattati di pace, può notarsi la tendenza ad interpretare in modo restrittivo
certe clausole particolarmente favorevoli agli Stati).

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Come causa di estinzione degli accordi internazionali viene considerata la


clausola rebus sic stantibus: il trattato si estingue in tutto o in parte per il
mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione,
purché si tratti di circostanze essenziali, senza le quali i contraenti non si
sarebbero indotti al trattato o ad una sua parte. La dottrina classica riduceva
detta clausola ad una condizione risolutiva tacita, riconducendola alla volontà
dei contraenti. Se le parti, espressamente o implicitamente, manifestano una
volontà in questo senso, è chiaro che ci troviamo davanti ad una condizione
risolutiva. Ma se essi non la manifestano, anche in tal caso, in virtù di una
norma generale costantemente riconosciuta dalla prassi, il trattato si estingue.
L’art. 62 conferma siffatta norma, esprimendola giustamente in termini
restrittivi (si tratta dell’antitesi della norma pacta sunt servanda), stabilendo
che essa possa trovare applicazione solo se le circostanze mutate costituivano
la “base essenziale del consenso delle parti”, se il mutamento sia tale da avere
“radicalmente trasformato la portata degli obblighi ancora da eseguire”, e se il
mutamento medesimo non risulti dal fatto illecito dello Stato che lo invoca.

Si discute se sia causa di estinzione dei trattati la guerra. Ovvio è che, fatti salvi
certi trattati quali sono stipulati proprio in vista della guerra e che
appartengono pertanto al c.d. diritto internazionale bellico, gli accordi conclusi
dagli Stati belligeranti prima della guerra non trovino applicazione finché
durano le ostilità. La regola classica, a favore dell’estinzione, si è andata
affievolendo; la prassi si è orientata sempre più nel senso delle eccezioni: si è
negato l’effetto estintivo della guerra in ordine ai trattati multilaterali; si è
manifestata nella giurisprudenza interna la tendenza a considerare estinte
soltanto quelle convenzioni che, per loro natura, siano incompatibili con lo
stato di guerra. L’argomento della guerra è da riportare dunque sotto la
disciplina della clausole rebus sic stantibus, verificando di volta in volta se la
guerra abbia determinato un mutamento radicale di circostanze.

Certe cause, ad es. il termine finale o l’abrogazione da parte di un accordo


successivo, operano automaticamente. Ma per la maggior parte delle cause, sia
di invalidità che di estinzione, ad es. per vizi di volontà o per la sopravvenuta
impossibilità dell’esecuzione, la discussione è aperta fra chi sostiene
l’automaticità e chi, invece, la necessità della denuncia. La Convenzione di
Vienna del 1969 complica le cose: da un lato introduce modalità e termini per
far valere l’invalidità o l’estinzione ignoti al diritto consuetudinario, dall’altro
non prevede un sistema di soluzione delle controversie realmente capace di
evitare gli abusi. L’automaticità va, in linea di massima, riconosciuta, ma in
modo circoscritto. Chiunque debba applicare un trattato (gli operatori giuridici

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interni) non può non decidere se il trattato sia ancora in vigore o se viceversa
esso sia affetto da una causa di invalidità o di estinzione. Trattasi però di una
decisione che vale solo per il caso concreto, non vincolante per i casi successivi.
La denuncia serve a scopi diversi. L’atto formale di denuncia, notificato alle
Parti contraenti o al depositario del trattato, implica la volontà dello Stato di
sciogliersi una volta per tutte dal vincolo contrattuale. Una simile
manifestazione di volontà, quando non è esercizio di un potere di denuncia
previsto dallo stesso trattato ed esercitabile ad libitum ma si fonda su un’altra
causa di invalidità o di estinzione, non è indispensabile; se lo Stato vi ricorre è
per far risaltare in modo certo e definitivo che, a suo giudizio, il trattato non è
applicabile o non è più applicabile in quanto invalido o estinto. La denuncia
vincola alla disapplicazione interna; unica condizione a tal fine è che essa
promani dagli organi competenti a manifestare la volontà dello Stato in ordine
ai rapporti internazionali. Ma gli altri Stati contraenti non sono, indubbiamente,
vincolati alla unilaterale manifestazione di volontà dello Stato denunciante;
cosicché, in caso di disaccordo sull’effettiva insorgenza della causa di invalidità
o di estinzione, il trattato entrerà in una fase di incertezza sul piano
internazionale, dalla quale potrà uscirsi solo con un nuovo accordo oppure, ove
possibile, con la sentenza di un giudice internazionale. Circa la determinazione
degli organi dello Stato competenti a denunciare il trattato, occorre rifarsi,
come per la competenza a stipulare, ai principi costituzionali di ciascuno Stato.
In Italia, la prassi indica che tale competenza spetta al Potere esecutivo, ma la
situazione si sta evolvendo verso una sempre maggiore collaborazione fra
Governo e Parlamento.

In questo quadro vanno inserite le regole della Convenzione di Vienna del 1969
(artt. 65 68). Lo Stato che invoca un vizio del consenso, o altra causa di
invalidità o di estinzione, deve notificare per iscritto la sua pretesa alle altre
Parti contraenti del trattato in questione. Se, trascorso un termine che non può
essere inferiore a tre mesi salvo il caso di particolare urgenza, non vengono
manifestate obiezioni, lo Stato può definitivamente dichiarare, con un atto
comunicato alle altre Parti, e che deve essere sottoscritto dal Capo dello Stato,
o del Governo o dal Ministro degli Esteri, che il trattato è da ritenersi invalido o
estinto. Se, invece, vengono sollevate obiezioni, lo Stato che intende sciogliersi
e la Parte o le Parti obiettanti devono ricercare una soluzione della controversa
con mezzi pacifici (negoziati, conciliazione, arbitrato, ecc.). La soluzione deve
intervenire entro dodici mesi; trascorso inutilmente tale termine, ciascuna
parte può mettere in moto una complessa procedura conciliativa che fa capo
ad una Commissione delle Nazioni Unite, che non sfocia però in una decisione
obbligatoria ma solo in un rapporto dal valore esortativo (non è detto cosa
succede se la Parte o le Parti controinteressate respingano il rapporto che si

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pronunci a favore dell’invalidità o dell’estinzione: probabilmente la pretesa di


invalidità o di estinzione, per fondatissima che sia, resta paralizzata in
perpetuo). Una decisione obbligatoria della Corte Internazionale di Giustizia, su
ricorso unilaterale, è prevista solo per l’eccezionale caso che la pretesa
invalidità si fondi su una norma di jus cogens. Nei rapporti fra Paesi aderenti
alla Convenzione, la procedura di cui agli artt. 65 ss. si sostituisce al tradizionale
atto di denuncia, ossia un atto posto in essere senza l’osservanza di particolari
forme, termini e modalità.

15. Le fonti previste da accordi. Il fenomeno delle organizzazioni internazionali.


Le Nazioni Unite.

I trattati possono contenere non solo regole materiali ma anche regole formali
o strumentali, regole cioè che istituiscono ulteriori procedimenti o fonti di
produzione di norme. L’esempio più importante è l’organizzazione
internazionale: in tutti i casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata
dal trattato che le dà vita ad emanare decisioni vincolanti per gli Stati membri,
si è in presenza di una fonte prevista da accordo (fonte di terzo grado). Il
numero delle organizzazioni esistenti è impressionante, ma solo alcune di esse,
e solo in alcuni casi, dispongono di un vero e proprio potere decisionale. Il loro
compito è generalmente quello di facilitare la collaborazione fra Stati membri e
la loro attività si svolge il più spesso in una fase dallo scarso valore giuridico
consistendo nella mera predisposizione di progetti di convenzioni. Altra
attività normalmente svolta dalle organizzazioni internazionali è costituita
dall’emanazione di raccomandazioni, atti cha hanno valore esortativo. Le
risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono essere normalmente
prese a maggioranza, magari qualificata; ma poiché gli Stati non amano
sottostare alle altrui deliberazioni, non è rara la ricerca dell’unanimità. Si è poi
andata diffondendo la pratica del consensus, che consiste nell’approvare una
risoluzione senza votazione formale, di solito con una dichiarazione del
presidente dell’organo la quale attesta l’accordo fra i membri: tale pratica non
è del tutto positiva perché finisce col dare alle risoluzioni contenuti vaghi e di
compromesso.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite fu fondata dopo la seconda guerra


mondiale dagli Stati che avevano combattuto contro le Potenze dell’Asse, e
prese il posto della Società delle Nazioni. La Conferenza di San Francisco ne
elaborò nel 1945 la Carta che venne ratificata dagli Stati fondatori.
Successivamente, secondo il procedimento di ammissione previsto dall’art. 4
della Carta, ne sono via via divenuti membri quasi tutti gli Stati del mondo. La

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Svizzera non ne fa parte. L’art. 7 della Carta elenca gli organi principali. Il
Consiglio di Sicurezza è composto da 15 membri, di cui 5 siedono a titolo
permanente (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) godendo del
diritto di veto (cioè del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione di
qualsiasi delibera che non abbia mero carattere procedurale); gli altri 10
membri sono eletti per un biennio dall’Assemblea. Ha una competenza relativa
a questioni attinenti al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale ed è l’organo di maggior rilievo nell’ambito dell’Organizzazione,
per l’evidente importanza delle questioni di sua competenza e perché, in taluni
casi, dispone di poteri decisionali vincolanti. Nell’Assemblea generale, che al
contrario ha una competenza vastissima ratione materiae ma quasi nessun
potere vincolante, sono rappresentati tutti gli Stati e tutti hanno pari diritto di
voto. Il Consiglio economico e sociale è composto da membri eletti
dall’Assemblea per tre anni; sia esso che il Consiglio di Amministrazione
fiduciaria (il quale è adesso senza lavoro, avendo svolto per decenni il controllo
sull’amministrazione di territori di tipo coloniale) sono in posizione subordinata
rispetto all’Assemblea generale, in quanto sono tenuti a seguirne le direttive ed
in certi casi il loro compito si limita addirittura alla preparazione di atti che
vengono poi formalmente adottati dall’Assemblea. Il Segretariato o, meglio, il
Segretario generale che ne è capo, e che è nominato dall’Assemblea su
proposta del Consiglio di Sicurezza, è l’organo esecutivo dell’Organizzazione. La
Corte Internazionale di Giustizia è composta da 15 giudici ed ha sia la funzione
di dirimere le controversie fra Stati sia una funzione consultiva, in quanto può
dare pareri su qualsiasi questione giuridica all’Assemblea generale o al
Consiglio di Sicurezza oppure ad altri organi su autorizzazione dell’Assemblea; i
pareri non sono né obbligatori né vincolanti.

L’art. 7 della Carta prevede che organi sussidiari possano essere istituiti “ove si
rivelino necessari”; esiste tutta una serie di organi permanenti che svolgono
funzioni di rilievo anche se non sono dotati di poteri vincolanti: i più importanti
sono l’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo),
l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), l’UNICEF (Fondo delle
Nazioni Unite per l’infanzia), l’UNHCR (Alto Commissariato per i rifugiati),
l’UNITAR (Istituto delle Nazioni Unite per l’insegnamento e la ricerca), l’UNEP
(Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente).

Consiglio di Sicurezza, Assemblea generale, Consiglio economico e sociale e


Consiglio di Amministrazione fiduciaria sono organi composti da Stati: gli
individui che con il loro voto concorrono a formare la decisione collegiale sono
organi del proprio Stato, manifestano la volontà del proprio Stato. Segretariato
generale e Corte Internazionale di Giustizia sono invece organi composti da

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individui, nel senso che il Segretario ed i giudici assumono l’ufficio a titolo


puramente individuale, con l’obbligo di non ricevere istruzioni da alcun
Governo.

Gli scopi e la competenza ratione materiae dell’Organizzazione sono quanto


mai ampi se non indeterminati. L’art. 2 della Carta indica che le Nazioni Unite
non devono intervenire in questioni “che appartengono essenzialmente alla
competenza interna di uno Stato”. Dall’elencazione dell’art. 1 possono
individuarsi tre grandi settori: il primo è quello del mantenimento della pace, il
secondo è quello dello sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati “fondati
sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione
dei popoli”, il terzo è quello della collaborazione in campo economico, sociale,
culturale ed umanitario. Negli anni immediatamente successivi alla nascita
dell’Organizzazione assunsero rilievo prevalente problemi inquadrabili nel
primo settore; tra il 1950 e il 1960 i risultati maggiori si ebbero in tema di
decolonizzazione e quindi nel quadro di autodeterminazione dei popoli; gli
sforzi furono in seguito concentrati verso la cooperazione economica e sociale;
oggi torna a manifestarsi un certo impegno dell’Organizzazione nel settore del
mantenimento della pace.

In rari casi le decisioni dell’ONU sono vincolanti e sono fonti previste dalla
Carta. Circa l’Assemblea generale, un caso importante è dato dall’art. 17, che le
attribuisce il potere di ripartire fra gli Stati membri le spese
dell’Organizzazione, ripartizione che, approvata a maggioranza di due terzi,
vincola tutti gli Stati (lo Stato membro in arretrato di due annualità di contributi
non ha diritto di voto in Assemblea). A tale caso deve aggiungersi quello della
competenza dell’Assemblea a decidere, con efficacia vincolante per gli Stati
membri, circa modalità e tempi per la concessione dell’indipendenza ai
territori sotto dominio coloniale: siffatta competenza non trova fondamento
nella Carta ma in una norma consuetudinaria formatasi nell’ambito delle
Nazioni Unite. Circa il Consiglio di Sicurezza, le decisioni vincolanti sono quelle
previste dal Cap. VII della Carta (artt. 39 ss.) intitolato ‘Azione rispetto alle
minacce alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione’. Nucleo
centrale sono gli artt. 41 e 42 riguardanti rispettivamente le misure non
implicanti e quelle implicanti l’uso della forza contro uno Stato che abbia anche
solo minacciato la pace. A parte l’art. 42, in base al quale il Consiglio “può
intraprendere” azioni di tipo bellico contro uno Stato e che quindi si presta
poco ad essere inquadrato tra le fonti di norme internazionali, l’art. 41 prevede
le c.d. sanzioni: attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di deliberare quali
misure non implicanti l’uso della forza armata debbano essere adottate dagli
Stati membri contro uno Stato che minacci o abbia violato la pace, ed indica tra

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siffatte misure, a titolo esemplificativo, l’interruzione totale o parziale delle


relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree,
postali, telegrafiche, radio e altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche;
anche un comportamento meramente interno a uno Stato può indurre il
Consiglio a ricorrere a siffatte sanzioni.

16. Gli istituti specializzati delle Nazioni Unite. Altre organizzazioni


internazionali a carattere universale. Le decisioni tecniche di ‘organismi’
internazionali.

Un gran numero di organizzazioni universali assumono il nome di Istituti


specializzati (o Istituzioni specializzate) delle Nazione Unite, in quanto sono
collegate con queste ultime e ne subiscono un certo potere di coordinamento
e di controllo, nonostante siano organizzazioni autonome, sorte da trattati del
tutto distinti dalla Carta ONU ed i cui membri solo in linea di massima
coincidono con i membri dell’ONU. Il collegamento tra ciascun Istituto
specializzato e le Nazioni Unite nasce da un accordo che le due organizzazioni
stipulano e che, dal lato ONU, è negoziato dal Consiglio economico e sociale e
approvato dall’Assemblea generale. Fino ad oggi il contenuto di ogni accordo di
collegamento si è più o meno conformato ad uno schema tipico, fissato nel
1946 in occasione delle convenzioni concluse dall’ONU con ILO, UNESCO e FAO:
tale schema prevede lo scambio di rappresentanti, osservatori, documenti, il
ricorso a consultazioni, il coordinamento dei rispettivi servizi tecnici, ecc. Ma
l’importanza dell’accordo sta soprattutto nella conseguente applicabilità delle
norme della Carta che si occupano degli Istituti e che li sottopongono al potere
di coordinamento e controllo dell’ONU. Anche gli Istituti specializzati, come le
Nazioni Unite, emanano di solito raccomandazioni oppure predispongono
progetti di convenzione e quindi esauriscono la loro attività in una fase di
scarso rilievo giuridico. In alcuni casi essi emanano, però, a maggioranza,
decisioni vincolanti per gli Stati membri o, meglio, decisioni che divengono
vincolanti se gli Stati non manifestano entro un certo periodo di tempo la
volontà di ripudiarle; tali decisioni vanno inquadrate tra le fonti previste da
accordo, cioè dall’accordo istitutivo della relativa organizzazione. Oltre a simili
funzioni di tipo normativo, gli Istituti specializzati svolgono funzioni di tipo
operativo (deliberazione ed esecuzione di programmi di assistenza tecnica, di
aiuti, di prestiti, ecc.); intensi al riguardo sono i collegamenti con gli organi
dell’ONU preposti alla cooperazione per lo sviluppo, collegamenti che
avvengono su base paritaria e non si traducono in rapporti di dipendenza.

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FAO (Food and Agricultural Organization); creata nel 1945, ha sostituito


l’Istituto Internazionale di Agricoltura (esistente dal 1905); suoi organi sono la
Conferenza, composta di un delegato per Stato membro e che si riunisce ogni
due anni, il Consiglio e il Direttore generale; ha funzioni di ricerca,
informazione, promozione ed esecuzione di programmi di aiuti e assistenza nel
campo dell’agricoltura e dell’alimentazione.

ILO (International Labour Organization); è l’Organizzazione Internazionale del


Lavoro, costituita con i Trattati di pace alla fine della prima guerra mondiale;
ogni Stato partecipa alla Conferenza generale con quattro delegati, di cui due
rappresentano il Governo e gli altri due rispettivamente i datori di lavoro e i
lavoratori; altri organi sono il Consiglio di Amministrazione, di cui fanno
permanentemente parte dieci Stati fra i più industrializzati del mondo, e
l’Ufficio internazionale del lavoro con a capo un Direttore generale; ha funzioni
relative all’emanazione di raccomandazioni e alla predisposizione di progetti di
convenzione multilaterale in materia di lavoro; i progetti di convenzione
vengono comunicati agli Stati membri che sono liberi di ratificarli o meno, ma
che hanno l’obbligo di sottoporli entro un certo termine agli organi competenti
per la ratifica.

UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization); si


propone di diffondere la cultura, lo sviluppo dei mezzi di educazione, l’accesso
all’istruzione, di assicurare la conservazione del patrimonio artistico e
scientifico, ecc.; suoi organi sono la Conferenza generale, il Comitato esecutivo
ed il Segretariato; anche i suoi progetti di convenzione devono essere
sottoposti entro un certo periodo di tempo dallo Stato membro agli organi
competenti a ratificare, salva sempre la libertà di procedere o meno a
quest’ultima.

ICAO (International Civil Aviation Organization); il Consiglio può emanare, sotto


forma di allegati alla Convenzione, tutta una serie di disposizioni (denominate
standards internazionali o pratiche raccomandate) relative al traffico aereo: gli
allegati entrano in vigore per tutti gli Stati membri dopo tre mesi dalla loro
adozione se nel frattempo la maggioranza degli Stati membri non abbia
notificato la propria disapprovazione; sono atti che costituiscono una vera e
propria fonte di norme internazionali di carattere tecnico, vincolanti tutti gli
Stati membri, compresi quelli dissenzienti.

WHO (World Health Organization); ha come obiettivo principale il


conseguimento da parte di tutti i popoli del livello più alto possibile di salute;
l’Assemblea può emanare ‘regolamenti’ in tema di procedure per prevenire la

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diffusione di epidemie, di nomenclatura di malattie epidemiche e mortali, di


caratteristiche di prodotti farmaceutici, ecc.; detti regolamenti entrano in
vigore per tutti i Paesi membri eccettuati quei Paesi che, entro un certo
periodo di tempo, comunicano il loro dissenso.

IMO (International Maritime Organization); ha preso vita nel 1958 e si occupa


di problemi relativi alla sicurezza ed efficienza dei traffici marittimi, emanando
raccomandazioni e predisponendo progetti di convenzione.

ITU (International Telecommunication Union), WMO (World Meteorological


Organization), UPU (Universal Postal Union); esistono da circa un secolo e
svolgono un’attività di predisposizione di testi convenzionali e di ‘regolamenti’;
i regolamenti degli ultimi due Istituti non vincolano lo Stato membro
indipendentemente dalla sua volontà, mentre le revisioni periodiche ai
regolamenti amministrativi del primo vincolano tutti gli Stati membri, salvo che
questi non manifestino la loro opposizione al momento dell’adozione o entro
un certo termine dall’adozione.

IMF (International Monetary Fund), IBRD (International Bank For


Reconstruction and Development), IFC (International Finance Corporation), IDA
(International Development Association); il Fondo Monetario Internazionale e la
Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo sono stati creati nel
1944 con gli accordi di Bretton Woods; gli organi principali del Fondo sono il
Consiglio dei Governatori, organo deliberante composto da un Governatore e
da un supplente nominati da ciascuno Stato membro (e che delibera secondo
maggioranze corrispondenti all’entità delle quote di capitale sottoscritte e
quindi con un peso determinate dei Paesi ricchi, degli Stati Uniti in particolare),
il Comitato esecutivo e il Direttore generale; ha funzioni di promozione della
collaborazione monetaria internazionale, della stabilità dei cambi,
dell’equilibrio delle varie bilance dei pagamenti, ecc. e dispone di un capitale
sottoscritto pro quota dagli Stati membri; questi ultimi possono ricorrere alle
riserve del Fondo entro certi limiti rapportati alla quota sottoscritta, secondo
regole precise ed a determinate condizioni stabilite di volta in volta (nel caso
dei c.d. stand by agreements), allorché abbiano necessità di procurarsi valuta
estera al fine di fronteggiare squilibri nella propria bilancia dei pagamenti; le
condizioni di volta in volta fissate costituiscono oggetto di una lettera di intenti
sottoscritta da un rappresentante dello Stato richiedente; la Banca ha un
cospicuo capitale sottoscritto dagli Stati membri e suo scopo principale è la
concessione di mutui agli Stati membri (oppure a privati, ma con garanzia circa
la restituzione prestata da uno Stato membro) per investimenti produttivi e ad

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un tasso di interesse variabile a seconda del grado di sviluppo dello Stato


membro interessato; affiliati alla Banca sono gli altri due Istituti specializzati.

IFAD (International Fund for Agricultural Development); è un ente finanziario


internazionale che contribuisce allo sviluppo dell’agricoltura dei Paesi poveri e
con deficit alimentari notevoli; l’organo deliberante, il Consiglio dei
Governatori, è sotto il controllo dei Paesi in via di sviluppo.

WIPO (World Intellectual Property Organization); dal 1970 si occupa dei


problemi della proprietà intellettuale nel mondo, assicurando la cooperazione
amministrativa tra le Unioni già presenti nel settore, partecipando ad accordi,
fornendo assistenza tecnica legale agli Stati, ecc.

UNIDO (United Nations Industrial Development Organization); già organo


sussidiario dell’Assemblea generale dell’ONU, è stata trasformata in Istituto
specializzato nel 1979; è costituita da un’Assemblea, un Consiglio ed un
Segretariato; i suoi compiti principali non sono di tipo normativo ma operativo
(assistenza tecnica, consulenza in tema di innovazioni tecnologiche, ecc.).

IAEA (International Atomic Energy Agency); promuove lo sviluppo e la


diffusione delle applicazioni pacifiche dell’energia atomica; non ha la qualifica
di Istituto specializzato perché, per la materia che tratta, ha legami sia con
l’Assemblea che col Consiglio di Sicurezza e non, come gli altri Istituti, con
l’Assemblea e il Consiglio economico e sociale.

WTO (World Trade Organization); del tutto indipendente dalle Nazioni Unite,
l’Organizzazione Mondiale del Commercio, creata nel 1994 e di cui fanno parte
135 Stati (fra cui l’Italia), ha come organi principali: la Conferenza ministeriale,
in cui tutti i membri sono rappresentati e che si riunisce ogni due anni; il
Consiglio generale, composto dai rappresentanti di tutti i membri e che si
riunisce nell’intervallo delle riunioni della Conferenza; il Segretariato, con a
capo un Direttore generale; l’Organizzazione fornisce un forum per lo
svolgimento dei negoziati relativi alle relazioni commerciali multilaterali e
tendenti alla massima liberalizzazione del commercio mondiale
(‘globalizzazione’ dei mercati): sono complessi negoziati che prima si
svolgevano in seno all’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (GATT),
fuori da un quadro istituzionale; l’Organizzazione veglia sull’esecuzione di tutta
una serie di accordi annessi allo Statuto come integrazioni di quest’ultimo;
annessi allo Statuto sono lo stesso GATT, il GATS (Accordo generale sugli
scambi dei servizi) e il TRIPs (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di
proprietà intellettuale); la Conferenza e il Consiglio possono adottare, a

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maggioranza dei tre quarti dei membri, decisioni vincolanti con cui fornire
un’interpretazione delle norme dello Statuto o dispensare uno Stato membro
dall’osservanza degli obblighi derivanti dalle norme medesime; altrettanto può
fare un altro organo dell’Organizzazione, deputato alla soluzione delle
controversie, il Dispute Settlement Body.

Nel campo della tutela dell’ambiente e della conservazione delle risorse sono
stati creati vari organismi che prendono decisioni vincolanti di carattere
tecnico. Sono detti ‘organismi’ in quanto i trattati che li prevedono non danno
luogo a vere e proprie organizzazioni distinte dagli Stati membri, non creano un
insieme permanente di organi ma demandano un certo potere normativo alla
assemblea degli Stati contraenti. Le decisioni vincolanti, di solito emanate sotto
forma di annessi o allegati al trattato istitutivo, derivano la loro forza vincolante
dal trattato istitutivo medesimo e sono fonti di norme internazionali di terzo
grado.

17. L’Unione europea e il diritto comunitario.

Con il Trattato di Parigi (1951) venne creata la CECA (Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio), scaduta nel 2002 e non più rinnovata; ad essa
seguirono i Trattati di Roma (1957), con cui vennero create la CEE (Comunità
Economica Europea), oggi denominata CE (Comunità Europea), e l’Euratom o
CEEA (Comunità Europea dell’Energia Atomica). Modifiche di rilievo sono state
apportate da vari trattati successivi: Atto Unico europeo (in vigore dal 1987),
Trattato di Maastricht, o Trattato sull’Unione europea (in vigore dal 1993),
Trattato di Amsterdam (in vigore dal 1999) e Trattato di Nizza (in vigore dal
2003). Il Trattato di Maastricht ha dato vita all’Unione europea, che si fonda
sulle due Comunità ed inoltre su azioni comuni in politica estera e di sicurezza e
su una cooperazione tra gli Stati membri nel settore della giustizia e degli affari
interni (i c.d. tre ‘pilastri’ sui quali poggia l’Unione). Dell’Unione europea fanno
parte 25 Stati, di cui sei (Belgio, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia e
Germania) fin dall’inizio.

Il Trattato di Maastricht ha cambiato il nome della Comunità Economica


Europea in quello di Comunità Europea, per sottolinearne la valenza sociale
oltre che economica; ha istituito una ‘cittadinanza europea’ e le tappe
successive di una unione monetaria caratterizzata da una banca centrale
comune e da una moneta unica. Il Trattato di Amsterdam ha ‘comunitarizzato’
in parte il settore degli affari interni (rilascio dei visti, asilo, immigrazione, ecc.,
aspetti prima oggetto di un mero coordinamento intergovernativo) ed ha
previsto una ‘cooperazione rafforzata’, ossia la possibilità di limitare ad alcuni

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fra gli Stati membri un’integrazione più stretta. Vanno ricordati anche gli
accordi di Schengen (1985) che hanno soppresso i controlli sulle persone alle
frontiere e sono poi confluiti nel Trattato CE. La CECA aveva carattere settoriale
e tale è il carattere dell’Euratom. Con la CE si è invece in presenza di
un’organizzazione che investe tutta la vita economica e sociale degli Stati
membri; il Trattato istitutivo prevede quattro ‘libertà fondamentali’: la libera
circolazione delle merci (unione doganale), la libera circolazione delle persone,
la libera circolazione dei servizi, la libera circolazione dei capitali; gli organi
comunitari intervengono per garantire, all’interno di un unico mercato interno,
la libera concorrenza, una politica agricola comune, una politica comune dei
trasporti e una politica commerciale comune.

Non bisogna confondere i fenomeni di integrazione economica, cha hanno alla


base una unione doganale, con le Zone di libero scambio; queste, a differenza
delle unioni doganali, in cui si ha sia l’abbattimento delle barriere doganali fra
Stati membri sia l’istituzione di tariffe doganali comuni verso i Paesi terzi, sono
caratterizzate dal solo abbattimento delle barriere doganali fra i membri;
esempi di tali zone sono: in Europa, l’EFTA, istituita nel 1960 su iniziativa della
Gran Bretagna e che oggi, dopo gli allargamenti delle Comunità europee
intercorre solo fra Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera; nell’America del
Nord, il NAFTA, in vigore dal 1994 tra Canada, Stati Uniti e Messico.

L’azione degli organi delle Comunità dipende in larga misura dalla volontà
politica degli Stati membri. tale azione deve svolgersi secondo i principi della
proporzionalità e della sussidiarietà previsti dall’art. 5 del Trattato CE, deve
cioè mantenersi entro i limiti necessari per il raggiungimento degli obiettivi del
Trattato e, nelle materie che non sono di esclusiva competenza comunitaria,
intervenire solo se l’azione degli Stati membri non è sufficiente a realizzare
detti obiettivi. Le Comunità presentano elementi che non si riscontrano in
alcuna altra organizzazione internazionale, come gli ampi poteri decisionali
attribuiti ai loro organi, la loro sostituzione agli Stati membri nella disciplina di
molti rapporti puramente interni a questi ultimi, l’esistenza di una Corte di
Giustizia destinata a controllare la conformità ai loro trattati istitutivi dei
comportamenti degli organi e degli Stati membri, ecc. Tra i principi del diritto
comunitario ve ne sono certamente alcuni che sono propri del vincolo federale,
primo fra tutti il principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto
interno. Ciò nonostante le Comunità nel loro complesso restano delle
organizzazioni internazionali, sia pure altamente sofisticate, la sovranità degli
Stati membri non potendo considerarsi degradata, neppure nelle materie di
competenza comunitaria, ad autonomia.

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Circa la struttura dell’Unione europea, va anzitutto menzionato il Consiglio


europeo, nato dalle riunioni dei Capi di Stato e di Governo (c.d. Vertici); nel
vertice di Parigi del 1974 i Capi di Stato e di Governo decisero che si sarebbero
riuniti alcune volte all’anno, accompagnati dai rispettivi Ministri degli Esteri; il
Trattato di Maastricht fa del Consiglio europeo, composto ancora oggi dai Capi
di Stato e di Governo, con l’aggiunta del Presidente della Commissione delle
Comunità, l’organo principale dell’Unione; suo compito generale è quello di
dare all’Unione, e quindi anche alle Comunità, “l’impulso necessario al suo
sviluppo” definendone gli orientamenti politici generali; compiti specifici
riguardano i settori che non sono di competenza comunitaria, ossia i settori
della politica estera e di sicurezza (secondo ‘pilastro’) e, per la parte non
comunitarizzata del terzo ‘pilastro’, quello della cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale. Circa la struttura della CE, vanno menzionate le
‘istituzioni’ principali. La Commissione è un organo composto di individui e non
di Stati; questo è un elemento differenziante la Comunità dalle altre
organizzazioni internazionali, in cui gli organi detentori dei poteri principali
sono di solito composti da Stati: si dice che le Comunità sono enti
sopranazionali oltre che internazionali; ha poteri esecutivi e poteri di iniziativa
legislativa nei confronti del Consiglio e del Parlamento; essa è nominata dal
Consiglio, che delibera a maggioranza, previa approvazione, da parte del
Parlamento europeo, delle candidature proposte dagli Stati membri. Il
Consiglio è l’organo nel quale sono rappresentati i 25 Stati membri ed è
presieduto a turno da ciascun membro per la durata di sei mesi; di solito ne
fanno parte, di volta in volta, i ministri competenti per le questioni all’ordine
del giorno; esso emana gli atti più importanti della legislazione comunitaria. Il
Parlamento europeo, formato, a partire dal 1979, da rappresentanti dei popoli
degli Stati membri, eletti a suffragio universale e diretto, ha principalmente una
funzione di controllo politico sulle altre istituzioni comunitarie, funzione che
esplica attraverso l’esame dei rapporti che gli altri organi sono tenuti a
sottoporgli (ad eccezione della Corte di Giustizia), l’istituzione di commissioni di
inchiesta, l’eventuale mozione di censura nei confronti della Commissione,
l’esame di petizioni individuali; circa la partecipazione alla funzione legislativa,
vanno ricordate le procedure di cooperazione (in cui ad avere l’ultima parola è
pur sempre il Consiglio) e di codecisione (in cui il Parlamento è in grado di
bloccare l’azione del Consiglio e che, con il Trattato di Amsterdam, è diventata
la procedura normale attraverso cui il Parlamento partecipa alla funzione
legislativa comunitaria); inoltre, dispone di un potere di veto in ordine ad una
serie di atti che possono essere adottati solo in seguito al suo ‘parere
conforme’ (gli accordi di associazione e gli accordi di adesione di Stati terzi
all’Unione europea). La Corte dei conti esercita una funzione di controllo su
tutte le entrate e le spese delle Comunità ed è composta da 15 membri

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indipendenti nominati dal Consiglio ed aventi una competenza specifica nel


settore. La Corte di Giustizia delle Comunità Europee veglia sul rispetto dei
Trattati comunitari; ad essa è stato affiancato nel 1988, limitatamente ad un
certo tipo di controversie, il Tribunale di prima istanza; nel 2004 è stato
istituito un Tribunale della funzione pubblica, per le controversie di lavoro con
i funzionari.

L’art. 249 Trattato CE prevede atti vincolanti (regolamenti, decisioni, direttive),


come tali classificabili tra le fonti di norme internazionali, e atti non vincolanti
(raccomandazioni e pareri). Il regolamento è l’atto comunitario più completo:
“…ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”; contiene norme
generali e astratte che devono essere osservate da Stati e persone, fisiche e
giuridiche, che operano nell’area comunitaria. La decisione differisce dal
regolamento perché non ha portata generale e astratta, ma concreta; essa può
indirizzarsi sia ad uno Stato membro che ad un individuo o ad un’impresa
operante nell’area comunitaria; a differenza del regolamento, non acquista
normalmente efficacia con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione
europea, ma in seguito alla notifica ai destinatari; solo le decisioni per cui è
prescritta la procedura di codecisione acquistano efficacia con la pubblicazione.
La direttiva “vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il
risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in
merito alla forma e ai mezzi”; le direttive che si indirizzano a tutti gli Stati
membri entrano in vigore per effetto della pubblicazione, mentre quelle
indirizzate ai singoli Stati sono notificate ai destinatari; la direttiva dovrebbe
contenere principi e criteri generali, mentre spesso è assai dettagliata.

Vi sono altri atti comunitari come i regolamenti interni degli organi, le


comunicazioni della Commissione, i programmi generali del Consiglio. E vi
sono atti propri dell’Unione; per la politica estera vanno menzionati i seguenti
atti del Consiglio: le azioni comuni, che vincolano gli Stati membri ad un
intervento operativo dell’Unione, e le posizioni comuni, che hanno forza
vincolante attenuata in quanto gli Stati provvedono a conformare ad esse la
loro politica nazionale; per terzo pilastro vanno ricordati i seguenti atti del
Consiglio: le decisioni quadro, che si propongono fini di ravvicinamento delle
legislazioni e che vincolano gli Stati membri circa i fini da raggiungere, e le
decisioni, che perseguono scopi coerenti con gli obiettivi della cooperazione di
polizia e giudiziaria in materia penale.

Come tutte le organizzazioni internazionali, le Comunità europee hanno la


capacità di concludere accordi internazionali. Circa la CE, la conclusione di

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accordi è prevista dall’art. 300 che indica gli organi della Comunità competenti
per i trattati (Commissione per i negoziati e Consiglio, previa consultazione, o in
certi casi su ‘parere conforme’ del Parlamento, per la manifestazione di volontà
diretta ad impegnarsi), stabilendo anche che la Corte di Giustizia possa essere
chiamata a dare in via preventiva un parere circa la compatibilità dell’accordo
con le disposizioni del Trattato; aggiunge inoltre che “gli accordi conclusi alle
condizioni suindicate sono vincolanti per le istituzioni delle Comunità e per gli
Stati membri”: viene sancita un’eccezione al principio generale valevole per le
organizzazioni internazionali, secondo cui gli accordi stipulati da
un’organizzazione restano estranei alla sfera giuridica degli Stati membri. Gli
accordi in questione si situano nell’ordinamento comunitario a metà strada fra
il Trattato CE e gli atti delle istituzioni: essi non possono derogare al Trattato,
ma non possono a loro volta essere derogati dalle istituzioni. Anche l’Unione
europea ha competenza a stipulare accordi internazionali nel quadro della
politica estera e di sicurezza comune. L’art. 310 prevede inoltre la conclusione
di convenzioni di associazione: “La Comunità può concludere con uno o più
Stati o organizzazioni internazionali, accordi che istitutiscono un’associazione
caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da
procedure particolari”. L’art. 133 tratta invece degli accordi commerciali,
contenendo una elencazione, esemplificativa e non tassativa, che comprende
gli accordi tariffari, commerciali e quelli che si collegano alle misure di
liberalizzazione, alla politica di esportazione e alle misure di difesa
commerciale. Ad essi vanno aggiunti gli accordi in materia di politica monetaria,
di ricerca e di sviluppo tecnologico, di politica ambientale e di cooperazione allo
sviluppo.

Speciale menzione fra gli accordi di associazione merita l’Accordo di Cotonou


(2000), che ha sostituito l’ultima Convenzione di Lomè (1989) e che regola i
rapporti con i Paesi ACP, ossia i Paesi africani, caraibici e del Pacifico in via di
sviluppo. Le quattro Convenzioni di Lomè, succedutesi dal 1975 in poi, avevano
istituito un regime preferenziale (e quindi non basato sulla reciprocità) per i
prodotti di provenienza dai Paesi ACP. Il nuovo accordo ha stabilito che il
regime preferenziale cesserà dal 31.12.2007 (l’importazione delle banane
secondo tale regime preferenziale è stata dichiarata incompatibile dall’organo
di appello della WTO) e sarà sostituito da singoli accordi commerciali che
prevedano sostegni ai Paesi ACP ma siano al contempo ‘OMC compatibili’.
L’accordo prevede programmi di aiuto e di sviluppo e impegna gli Stati ACP al
rispetto dei diritti umani, aggiungendovi l’obbligo del ‘buon governo’ (good
governance), pena la sospensione degli aiuti.

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La competenza della CE a concludere accordi internazionali nei casi contemplati


dal Trattato, e quando il Trattato non disponga espressamente il contrario
(come avviene ad es. per gli accordi in materia ambientale), ha carattere
esclusivo; la prassi conosce però delle autorizzazioni accordate dal Consiglio ai
singoli Stati membri per la conclusione di accordi con Stati terzi che non
intendano contrarre con la Comunità nel suo complesso. Quando l’accordo, per
il suo contenuto, non rientra interamente nella competenza della Comunità si
possono concludere accordi misti (vi partecipano sia la Comunità che gli Stati
membri). Circa l’ordinamento italiano, un accordo che fosse concluso in una
materia riservata alla CE dovrebbe considerarsi invalido per violazione di una
norma interna di importanza fondamentale: le norme comunitarie prevalgono
sul diritto italiano in virtù dell’art. 11 Cost. Fondamentale è la sent. AETR (1971)
della Corte di Giustizia comunitaria, in cui si introduce l’idea del parallelismo
fra competenze interne e competenze esterne della Comunità: in tutte le
materie in cui la Comunità ha, in base al Trattato istitutivo, competenza ad
emanare atti di legislazione comunitaria essa ha anche implicitamente la
competenza a concludere accordi con Stati terzi; non solo, ma una volta che la
competenza all’interno della Comunità sia esercitata in una determinata
materia, e sempre che non si tratti di disposizioni sulle ‘garanzie minime’, la
competenza esterna diviene esclusiva rispetto a quella degli Stati membri: in
altri termini, gli Stati restano liberi di stipulare accordi internazionali finché la
Comunità non abbia legiferato, ma poi progressivamente la perdono.

18. L’OCSE e il Consiglio d’Europa.

Subito dopo la seconda guerra mondiale furono costituite l’Organizzazione


Europea per la Cooperazione Economica (OECE), poi trasformata nel 1960 in
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ed estesa
via via a vari Paesi occidentali non europei, ed il Consiglio d’Europa, che
attualmente comprende più di 40 Stati membri. L’art. 1 del Trattato istitutivo di
quest’ultimo stabilisce che “Scopo del Consiglio d’Europa è di conseguire una
più stretta unione fra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e
i principi che costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro
progresso economico e sociale”; l’art. 3 aggiunge che “Ogni membro del
Consiglio deve accettare il principio della preminenza del Diritto e quello in virtù
del quale ogni persona, posta sotto la sua giurisdizione, deve godere dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali”; i suoi organi principali sono: il Comitato
dei Ministri, che è l’organo dotatati dei maggiori poteri e che è composto dai
Ministri degli Esteri di tutti gli Stati membri, l’Assemblea consultiva (detta
Assemblea parlamentare), che esprime voto e raccomandazione al Comitato
dei Ministri e nella quale siedono i rappresentanti dei Parlamenti nazionali, e il

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Segretariato, con a capo un Segretario generale; circa le funzioni, che


normalmente non danno luogo ad atti vincolanti, va sottolineata la
predisposizione di convenzioni.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle


libertà fondamentali, della quale sono attualmente parti contraenti tutti gli
Stati membri del Consiglio d’Europa, fu solennemente firmata a Roma nel 1950;
successivamente sono Stati aggiunti diversi Protocolli, tra cui il Protocollo n. 11
(in vigore dal 1998) che ha provveduto alla fusione dei due organi che prima
esercitavano il controllo sul rispetto dei diritti tutelati, la Commissione e la
Corte europea dei diritti dell’uomo, in una Corte unica.

19. Le raccomandazioni degli organi internazionali.

La raccomandazione è l’atto tipico che le organizzazioni internazionali hanno il


potere di emanare. Essa non vincola lo Stato o gli Stati a cui si dirige, a tenere il
contegno raccomandato e non è dunque da annoverarsi fra le fonti previste da
accordi. Ma la raccomandazione produce l’effetto di liceità: non commette
illecito lo Stato che, per eseguire una raccomandazione di un organo
internazionale, tenga un contegno contrario ad impegni precedentemente
assunti mediante accordo oppure ad obblighi derivanti dal diritto
internazionale consuetudinario. Tale effetto è da ammettere solo nei rapporti
fra gli Stati membri e solo in ordine alle raccomandazioni legittime: entro questi
limiti, l’effetto di liceità può essere dedotto dall’obbligo di cooperare con
l’organizzazione, implicito in ogni trattato istitutivo, e dal potere di ogni
organizzazione internazionale di perseguire, anche mediante atti non
vincolanti, fini generali. Nelle organizzazioni internazionali esistenti manca un
organo che giudichi della legittimità delle raccomandazioni (anche nelle
Comunità europee la Corte controlla solo gli atti vincolanti); ne consegue che
l’effetto di liceità potrà verificarsi solo fra quegli Stati membri che abbiano
votato a favore della raccomandazione, o che comunque l’abbiano approvata
senza alcuna riserva. Il principio di cooperazione tra Stati membri non può però
essere spinto al punto di ritenere illecita l’inosservanza reiterata delle
raccomandazioni da parte di uno Stato, poiché la caratteristica fondamentale
dell’atto rimane pur sempre la non vincolatività.

20. La gerarchia delle fonti internazionali. Il diritto internazionale cogente.

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Ricapitolando, al vertice della gerarchia si trovano le norme consuetudinarie,


ivi compresi i principi generali del diritto comuni agli ordinamenti interni; la
consuetudine è dunque fonte di primo grado, unica fonte di norme generali
vincolanti tutti gli Stati. Il secondo posto nella gerarchia spetta al trattato, che
trova in una norma consuetudinaria, la norma pacta sunt servanda, il
fondamento della sua obbligatorietà. Il terzo posto è occupato dalle fonti
previste da accordi e quindi dagli atti delle organizzazioni internazionali. Il fatto
che le norme pattizie siano sottordinate alle norme consuetudinarie non
significa di per sé l’inderogabilità di queste ultime da parte delle prime: una
norma di grado inferiore può derogare alla norma di grado superiore se
quest’ultima lo consente. Secondo l’opinione comune, le norme
consuetudinarie sono caratterizzate dalla flessibilità e quindi dalla loro
derogabilità mediante accordo. Tale regola vale anche per quella particolare
categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali del diritto
comuni agli ordinamenti interni; un esempio chiaro è dato dall’art. 27 Carta
ONU, norma che protegge le grandi Potenze le quali, disponendo di un diritto di
veto, possono bloccare una procedura di espulsione o di adozione di misure
coercitive nei loro confronti; la deroga al principio generale nemo judex in re
sua è evidente. È però opinione comune che esista un gruppo di norme di
diritto internazionale generale le quali eccezionalmente sarebbero cogenti (jus
cogens); l’art. 53 della Convenzione di Vienna del 1969 stabilisce che “è nullo
qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in contrasto con una
norma imperativa del diritto internazionale generale”, dovendosi intendere per
norma imperativa del diritto internazionale generale “una norma accettata e
riconosciuta dalla comunità degli Stati nel suo insieme come norma alla quale
non può essere apportata nessun deroga e che non può essere modificata che
da una nuova norma di diritto internazionale generale avente il medesimo
carattere”; l’art. 64 afferma che “se una nuova norma imperativa di diritto
internazionale generale si forma, qualsiasi trattato esistente che sia in
contrasto con questa norma diviene nullo e si estingue”. Nel silenzio della
Convenzione, tale gruppo di norme va individuato facendosi leva sull’art. 103
Carta ONU, secondo il quale “in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai
membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti
in base a qualsiasi accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal
presente Statuto”: il ‘rispetto dei principi della Carta’ è considerato ormai
come una delle regole fondamentali della vita di relazione internazionale e
appare non più come una semplice disposizione pattizia, ma come una norma
consuetudinaria cogente cui l’art. 103 ha dato la spinta iniziale e che si è venuta
poi consolidando nel corso degli anni. Anche la stragrande maggioranza dei
trattati istitutivi di enti internazionali ne fa normalmente menzione:
sintomatico è il preambolo del Trattato CE, ove si pone in rilievo il proposito di

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“sviluppare la prosperità degli Stati membri conformemente ai principi dello


Statuto delle Nazioni Unite”. È da notare che dall’art. 103 discende l’inefficacia,
non l’invalidità, dell’accordo incompatibile. Le norme della Carta ONU dalle
quali discendono veri e propri obblighi per gli Stati e che quindi possono farsi
rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 103 (rectius, della regola
consuetudinaria ad esso corrispondente), sono alcuni principi generali che si
trovano alla base dei grandi settori di competenza delle Nazioni Unite. Circa il
settore del mantenimento della pace, il principio che impone agli Stati di
astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza nei rapporti internazionali, salva
l’autotutela individuale e collettiva, peraltro limitata al solo caso di risposta ad
un attacco armato. Circa il settore economico e sociale, il principio che impegna
gli Stati a collaborare, dal quale può ricavarsi il divieto di comportamenti che
possano compromettere irrimediabilmente l’economia di altri Paesi. Circa il
settore umanitario, il principio del rispetto della dignità umana. Circa il settore
della decolonizzazione, il principio di autodeterminazione dei popoli.

È da precisare che anche le norme che regolano le cause di invalidità e di


estinzione dei trattati (norme sui vizi della volontà, sulla clausola rebus sic
stantibus, ecc.) sono norme inderogabili: qualsiasi clausola contrattuale che
stabilisca una deroga a queste norme resterebbe a sua volta pur sempre ad
esse soggetta. La regola fondamentale secondo cui le norme convenzionali
possono derogare al diritto consuetudinario, eccezion fatta ovviamente per lo
jus cogens, è da estendersi alle fonti previste da accordi; nei casi di dubbio,
deve ritenersi però che sia lo stesso Statuto dell’Organizzazione ad imporre agli
organi l’osservanza del diritto internazionale generale.

PARTE SECONDA

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IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI

21. Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della
forza internazionale ed interna agli Stati.

Il contenuto del diritto internazionale è costituito da un insieme di limiti all’uso


della forza da parte degli Stati, limiti che riguardano l’uso della forza diretta
verso l’esterno (c.d. forza ‘internazionale’) o l’uso della forza diretta verso
l’interno, nei confronti degli individui, persone fisiche o giuridiche, e dei loro
beni (c.d. forza ‘interna’). Per forza internazionale s’intende la violenza di tipo
bellico, ossia qualsiasi atto che implichi operazioni militari. Per forza interna
s’intende il potere di governo esplicato dallo Stato sugli individui e sui loro
beni; sebbene sia il potere coercitivo materiale quello che viene normalmente
in rilievo, non sempre una violazione del diritto internazionale deriva dalla
coercizione: anche la sentenza dichiarativa di un giudice (ad es. un sentenza
che sottoponga uno Stato straniero alla giurisdizione del foro) o una legge che
contenga un provvedimento concreto (ad es. una legge che nazionalizzi i beni di
una compagnia straniera) possono costituire un comportamento illecito.
Finché, comunque, all’attività normativa astratta, non segua la sua applicazione
ad un caso concreto, non può propriamente parlarsi di violazione del diritto
internazionale; normalmente, lo Stato che non provvede ad adottare le misure
legislative e amministrative necessarie per eseguire i propri obblighi
internazionali non incorre in responsabilità internazionale finché non si
verifichino fatti concreti contrari a detti obblighi. Il potere di governo che
interessa il diritto internazionale si situa dunque a metà strada tra l’astratta
attività normativa e l’esercizio della coercizione materiale. L’attività di mero
comando, anche se indirizzata a persone determinate e vertente su questioni
concrete, non ha di per sé rilievo per il diritto internazionale se non è
accompagnata dall’attuale e concreta possibilità di agire coercitivamente per
farla rispettare: tale possibilità è sempre legata alla presenza, nei luoghi ove la
coercizione dello Stato si esercita, delle persone o dei beni coinvolti dal
comando concreto. Il potere di governo così come limitato dal diritto
internazionale è costituito dunque da qualsiasi misura concreta di organi
statali, sia avente essa natura coercitiva, sia in quanto suscettibile di essere
coercitivamente attuata.

Si tratti di forza internazionale o di forza interna, ciò che è limitato dal diritto
internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o cose. Si
dice che certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con
modalità che non possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di

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governo dello Stato: lo si è detto per le comunicazioni via radio, poi per le
attività spaziali e lo si dice oggi per le comunicazioni via internet. In realtà, lo
Stato può governare, magari soltanto nei luoghi di partenza o di arrivo, le
attività umane (si pensi alle regole che uno Stato emana per disciplinare il
commercio elettronico).

22. La sovranità territoriale.

La prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di delimitazione del


potere di governo dello Stato è quella sulla sovranità territoriale. Essa si
affermò all’epoca in cui venne meno il Sacro Romano Impero ed in cui
conseguentemente cessò ogni forma di dipendenza anche formale delle singole
entità statali dall’Imperatore e dal Papa. La sovranità territoriale venne allora
concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del
sovrano, avente per oggetto il territorio; anche il potere esercitato sugli
individui veniva ricollegato alla disponibilità del territorio (gli individui erano
considerati ‘pertinenze’ del territorio). La sovranità territoriale è oggi
indirettamente tutelata anche dal principio che vieta la minaccia o l’uso della
forza nei rapporti internazionali. Circa il contenuto, la norma attribuisce ad ogni
Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua
comunità territoriale, cioè sugli individui (e sui loro beni) che si trovano
nell’ambito del territorio. Correlativamente ogni Stato ha l’obbligo di non
esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo. La violazione della
sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non autorizzata
dell’organo straniero nel territorio.

Non sono infrequenti i casi di azioni (illecite) di polizia consistenti


nell’inseguimento di criminali oltre frontiera, ma tale illiceità si esaurisce nei
rapporti fra Stati, non comportando, dal punto di vista del diritto
internazionale, l’assenza della potestà di punire, potestà sempre esercitabile
anche sugli stranieri, sempre che vi sia un collegamento del reato con lo Stato
che punisce. La presenza e l’esercizio di pubbliche funzioni da parte di organi
stranieri è autorizzata da una serie di ipotesi tipiche, prime fra tutte quelle
relative all’attività di agenti diplomatici e di consoli stranieri. Una forma
particolarmente intensa di attività giurisdizionale svolta all’estero era quella
esercitata nel quadro del c.d. regime delle capitolazioni, regime in base al
quale alcuni Stati che venivano ritenuti poco affidabili sotto l’aspetto
dell’amministrazione della giustizia (Impero Ottomano, Cina) consentivano agli
europei di essere giudicati dai consoli dei loro Paesi; tale regime venne a
cessare definitivamente dopo la seconda guerra mondiale.

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In linea di principio, il potere di governo dello Stato territoriale non solo è


esclusivo rispetto a quello degli altri Stati, ma è anche libero nelle forme e nei
modi del suo esercizio e nei suoi contenuti; in effetti, la libertà dello Stato,
nata come libertà assoluta, è andata restringendosi via via che il diritto
internazionale si è evoluto. Le eccezioni che per prime si sono affermate, sia sul
piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio, sono
costituite dalle norme che impongono un certo trattamento degli stranieri,
persone fisiche o giuridiche, degli organi stranieri, soprattutto degli agenti
diplomatici, e degli stessi Stati stranieri.

Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale, vale il criterio


dell’effettività: l’esercizio effettivo del potere di governo fa sorgere il diritto
all’esercizio esclusivo del potere di governo medesimo (applicazione del
principio ex facto oritur jus). Nonostante i tentativi fatti, sin dall’epoca tra le
due guerre mondiali, per limitare la portata del principio di effettività e
disconoscere l’espansione territoriale che sia frutto di violenza o di gravi
violazioni di norme internazionali (famosa è la c.d. dottrina Stimson, formulata
in questi termini nel 1932 dal Segretario di Stato americano), la prassi sembra
ancor oggi sostanzialmente orientata nel senso che l’effettivo e consolidato
esercizio del potere di governo su di un territorio comunque conquistato
comporti l’acquisto della sovranità territoriale. Se ad un atto di aggressione non
si reagisce subito nell’esercizio della autotutela individuale e collettiva, la
situazione si consolida. Tutto ciò che può sostenersi è che, oltre all’obbligo di
restituzione, gravante sullo Stato che abbia commesso l’aggressione o detenga
il territorio in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli, su tutti
gli altri Stati grava l’obbligo di negare effetti extraterritoriali agli atti di
governo emanati in quel territorio e sempre che l’acquisto sia contestato dalla
più gran parte dei membri della comunità internazionale: gli Stati saranno
tenuti, ad es., a negare riconoscimento alle sentenze pronunciate in quel
territorio, a non applicare, in virtù delle proprie norme di diritto internazionale
privato, le leggi emanate nel territorio medesimo, insomma ad ‘isolare’
giuridicamente quest’ultimo. Occorre peraltro riconoscere che, nel caso della
sovranità su zone di confine o isole il cui possesso sia oggetto di controversia
tra gli Stati confinanti, la Corte Internazionale di Giustizia ha più volte sostenuto
che l’effettività deve cedere il passo ad un titolo giuridico certo, come un
precedente accordo fra gli Stati interessati o tra gli Stati che li hanno preceduti,
e salvo che una delle parti non abbia prestato acquiescenza alle pretese
dell’altra basate sull’effettività.

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23. I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del c.d. dominio riservato e il
rispetto dei diritti umani.

Si è andato progressivamente erodendo il c.d. dominio riservato o competenza


interna (domestic jurisdiction) dello Stato, espressione con cui s’intende
indicare le materie delle quali il diritto internazionale sia consuetudinario che
pattizio si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente libero
da obblighi. Tradizionalmente vi rientravano i rapporti fra lo Stato ed i propri
sudditi, l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica economica e
sociale dello Stato, ecc. La nozione di domestic jurisdiction può essere ancora
utilizzata con riguardo al diritto consuetudinario, mentre ha perso il suo
significato, dato il gran numero di convenzioni che legano lo Stato, per quanto
concerne il diritto convenzionale. La stessa libertà dello Stato di imporre o
concedere la propria cittadinanza ad un individuo, libertà tradizionalmente
rientrante nel dominio riservato, non è più senza limiti: non può essere
considerata internazionalmente legittima l’attribuzione della cittadinanza in
mancanza di un legame effettivo tra l’individuo e lo Stato.

Le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana,


oltre che a consistere in atti politicamente importanti ma giuridicamente privi
di valore (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, ecc.), si sono concretizzate in diverse
convenzioni (ad es., i due Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e sui
diritti economici, sociali e culturali) che, oltre ad istituire degli organi destinati a
vegliare sulla loro osservanza, contengono un catalogo di diritti umani. La
materia dei diritti umani è anche una materia nella quale si sono venute
formando delle norme consuetudinarie, precisamente dei principi generali di
diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. A differenza delle convenzioni, che
contengono cataloghi assai dettagliati, il diritto consuetudinario si limita alla
protezione di un nucleo fondamentale e irrinunciabile di diritti umani: trattasi
del divieto delle c.d. gross violations, ossia violazioni gravi e generalizzate di
tali diritti (apartheid, genocidio, tortura, trattamenti disumani e degradanti,
espulsioni collettive, pulizia etnica, ecc.). Sulla contrarietà di siffatte pratiche
allo jus cogens internazionale, si è anche pronunciata, sia pure
incidentalmente, la Corte Internazionale di Giustizia nella sent. Barcelona
Traction, Light and Power Co., Ltd. (1970). L’obbligo degli Stati di rispettare i
diritti umani è fondamentalmente un obbligo di astensione, ma costituisce
anche l’oggetto di un obbligo positivo: lo Stato deve vegliare affinché violazioni
dei diritti umani non siano commesse da individui che comunque si trovino nel
suo territorio. Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo
esaurimento dei ricorsi interni: la violazione delle norme consuetudinarie sui

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diritti umani non può dirsi consumata, o comunque non può farsi valere sul
piano internazionale, finché esistono nell’ordinamento dello Stato offensore
rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire
all’individuo offeso una congrua riparazione.

24. (Segue). La punizione dei crimini internazionali.

Caratteristica delle norme, generali e convenzionali, che disciplinano siffatti


crimini è che esse danno luogo ad una responsabilità propria delle persone
fisiche che li commettono; trattasi di norme che possono essere considerate
come regole che direttamente si indirizzano agli individui, concorrendo alla
formazione della soggettività internazionale di questi ultimi. La comunità
internazionale sta tentando oggi di attuare la punizione dei crimini
internazionali individuali attraverso l’istituzione di tribunali internazionali,
tentativi che si svolgono con molte difficoltà ed in misura limitata; la punizione
è quindi in gran parte affidata ai tribunali interni, nell’esercizio della sovranità
territoriale. La categoria dei crimini internazionali individuali è abbastanza
recente, datando alla fine della seconda guerra mondiale. Qualche precedente
esisteva anche prima: crimen juris gentium era considerata la pirateria, nel
senso che qualsiasi Stato potesse catturare la nave pirata e punire i membri
dell’equipaggio. Un altro precedente è costituito dai crimini di guerra, ma
l’elenco di detti crimini era assai poco esteso, la punizione dei criminali era
limitata agli Stati belligeranti e si riteneva che dovesse cessare con la
cessazione delle ostilità (c.d. clausola di amnistia). I crimini internazionali
individuali possono essere distinti, secondo una ripartizione che risale
all’Accordo di Londra (1945), il quale istituì il Tribunale di Norimberga per la
punizione dei criminali nazisti, in crimini contro la pace, crimini contro
l’umanità e crimini di guerra. Un elenco dettagliato è oggi contenuto negli artt.
5 8 dello Statuto della Corte penale internazionale. Lo Statuto prevede
quattro tipi di crimini: il genocidio (che può essere comunque ricondotto ai
crimini contro l’umanità), i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il
crimine di aggressione (che può essere considerato il principale, se non
l’esclusivo, crimine contro la pace). Il genocidio è la distruzione totale o
parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Ai crimini contro
l’umanità vengono riportati i seguenti atti, purché perpetrati come parte di un
sistematico attacco contro una popolazione civile: omicidio, sterminio,
riduzione in schiavitù, deportazione o trasferimento forzato di popolazioni,
privazione di libertà “in violazione di norme fondamentali di diritto
internazionale”, tortura, violenza carnale, prostituzione forzata e altre forme di
violenza sessuale di eguale gravità, persecuzioni per motivi politici, razziali,

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religiosi, di sesso, ecc., sparizione forzata di persone, apartheid, atti disumani


capaci causare sofferenza gravi di carattere fisico o psichico. Tra i crimini di
guerra, oltre ai crimini già inclusi tra quelli contro l’umanità, lo Statuto include
una serie di atti specifici del tempo di guerra (ma perseguibili anche, e
soprattutto, una volta cessata la guerra), come la violazione delle Convenzioni
di Ginevra (1949) sul diritto umanitario di guerra, la presa di ostaggi, gli attacchi
intenzionalmente diretti contro popolazioni ed obiettivi civili; anche questi atti,
per poter essere considerati crimini internazionali individuali, devono far parte
di un programma politico o aver luogo su larga scala. Circa i crimini contro la
pace (aggressione), lo Statuto rinuncia a dare all’aggressione una definizione,
rinviandola ad una futura modifica della convenzione. Si tratta di crimini
individuali che tali sono anche per il diritto internazionale consuetudinario, la
punizione dei quali trova conferma nella prassi delle Corti interne e
internazionali.

Normalmente l’individuo che commette un crimine internazionale è organo del


proprio Stato o di un’entità di tipo statale (come il governo insurrezionale a
base territoriale): soltanto gli Stati o queste altre entità sono normalmente in
grado di produrre attacchi estesi o sistematici contro una popolazione civile.
Ciò comporta che, quando è commesso un genocidio o un altro crine contro
l’umanità o un crimine di guerra, crimini tutti costituenti anche gross violations
dei diritti umani, ne consegue una duplice responsabilità internazionale, dello
Stato e dell’individuo organo. Non è escluso, comunque, che crimini contro
l’umanità possano essere commessi da gruppi privati non agenti quali organi di
uno Stato determinato: è il caso degli atti di terrorismo da parte di fanatici
religiosi.

Il principio che va affermandosi è quello della universalità della giurisdizione


penale: si ritiene che ogni Stato possa procedere alla punizione ovunque il
crimine sia stato commesso. Per il diritto internazionale generale, lo Stato,
mentre è sempre libero di esercitare la giurisdizione sui suoi cittadini, può
sottoporre lo straniero a giudizio penale solo se sussiste, e nei limiti in cui
sussiste, un collegamento con lo Stato medesimo. Tale collegamento è dato in
linea generale dal principio di territorialità (commissione del reato nel
territorio della Stato). La necessità del collegamento viene meno quando si
tratta di crimine internazionale: la ratio è che lo Stato che punisce il crimine
persegue un interesse che è proprio della comunità internazionale nel suo
complesso. La punizione dei crimini internazionali può aver luogo anche
quando il colpevole sia stato catturato all’estero illegittimamente, cioè
violandosi la sovranità territoriale dello Stato in cui si trovava; lo Stato è altresì
libero di escludere che i crimini internazionali, che esso prevede di punire,

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siano colpiti da prescrizione, così come può punire o limitarsi a concedere


l’estradizione ad uno Stato che intende farlo. Per il diritto consuetudinario, lo
Stato può ma non deve punire; può ma non deve considerare il crimine come
imprescrittibile; può ma non deve concedere l’estradizione. Per il diritto
pattizio è diverso: molte sono le convenzioni che contengono la regola aut
dedere aut judicare. All’universalità della giurisdizione penale corrisponde
l’universalità della giurisdizione civile, affermata dalle Corti statunitensi sulla
base di norme interne in materia di responsabilità civile extracontrattuale e
confermata dal diritto internazionale generale. Il principio dell’universalità della
giurisdizione non permette però che, in mancanza di qualsiasi collegamento
con lo Stato del giudice, il criminale internazionale possa essere giudicato
anche se non è fisicamente presente nel territorio della Stato, ossia in
contumacia. La prassi non autorizza una conclusione contraria: tutti i casi di
punizione finora effettuati ad opera di Corti interne riguardano individui
presenti nel territorio, il principio della presenza dell’indagato è applicato dai
tribunali penali internazionali, il principio aut dedere aut judicare (contenuto in
varie convenzioni relative a singoli crimini) muove dal presupposto che non si
giudichi in contumacia.

25. (Segue). I limiti relativi ai rapporti economici e sociali. La protezione


dell’ambiente.

Il diritto internazionale economico è forse quello, tra i settori rientranti in


passato nel dominio riservato degli Stati, in cui più che in ogni altro la
formazione di norme consuetudinarie è da escludersi: trattasi di un settore
dominato dalle norme convenzionali. Circa i rapporti fra Paesi industrializzati e
Paesi in via di sviluppo, una serie di principi sono stati enunciati a varie riprese
dall’Assemblea generale dell’ONU, dall’UNCTAD e da altre organizzazioni
internazionali: trattasi dell’enunciazione di principi di carattere programmatico
i quali descrivono come i rapporti economici tra le due categorie di Paesi
debbano essere convenzionalmente regolati. Sulla base di questi principi una
serie di convenzioni bilaterali e multilaterali è andata ponendo limiti alla libertà
degli Stati di regolare come credono i loro rapporti economici.

Importanti sono gli accordi sui prodotti di base (ad es., juta, caffè, zucchero,
grano, cacao, gomma naturale) che tendono a stabilizzare il prezzo del
prodotto e a renderlo remunerativo per i Paesi produttori, di solito i Paesi in via
di sviluppo, ed equo per i Paesi consumatori; le convezioni commerciali ispirate
al principio del trattamento preferenziale dei Paesi in sviluppo (c.d. sistema
generalizzato delle preferenze); gli accordi che prevedono assistenza tecnica,

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aiuti finanziari, ecc., ai Paesi in sviluppo; le iniziative dirette a trasferire le


tecnologie (brevetti, know how) delle imprese dei Paesi industrializzati a quelle
dei Paesi in sviluppo.

A prescindere poi dagli accordi di cooperazione per lo sviluppo, la libertà degli


Stati in materia economica è limitata da numerosissimi accordi (in gran parte
negoziati in seno all’OMC), tendenti alla liberalizzazione del commercio
internazionale. In materia economica, il potere di governo dello Stato non
incontra limiti di diritto consuetudinario, se non quelli relativi al trattamento
degli interessi economici degli stranieri. Vari tentativi sono stati fatti in dottrina
per individuare limiti di carattere generale: si è così affermato che lo Stato non
debba comunque interferire negli interessi economici essenziali di Stati
stranieri oppure che ciascuno Stato debba esercitare il proprio potere entro
limiti ‘ragionevoli’. Tutto ciò è stato detto per reagire alla pretesa degli Stati
Uniti di emanare leggi che sono considerate ‘extraterritoriali’: tale pretesa, che
si è manifestata nel campo della legislazione antitrust, in quello del
boicottaggio del commercio verso Paesi non amici e in materia di
amministrazione di società, consiste nel voler imporre obblighi alle imprese di
tutto il mondo, con la minaccia di colpirne beni ed interessi in territorio
statunitense. Le misure di embargo e altre misure simili hanno però sempre
incontrato l’opposizione degli altri Stati e soprattutto dell’Unione europea. La
pretesa statunitense è un esempio di imperialismo giuridico e la condanna può
essere espressa in base alle norme consuetudinarie che vietano di esercitare la
potestà di governo sugli stranieri in assenza di un contatto adeguato con la
comunità territoriale. Nessuno dei tentativi fatti dalla dottrina può invece
considerarsi sorretto dalla tradizione.

Le materie del lavoro e della sicurezza sociale sono oggetto di un nutrito


movimento convenzionale che l’ILO va promuovendo fin dagli anni Venti. In
tema di protezione dell’ambiente, vengono in rilievo i limiti alla libertà di
sfruttamento delle risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati
dalle attività inquinanti o capaci di distruggere irrimediabilmente le risorse. Nel
quadro di rapporti di vicinato, con riguardo alle utilizzazioni dei fiumi
internazionali modificanti l’afflusso delle acque al territorio di uno Stato
contiguo, alle immissioni di fumi e sostanze tossiche dovute ad attività
industriali in prossimità dei confini e all’inquinamento atmosferico derivante da
attività ultra pericolose (come l’attività delle centrali atomiche), hanno rilievo la
Dichiarazione di Stoccolma (1972) e la Dichiarazione di Rio (1992): secondo
l’art. 2 di quest’ultima, “gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro
risorse naturali conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno
l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità

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o sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente in altri Stati…”. Le


Dichiarazioni non hanno forza vincolante. L’obbligo che sanciscono
corrisponde, per la maggioranza della dottrina, al diritto internazionale
consuetudinario. In realtà, tutto ciò che può dirsi in base al diritto
internazionale consuetudinario è che esistono obblighi di cooperazione, quali
l’obbligo per lo Stato sul cui territorio si verificano fenomeni di inquinamento di
informare gli altri Stati del pericolo e l’obbligo per tutti gli altri Stati interessati
di prendere di comune accordo misure preventive o successive al verificarsi del
danno all’ambiente. L’unico caso in cui un obbligo di non causare danni
all’ambiente di altri Stati, con riguardo al diritto internazionale
consuetudinario, è stato affermato, è la sentenza arbitrale emessa tra Stati
Uniti e Canada nell’affare della Fonderia di Trail (1941), fonderia canadese che
operava in prossimità del confine e che aveva gravemente danneggiato, con
immissioni di fumo, coltivazioni di contadini americani. In realtà gli Stati sono
sempre stati restii ad ammettere la propria responsabilità per danni e, se
qualche volta hanno provveduto ad indennizzare le vittime, hanno nel
contempo avuto la cura di sottolineare il carattere grazioso dell’indennizzo
medesimo.

Non bisogna poi confondere gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con
quelli degli individui, persone fisiche o giuridiche, o, al limite, dello stesso Stato,
sul piano interno: se un’industria, pubblica o privata, provoca danni nel
territorio di un altro Stato, può essere chiamata a rispondere presso innanzi ai
giudici di questo Stato, nel quadro del normale esercizio della sovranità
territoriale; oppure può essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici dello
stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento. Responsabilità di diritto
interno si ha quando si parla del principio “chi inquina paga” come un principio
di diritto internazionale, che si limiterebbe ad imporre allo Stato di apprestare
gli strumenti affinché la responsabilità dell’inquinatore possa essere fatta
valere al suo interno.

A parte gli usi nocivi, ci si chiede se esista un obbligo per lo Stato di gestire
razionalmente le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo
sostenibile (ossia contemperando le esigenze del proprio sviluppo economico
con quelle della tutela ambientale), della responsabilità intergenerazionale
(ossia salvaguardando le esigenze delle generazioni future) e dell’approccio
precauzionale (ossia evitando di invocare la mancanza di piene certezze
scientifiche allo scopo di rinviare l’adozione di misure dirette a prevenire gravi
danni all’ambiente); la risposta, in assenza di dati sicuri dalla prassi, non può
che essere negativa.

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Passando dal diritto consuetudinario al diritto pattizio, il discorso si fa


completamente diverso. Circa gli usi nocivi del territorio, gli accordi si sono
andati moltiplicando, stabilendo obblighi di cooperazione, di informazione e di
consultazione tra le Parti contraenti. Le convenzioni in tema di responsabilità
da inquinamento, ispirandosi al principio “chi inquina paga”, si preoccupano di
imporre agli Stati contraenti la predisposizione, al loro interno, di un adeguato
sistema di responsabilità civile e penale. Anche nella materia della gestione
razionale delle risorse, il numero degli obblighi va crescendo.

Da ricordare sono la Convenzione di Vienna (1985) sulla protezione della fascia


di ozono, il Protocollo di Montreal (1997) sulle sostanze che riducono la fascia,
la Convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici (1992), il Protocollo
di Kyoto (1997) sulle quote di riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti
gravanti su ciascuno Stato contraente. Di carattere pattizio è anche la disciplina
diretta a proteggere la diversità biologica, ossia la variabilità degli organismi
viventi di qualsiasi origine, oggetto della Convenzione di Nairobi (1992).

26. (Segue). Il trattamento degli stranieri.

Due sono i principi di diritto internazionale che si sono formati per


consuetudine in materia di trattamento degli stranieri. Il primo prevede che
allo straniero non possano imporsi prestazioni che non si giustifichino con un
sufficiente ‘attacco’ dello straniero stesso (o dei suoi beni) con la comunità
territoriale. Il secondo sancisce il c.d. obbligo di protezione da parte dello Stato
territoriale: lo Stato deve predisporre misure idonee a prevenire e a reprimere
le offese contro la persona e i beni dello straniero, l’idoneità essendo
commisurata a quanto di solito si fa per tutti gli individui in uno Stato civile,
cioè in uno Stato “il quale provveda normalmente ai bisogni di ordine e di
sicurezza della società sottoposta al suo controllo” (Quadri). Circa le misure
preventive, esse devono essere adeguate alle circostanze relative ad singolo
caso concreto. Circa le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un
normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero possa far valere
le proprie pretese; chiamasi diniego di giustizia l’eventuale illecito dello Stato
in questa materia. La protezione della persona dello straniero assumeva un
rilievo del tutto autonomo quando lo Stato era considerato libero da vincoli
internazionali; essa oggi può dirsi confluita nella protezione accordata alla
persona umana in quanto tale. La situazione è invece immutata per ciò che
riguarda i beni dello straniero, dato che i beni del cittadino possono essere
legittimamente sacrificati dal punto di vista del diritto internazionale.

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Circa gli investimenti stranieri, si tratta di fare una sintesi fra le posizioni dei
Paesi in via di sviluppo, tendenzialmente favorevoli all’assoluta libertà dello
Stato territoriale, e le posizioni dei Paesi industrializzati, tendenzialmente
favorevoli alla massima protezione degli investimenti stranieri. Per il punto di
vista dei primi, può farsi capo all’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici
degli Stati, secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti
“in conformità alle sue leggi e regolamenti ed alle priorità ed obiettivi nazionali
di politica economica e sociale” e di adottare tutte le misure necessarie affinché
siffatta disciplina sia rispettata dagli stranieri, particolarmente dalle società
multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è chiaramente quello di evitare gli
abusi perpetrati in passato in ordine allo sfruttamento delle risorse dei territori
sottoposti a dominio coloniale o degli Stati più deboli, può anche essere
considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia
di investimenti, a patto però che la libertà dello Stato, che essa sembra sancire
senza alcun limite, non sia spinta al punto di negare un’equa remunerazione
del capitale straniero.

Nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di espropriare e nazionalizzare


beni stranieri. Neppure vi è controversia circa la questione se il passaggio alla
mano pubblica debba essere sorretto da motivi di pubblica utilità, questione
che acquista rilievo in caso di espropriazione di un singolo bene (e che in
questo caso va risolta affermativamente) dato che nelle nazionalizzazioni (che
normalmente riguardano intere categorie di imprese) il pubblico interesse è in
re ipsa. L’unica questione importante è quella relativa all’indennizzo. Nessuno
Stato, allorché abbia proceduto a nazionalizzazioni, si è mai schierato contro
l’obbligo di indennizzo e la corresponsione del medesimo si ricollega all’equa
remunerazione del capitale straniero, unico limite alla libertà statale in materia
di investimenti stranieri. L’incertezza regna circa le modalità di pagamento ed il
quantum dovuto. La tesi, propria di alcuni Stati industrializzati, secondo cui
l’indennizzo dovrebbe sempre essere “pronto, adeguato ed effettivo” (formula
coniata dagli Stati Uniti) può essere condivisa con riguardo all’espropriazione di
singoli beni per utilità pubblica, ma non si è mai affermata per le
nazionalizzazioni. L’indennizzo è spesso oggetto di transazione fra lo Stato
nazionalizzante e lo Stato di appartenenza degli stranieri espropriati (c.d.
accordi di compensazione globale o lump sum agreements mediante i quali il
primo Stato corrisponde una somma forfetaria al secondo e questo resta
l’unico competente a decidere circa la distribuzione della somma fra i soggetti
colpiti) o direttamente fra il primo e le compagnie espropriate. L’art. 2 della
Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, pur riconoscendo il dovere di
indennizzare, prevede che lo Stato nazionalizzante determini l’indennità sulla
base “delle sue leggi, dei suoi regolamenti e di ogni circostanza che esso

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giudichi pertinente…”. In definitiva, alla luce della prassi, può dirsi che l’obbligo
dell’indennizzo sussiste, che lo Stato nazionalizzante commette una violazione
del diritto internazionale solo quando è inequivoca la sua volontà di non
indennizzare, che l’accordo può anche sacrificare gli interessi del privato
espropriato.

È collegato alla protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri il problema


del rispetto dei debiti pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore,
nei casi (distacco, smembramento, incorporazione, mutamento radicale di
regime, ecc.) di mutamento di sovranità su di un territorio. La dottrina
tradizionale era in linea di massima favorevole alla successione nel debito
pubblico, opinione che ha incontrato la decisa opposizione dei Paesi in via di
sviluppo. Nella prassi più recente (smembramento dell’Unione Sovietica e della
Cecoslovacchia), può notarsi la tendenza all’accollo da parte degli Stati
subentranti. Tutto ciò che si può dire è che la disciplina della materia tende a
seguire i principi valevoli per la successione nei trattati: tende ad ammettere la
successione nei debiti localizzabili (ossia contratti nell’esclusivo interesse del
territorio oggetto del mutamento di sovranità) e non nei debiti generali dello
Stato predecessore, salvo, in quest’ultimo caso, un accollo convenzionalmente
stabilito.

Nessun limite prevede il diritto internazionale consuetudinario per quanto


riguarda l’ammissione e l’espulsione degli stranieri: in questa materia rivive in
pieno la norma sulla sovranità territoriale. È vero che l’espulsione deve
avvenire con modalità che non risultino oltraggiose nei confronti dello straniero
e che allo straniero medesimo deve essere concesso un lasso di tempo
ragionevole per regolare i propri interessi ed abbandonare il Paese, ma ciò non
è altro che un’applicazione del dovere di protezione e, in particolare,
dell’obbligo di predisporre misure preventive delle offese alla persona dello
straniero ed ai suoi beni. Limiti particolari derivano dalle convenzioni sui diritti
umani. La Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti
crudeli, disumani o degradanti (1984), obbliga gli Stati a non estradare o
espellere una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a
tortura; la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricavato, dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, l’obbligo di non espellere quando l’espulsione
comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità familiare.
Essendo l’espulsione dei cittadini già normalmente esclusa dalle costituzioni
interne, è chiaro che l’obbligo trova la sua principale attuazione con riguardo
agli stranieri e agli apolidi. Si va facendo strada nella prassi interna la regola per
cui lo straniero deve poter ricorrere al giudice contro l’atto di espulsione.

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Numerosi sono poi gli accordi internazionali, c.d. convenzioni di stabilimento,


con cui ciascuna Parte contraente si obbliga a riservare alle persone fisiche e
giuridiche, appartenenti all’altra o alle altre Parti, condizioni di particolare
favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di attività
imprenditoriali, professionali, ecc.

Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un


illecito internazionale nei confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene.
Quest’ultimo potrà esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la
difesa del proprio suddito sul piano internazionale: potrà agire con proteste,
minacce di (o ricorso a) contromisure contro lo Stato territoriale, proposte di
arbitrato o, quando è possibile, ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali,
al fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno
causato al proprio suddito. Prima che però lo Stato agisca in protezione
diplomatica occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti
dall’ordinamento dello Stato territoriale, purché adeguati ed effettivi, secondo
la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. L’istituto della protezione
diplomatica ha oggi carattere residuale, nel senso che, una volta esauriti i
ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche necessario che non vi siano
rimedi internazionali efficienti (come le corti internazionali che controllano il
rispetto dei diritti umani), azionabili dagli stessi stranieri lesi. Lo Stato che
agisce in protezione diplomatica esercita, dal punto di vista dell’ordinamento
internazionale, un proprio diritto; non agisce come rappresentante o
mandatario dell’individuo ed è perciò da escludere che la materia sia
inquadrabile come manifestazione della personalità internazionale
dell’individuo. Lo Stato può, in ogni momento, rinunciare ad agire, sacrificare
l’interesse del suddito leso ad altri interessi, transigere, ecc., ciò anche se
comincia ad affermarsi l’idea di un vero e proprio obbligo dello Stato di
esercitare la protezione nel caso di violazioni gravi dei diritti umani. Altro è il
problema se, dal punto di vista del diritto interno, il Governo non sia obbligato,
nei confronti dei suoi sudditi, ad esercitare la protezione diplomatica; per le
Sezione Unite della Corte di Cassazione, sono pienamente discrezionali e
totalmente sottratti al sindacato giurisdizionale sia ordinario che
amministrativo gli atti compiuti dallo Stato nel regolamento delle relazioni
internazionali; mentre, la Court of Appeal della Civil Division inglese ha
sostenuto che il cittadino ha una “legittima aspettativa”di vedere il suo caso
“preso in considerazione” dal Governo e che, sotto questo aspetto, il
comportamento del Governo può essere sottoposto al vaglio delle Corti.

L’istituto della protezione diplomatica è oggi oggetto di contestazione,


limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte degli Stati

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in via di sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, dottrina che prende il
nome dall’internazionalista e diplomatico argentino che l’abbozzò nel secolo
XIX (come reazione alla pretesa degli Stati europei di intervenire militarmente
negli Stati dell’America latina col pretesto di proteggere i propri sudditi) e
secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri
sarebbero di esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato locale. Ad una
simile dottrina si sono sempre ispirati gli Stati latino americani, tra l’altro
inserendo nei contratti delle imprese straniere una clausola di rinuncia da parte
di queste ultime alla protezione del proprio Stato (c.d. clausola Calvo). Alla
stessa dottrina si ispira l’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli
Stati quando, a proposito delle nazionalizzazioni di beni stranieri, stabilisce che
“…ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in conformità
alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dei Tribunali di questo
Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di
ricercare altri mezzi pacifici sulla base dell’uguaglianza sovrana degli Stati
medesimi”. In effetti, nessuno può costringere uno Stato, che sia accusato di
aver violato le norme sul trattamento degli stranieri, a trattare la questione sul
piano internazionale o addirittura a risolverla mediante arbitrato, se esso non
abbia preventivamente e liberamente assunto obblighi convenzionali al
riguardo, così come nessuno può vietare allo Stato dello straniero di protestare,
di proporre arbitrati o di minacciare rappresaglie (e ciò anche in presenza di
una clausola Calvo, dato che con la protezione diplomatica lo Stato fa valere un
diritto proprio).

La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale anche in


difesa di una persona giuridica, in particolare di una società commerciale. La
nazionalità delle persone giuridiche non è però un concetto definito quanto
quello delle persone fisiche. Circa le società commerciali, ai fini dell’esercizio
della protezione diplomatica, ci si chiede se si debba aver riguardo a criteri
formali, come il luogo della costituzione e quello della sede principale, oppure
a criteri sostanziali, come la maggioranza dei soci o comunque coloro che
controllano la società. A favore della prima tesi si è pronunciata la Corte
Internazionale di Giustizia, nella sentenza Barcelona Traction, Light and Power
Co., Ltd. (1970); in tal caso si trattava di una società canadese (in quanto
costituita secondo le leggi del Canada ed avente la sede principale a Toronto)
che era stata dichiarata fallita in Spagna; la Corte ha escluso che il Belgio, Stato
nazionale della maggioranza degli azionisti, avesse titolo per agire in protezione
diplomatica per i danni causati dalla dichiarazione di fallimento, dichiarazione
di cui si lamentava da parte belga la contrarietà a principi fondamentali di
giustizia e che si assumeva fosse stata dolosamente preordinata al fine di
trasferire senza indennizzo i beni della società in mano spagnola. È difficile

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negare però che lo Stato nazionale dell’azionista possa intervenire in


protezione diplomatica quando la società si sia estinta oppure quando la
società medesima abbia la stessa nazionalità dello Stato contro cui la
protezione dovrebbe essere esercitata.

27. (Segue). Il trattamento degli agenti diplomatici e degli organi supremi di


Stati stranieri.

Limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto
consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici; essi si concretano
nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche. La materia è anche regolata
dalla Convenzione di Vienna (1961), che corrisponde largamente al diritto
consuetudinario. Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati
presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso
entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento
in cui ne esce. La presenza dell’agente è, come quella di qualsiasi straniero,
subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà che si esplica, per
quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento (che precede
l’accreditamento) e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la c.d.
consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare, entro un certo tempo, il
Paese.

Inviolabilità personale. L’agente diplomatico deve essere anzitutto protetto


contro le offese alla sua persona mediante particolari misure preventive e
repressive. Tale obbligo si confonde con il generico dovere di protezione degli
stranieri, protezione che deve essere adeguata alle circostanze e quindi
commisurata all’importanza dello straniero. L’inviolabilità personale consiste
soprattutto nella sottrazione del diplomatico straniero a qualsiasi misura di
polizia diretta contro la sua persona.

Inviolabilità domiciliare. Per domicilio si intende sia la sede della missione


diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente diplomatico. Una volta si fingeva
la c.d. extraterritorialità della sede diplomatica; in realtà, la sede della
missione diplomatica resta territorio dello Stato che riceve l’agente, ma questo
Stato non può esercitarvi, senza il consenso dell’agente, atti di coercizione.

Immunità dalla giurisdizione penale e civile. Bisogna distinguere tra atti


compiuti dal diplomatico in quanto organo dello Stato e atti da lui compiuti
come privato. I primi sono coperti dall’immunità funzionale: l’agente non può
essere citato in giudizio per rispondere penalmente o civilmente degli atti

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compiuti nell’esercizio delle sue funzioni; simili atti non sono imputabili
all’agente, ma allo Stato straniero, perciò il diplomatico non può essere
chiamato a rispondere di tali atti neanche una volta cessate le sue funzioni. I
secondi sono coperti dall’immunità personale, salvo per quanto riguarda la
giurisdizione civile, le azioni reali concernenti immobili situati nel territorio
dello Stato accreditatario, le azioni successorie e quelle riguardanti attività
professionali o commerciali dell’agente e le domande riconvenzionali; la ratio
di quest’immunità sta esclusivamente nell’esigenza di assicurare all’agente il
libero ed indisturbato esercizio delle sue funzioni e ne consegue il carattere
squisitamente processuale dell’immunità: l’agente non è dispensato
dall’osservare la legge, ma è semplicemente immune dalla giurisdizione finché
si trova nel territorio dello Stato e finché esplica le sua funzioni; una volta
cessate queste ultime, egli potrà essere sottoposto a giudizio per gli atti o i
reati compiuti.

Esenzione fiscale. Sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali.

Le immunità si estendono a tutto il personale diplomatico delle missioni e alle


famiglie degli agenti. La Convenzione di Vienna del 1961 estende l’immunità
anche al personale tecnico e amministrativo della missione, con esclusione
degli impiegati che siano cittadini dello Stato territoriale. Le immunità suddette
spettano, per il diritto internazionale consuetudinario, anche ai Capi di Stato
nonché, quando si recano all’estero in forma ufficiale, ai Capi di Governo e ai
Ministri degli Esteri. Si ritiene che anche l’immunità funzionale debba però
soccombere, sempre quando sia cessata la funzione, rispetto all’esigenza di
punizione di eventuali crimini internazionali. I consoli non godono delle
immunità personali: è inviolabile solo l’archivio consolare. Per gli organi statali
stranieri che si trovino, ufficialmente o meno, nel territorio, valgono comunque
le comuni norme sul trattamento degli stranieri; anche qui il dovere di
protezione dovrà essere commisurato al rango dell’organo e alle circostanze in
cui esso opera.

28. (Segue). Il trattamento degli Stati stranieri.

Il principio di non ingerenza negli affari interni ed internazionali altrui è


andato via via perdendo la sua autonoma sfera di applicazione, assorbito
dall’affermarsi di altre regole generali, la più importante delle quali è costituita
dal divieto della minaccia o dell’uso della forza. Circa le applicazioni del
principio di non ingerenza che si risolvono in limiti al potere di governo che lo
Stato esercita nel proprio territorio, rilevano gli interventi dello Stato diretti a

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condizionare le scelte di politica interna ed internazionale di un altro Stato (ad


es. le misure di carattere economico). Secondo la Corte Internazionale di
Giustizia, non è sufficiente a concretare un’ipotesi di illecito intervento negli
affari altrui l’interruzione di un programma di aiuto allo sviluppo o la riduzione
o il divieto delle importazioni dal Paese che si vuol colpire. In realtà, qualora
queste misure siano contemporaneamente e sistematicamente prese ed
abbiano come unico scopo quello di influire sulle scelte delle Stato straniero,
esse devono considerarsi come vietate. Ci si chiede se dal principio di non
ingerenza derivi l’obbligo di impedire che nel proprio territorio si tengano
comportamenti che possano indirettamente turbare l’ordine pubblico. L’unica
regola consuetudinaria di cui possa affermarsi l’esistenza è quella che impone
di vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti contro altri Stati. Tutto il
resto appartiene alla sfera del diritto convenzionale.

All’inizio del XX secolo, la teoria universalmente accolta in merito al


trattamento degli Stati stranieri, era quella favorevole all’immunità assoluta
degli Stati stranieri alla giurisdizione civile. Sono state la giurisprudenza
italiana e quella belga, nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, a
dare inizio alla revisione della regola, che ha portato all’elaborazione della
teoria dell’immunità ristretta o relativa. Secondo quest’ultima, l’esenzione
degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii
(attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si
estende invece agli atti jure gestionis o jure privatorum (aventi carattere
privatistico, come l’emissione di prestiti obbligazionari). La distinzione non è
sempre facile da applicare ai casi concreti: in caso di dubbio si deve concludere
a favore dell’immunità. Il campo in cui maggiormente rileva il problema è
quello relativo alle controversie di lavoro (trattasi di giudizi per lo più instaurati
da lavoratori aventi nazionalità dello Stato territoriale, per lavoro prestato
presso ambasciate, istituti di cultura e uffici istituiti da Stati stranieri). La
Convenzione europea sull’immunità degli Stati (1972) distingue i due tipi di atti,
ma per le controversie di lavoro adotta questa soluzione: se il lavoratore ha la
nazionalità dello Stato straniero che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso;
se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o vi risiede
abitualmente pur essendo cittadino di un terzo Stato, e il lavoro deve essere
prestato nel territorio, l’immunità è esclusa.

Può ritenersi che l’immunità non sia invocabile dallo Stato citato in giudizio per
le conseguenze civilistiche di gravi violazioni dei diritti umani: per ora può
parlarsi di norma consuetudinaria in via di formazione. La prassi non autorizza
che l’immunità cada per tutte le norme di jus cogens, essendo limitata ai casi di
genocidio, tortura e simili.

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L’immunità della giurisdizione civile, nei limiti in cui è prevista per gli Stati,
viene riconosciuta anche agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche
pubbliche. La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di
cognizione sia all’esecuzione forzata su beni (a qualsiasi titolo) detenuti da uno
Stato estero: l’esecuzione forzata deve pertanto ritenersi ammissibile solo se
essa è esperita su beni non destinati ad una pubblica funzione.

A parte il caso in cui lo Stato estero sia convenuto in giudizio, nessun altro
limite la giurisdizione dello Stato territoriale incontra in tema di trattamento di
Stati stranieri. Senza fondamento è la dottrina dell’Act of State, dottrina
secondo cui una Corte interna non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge o
un altro atto di sovranità straniero (ad es. una legge richiamata dalle norme di
diritto internazionale privato), in quanto contraria al diritto internazionale o in
quanto illegittimamente adottata: le corti di uno Stato non potrebbero
controllare la legittimità internazionale o interna di leggi, sentenze ed atti
amministrativi stranieri che vengano in rilievo nei giudizi a loro sottoposti. Più
che una dottrina di diritto internazionale è considerata una sorta di
autolimitazione da parte delle corti, giustificata dalla necessità di non creare
imbarazzo al proprio Governo nei rapporti con i Governi stranieri.

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29. (Segue). Il trattamento delle organizzazioni internazionali.

Circa il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali e dei


rappresentanti degli Stati in seno agli organi delle medesime, non esistono
norme consuetudinarie che impongano agli Stati di concedere loro particolari
immunità: solo mediante convenzione lo Stato può obbligarsi in tal senso. Per
quanto riguarda i funzionari dell’ONU, l’art. 105 della Carta sancisce in via
generale che “…i funzionari dell’Organizzazione godranno dei privilegi e delle
immunità necessari per l’esercizio indipendente delle loro funzioni”,
demandando all’Assemblea generale il compito di proporre agli Stati membri la
conclusione di accordi per la disciplina dettagliata della materia. Importante è
la Convenzione ONU del 1975 sulla rappresentanza degli Stati nelle loro reazioni
con le organizzazioni internazionali di carattere universale.

Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che


non abbia la sua nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e
repressive previste dalle norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri.
Tale obbligo sussiste nei confronti dello Stato nazionale e la sua violazione dà
luogo all’esercizio della c.d. protezione diplomatica da parte dello Stato
nazionale medesimo. Può ritenersi che un obbligo di protezione del funzionario
sussista nei confronti dell’organizzazione ma che questa possa agire sul piano
internazionale nei confronti dello Stato territoriale solo per il risarcimento dei
danni ad essa arrecati (c.d. protezione formale) e non di quelli arrecati
all’individuo in quanto tale.

La Corte Internazionale di Giustizia si occupò del problema, su richiesta


dell’Assemblea generale dell’ONU, in un parere (1949) a proposito del caso
Bernadotte. Il conte Bernadotte, mediatore per l’ONU tra arabi e israeliani, era
stato ucciso nel 1948 a Gerusalemme, insieme ad un collaboratore, da
estremisti ebraici e il Segretario generale aveva accusato apertamente il
Governo israeliano di non aver adottato le misure atte a prevenire i due
attentati; l’Assemblea generale voleva sapere se l’ONU potesse agire sul piano
internazionale per il risarcimento dei danni: la Corte rispose affermativamente
sostenendo addirittura che l’Organizzazione avesse titolo per chiedere, oltre ai
danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dall’individuo in quanto tale.

Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello
Stato territoriale, lo sono pure le organizzazioni internazionali. Anche per
queste ultime il problema più importante è quello dell’immunità in tema di
controversie di lavoro: l’immunità è esclusa se l’Organizzazione non ha, nel suo
ordinamento interno, un organo, di natura giudiziaria, che offra tutte le

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garanzie di indipendenza e imparzialità, al quale il lavoratore possa rivolgersi.


Nelle Nazioni Unite funziona un Tribunale Amministrativo appositamente
creato dall’Assemblea generale nel 1949.

30. Il diritto internazionale marittimo. Libertà dei mari e controllo degli Stati
costieri sui mari adiacenti.

La materia del diritto internazionale marittimo ha formato oggetto di due


importanti conferenze di codificazione, la Conferenza di Ginevra (1958) e la
Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1974 1982); fra le
due si inserì una Seconda Conferenza (1960) che non ebbe seguito. La prima
produsse quattro Convenzioni di Ginevra: la Convenzione sul mare territoriale e
la zona contigua, la Convenzione sull’alto mare, la Convenzione sulla pesca e la
conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare, la Convenzione sulla
piattaforma continentale. Dalla seconda è sortita la Convenzione di Montego
Bay (1982, in vigore solo dal 1994), composta di 320 articoli ed integrata da un
Accordo applicativo che modifica la parte XI relativa al regime delle risorse
sottomarine al di là dei limiti della giurisdizione nazionale; il motivo del ritardo
è stato il rifiuto degli Stati industrializzati di vincolarsi alla parte XI: con l’entrata
in vigore dell’Accordo applicativo, è stata ratificata da 149 Paesi, tra cui non
figurano però gli Stati Uniti; la Convenzione di Montego Bay, largamente
riproduttiva del diritto consuetudinario, sostituisce le quattro Convenzioni di
Ginevra.

Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio
della libertà dei mari. Tale principio si affermò nel corso dei secoli XVII e XVIII.
Furono gli olandesi a promuoverne l’osservanza, inducendo Inghilterra, Spagna
e Portogallo ad abbandonare le pretese al c.d. dominio dei mari. Il singolo Stato
non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi
marini da parte di altri Stati. Tale utilizzazione incontra il solo limite del rispetto
della pari libertà altrui: essa non può essere spinta dal singolo Stato fino al
punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi. In
contrapposizione alla libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli
Stati ad assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste.
Ancora nella seconda metà del XIX secolo sostanzialmente estranea era la
figura del mare territoriale, intesa come una fascia di mare costiero addirittura
equiparata al territorio dello Stato. La tendenza si è invertita ed il vecchio
principio della libertà dei mari oggi non appare più come la regola prima e
generale ma semmai come una delle regole che compongono il diritto
internazionale marittimo. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale

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hanno visto la generale accettazione della dottrina Truman, enunciata dal


Presidente statunitense in famoso proclama del 1945 in tema di piattaforma
continentale: tale proclama rivendicava agli Stati Uniti il controllo e la
giurisdizione sulle risorse della piattaforma, cioè di quella parte del fondo e del
sottosuolo marino, talvolta estesa per centinaia di miglia marine, che
costituisce il prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene a
profondità costante prima di precipitare negli abissi. Dagli inizi degli anni
Ottanta la prassi si è infine orientata a favore dell’istituto della c.d. zona
economica esclusiva, estesa fino a duecento miglia marine dalla costa: tutte o
quasi tutte le risorse della zona sono considerate di pertinenza dello Stato
costiero. Cile, Argentina e Canada hanno cominciato negli ultimi anni a
dichiarare di voler tutelare i loro interessi in materia di conservazione della
specie ittica in alto mare anche al di là delle rispettive zone economiche
esclusive, anche senza procedere ad una rivendicazione di giurisdizione
esclusiva in materia di pesca: si parla di mare presenziale (presential sea) per
indicare la presenza dello Stato costiero ai fini della lotta contro la
depredazione della fauna marina.

31. Il mare territoriale e la zona contigua.

Il mare territoriale è, secondo il diritto internazionale consuetudinario,


sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come il territorio di
terraferma. L’acquisto della sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla
costa implica la sovranità sul mare territoriale. La Convenzione di Montego Bay
fissa il limite massimo del mare territoriale a 12 miglia marine dalla costa.
Secondo una dottrina formatasi fra le due guerre mondiali, lo Stato costiero
avrebbe il diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in una zona contigua
al mare territoriale. L’art. 33 della Convenzione stabilisce che “In una zona
dell’alto mare contigua al suo mare territoriale, lo Stato costiero può esercitare
il controllo necessario in vista: a) di prevenire la violazione delle proprie leggi di
polizia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione…; b) di reprimere le
violazioni delle medesime leggi, qualora siano state commesse sul suo territorio
o nel suo mare territoriale…”; l’art. 303 stabilisce che nella zona contigua lo
Stato costiero possa controllare l’attività di rimozione di reperti archeologici. La
larghezza massima della zona contigua è fissata a 24 miglia marine.
Limitatamente alla vigilanza doganale, si può ritenere però che il potere dello
Stato incontri un limite non spaziale, ma funzionale: lo Stato può far tutto ciò
che vuole per prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque adiacenti alle
sue coste, a distanza anche maggiore di 24 miglia marine, purché non si tratti di
una distanza tale da far perdere qualsiasi idea di adiacenza. Infatti, quando si

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vuole sostenere a tutti i costi che la vigilanza doganale possa essere esercitata
soltanto entro spazi determinati, si è soliti ricorrere alla teoria della ‘presenza
costruttiva’, ossia alla tesi secondo cui la nave che abbia contatti con la costa è
come se si trovasse negli spazi sottoposti al potere di governo dello Stato
costiero: tale teoria è una pura finzione.

L’art. 5 della Convenzione fissa il principio generale secondo cui la linea di base
per la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea. L’art.
7 riconosce la possibilità di derogare a detto principio ricorrendosi al sistema
delle linee rette: la linea di base del mare territoriale non è segnata seguendo
le sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa o, se vi
sono isole prossime alla costa, congiungendo le estremità delle isole; la linea di
base non deve “discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione generale della
costa”, le acque situate all’interno della linea devono essere “sufficientemente
legate al dominio terrestre per essere sottoposte al regime delle acque interne”
e si può tenere conto degli “interessi economici attestati da un lungo uso” delle
regioni costiere. L’art. 10 riguarda le baie. Se la distanza fra i punti naturali
d’entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare territoriale viene misurato
a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia sono
considerate come acque interne; se la distanza eccede le 24 miglia, può
tracciarsi all’interno della baia una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo
tale da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare possibile.
Sono considerate baie solo le insenature che penetrino in profondità nella
costa: ne consegue che i golfi, le baie ed ogni altra insenatura che abbiano
magari una lunga linea di entrata ma non presentino una profonda rientranza
nella costa, non ricadono sotto l’art. 10 e possono essere chiusi interamente.
L’art. 10 fa salve poi le ‘baie storiche’, cioè quelle su cui lo Stato costiero possa
vantare diritti esclusivi consolidatisi nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri
Stati.

L’Italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e
delle isole maggiori (D.P.R. n. 816/77). Di dubbia legittimità internazionale è la
chiusura del Golfo di Taranto, che ha un’apertura di circa 60 miglia ed è una
vera e propria baia ai sensi dell’art. 10.

Il primo limite ai poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale è
costituito dal c.d. diritto di passaggio inoffensivo o innocente da parte delle
navi straniere. Per gli artt. 17 ss. della Convenzione di Montego Bay ogni nave
straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale, sia per
traversarlo, sia per entrare nella acque interne, sia per prendere il largo
provenendo da queste, e purché il passaggio sia “continuo e rapido”; il

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passaggio è inoffensivo “finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o
alla sicurezza dello Stato costiero”. Se il passaggio non è inoffensivo (manovre
con armi, propaganda ostile, inquinamento, pesca, ecc.), lo Stato costiero può
prendere tutte le misure atte ad impedirlo.

Eccezionalmente lo Stato costiero può anche chiudere al traffico per motivi di


sicurezza determinate zone del mare territoriale, purché pubblicizzi
adeguatamente la chiusura e non effettui discriminazioni fra navi di diversa
nazionalità. Tali norme si applicano anche alle navi da guerra, salvo l’obbligo
per i sottomarini di navigare in superficie. Il diritto di passaggio è
maggiormente tutelato negli stretti che, non superando l’ampiezza di 24 miglia,
sono costituiti interamente dai mari territoriali degli Stati costieri; quando gli
stretti uniscono zone di mare in cui la libertà di navigazione è assicurata, le navi
hanno un diritto di passaggio in transito, passaggio che non può essere
sospeso o intralciato; quando invece gli stretti uniscono il mare territoriale di
uno Stato al mare territoriale o alla zona esclusiva di un altro Stato, le navi
hanno un semplice diritto di passaggio inoffensivo.

Un altro limite riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi


straniere. Essa non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave
straniera, cioè a fatti che non siano idonei a turbare il normale svolgimento
della vita della comunità territoriale. L’art. 27 della Convenzione si discosta dal
diritto consuetudinario prescrivendo che lo Stato costiero “non dovrebbe”
esercitare la giurisdizione sui fatti interni e quindi sembra lasciare arbitro lo
Stato di decidere se esercitare o meno la propria potestà punitiva.

32. La piattaforma continentale. La zona economica esclusiva.

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale segnano l’inizio della corsa
all’accaparramento delle risorse marine. Tale tendenza si è risolta nella
generale accettazione della dottrina della piattaforma continentale e, più
recentemente, dell’istituto della zona economica esclusiva. La prima,
enunciata dal Presidente americano Truman nel 1945, venne recepita dalla
Convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale (1958) ed è stata
trasfusa nella Convenzione di Montego Bay. La seconda si è affermata nella
Terza Conferenza sul diritto del mare (1973). Entrambe sono avallate dalla
consuetudine. L’Italia non ha introdotto la zona economica esclusiva, con il
risultato che zone di altri Stati (ad es. la Tunisia) arrivano a lambire il nostro
mare territoriale.

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Ferma restando la libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio


atmosferico sovrastanti, lo Stato costiero ha, al di là del mare territoriale, il
diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma continentale. Il
diritto esclusivo di sfruttamento è acquistato dallo Stato costiero in modo
automatico, cioè a prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della
piattaforma. Il diritto sulla piattaforma, a differenza del diritto di sovranità sul
territorio e sul mare territoriale, ha natura funzionale: lo Stato costiero può
esercitare il proprio potere di governo non per disciplinare qualsiasi aspetto
della vita sociale, ma solo nella misura strettamente necessaria per controllare
e sfruttare le risorse della piattaforma. Circa la delimitazione della piattaforma
tra Stati che si fronteggiano o tra Stati contigui, la Convenzione di Ginevra
stabiliva che, sia nel caso di delimitazione frontale che nel caso di delimitazione
laterale, e salva diversa volontà delle parti, dovesse ricorrersi al criterio
dell’equidistanza. Secondo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia
nel caso della delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord
(1969), il criterio dell’equidistanza non è imposto dal diritto internazionale
consuetudinario, con la conseguenza che la delimitazione potrà essere
effettuata solo mediante accordo fra Stati interessati: l’accordo deve ispirarsi a
principi di equità. Prima che l’accordo sia concluso, nessuno Stato può
pretendere, nei confronti dei vicini, l’uso esclusivo delle zone di piattaforma
controverse. Subordinare un accordo all’equità non serve comunque a renderlo
invalido se i criteri applicati siano iniqui, a meno di non ritenere che l’equità
assurga a regola di jus cogens, il che è da escludere.

La zona economica esclusiva può estendersi fino a 200 miglia marine, limite
calcolato a partire dalla linea di base del mare territoriale. La delimitazione è
rimessa all’accordo fra Stati frontisti o contigui. Allo Stato costiero è attribuito il
controllo esclusivo su tutte le risorse economiche della zona, sia biologiche
che minerali, sia del suolo e del sottosuolo delle acque sovrastanti. La pesca è
la risorsa di maggior rilievo. Tale attribuzione di risorse allo Stato costiero non
deve pregiudicare la partecipazione degli altri Stati alle possibili utilizzazioni
della zona: tutti gli Stati continueranno a godere della libertà di navigazione, di
sorvolo, di posa di condotte e di cavi sottomarini. Si tratta di un regime non
improntato né alla libertà di tutti gli Stati né alla sovranità dello Stato costiero: i
diritti, sia dello Stato costiero che degli altri Stati, hanno carattere funzionale,
nel senso che sia all’uno che agli altri sono consentite solo quelle attività
indispensabili rispettivamente allo sfruttamento delle risorse e alle
comunicazioni e ai traffici marittimi ed aerei. I poteri dello Stato costiero
nell’ambito della zona economica esclusiva si confondono con quelli esercitabili
in base alla dottrina della piattaforma continentale. Solo oltre le 200 miglia,
pertanto, e sempre che la piattaforma si estenda geologicamente oltre tale

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limite, si pone il problema se lo Stato costiero possa mantenervi la propria


giurisdizione. La Convenzione di Montego Bay, conformemente alla communis
opinio, stabilisce di sì, aggiungendo che una parte di quanto lo Stato ricavi dallo
sfruttamento delle zone situate fra le 200 miglia e il limite estremo della
piattaforma (c.d. margine continentale) debba essere versata all’Autorità
internazionale dei fondi marini. I Paesi che non hanno accesso al mare (c.d.
land locked States) “hanno il diritto di partecipare, su basi equitative, allo
sfruttamento di una parte appropriata delle risorse biologiche eccedentarie
delle zone economiche esclusive degli Stati costieri della stessa regione o sotto
regione”.

33. Il mare internazionale e l’area internazionale dei fondi marini.

Il mare internazionale è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio


principio della libertà dei mari. Tutti gli Stati hanno il diritto di trarre dal mare
internazionale tutte le utilità che questo può offrire, con l’unico limite di non
spingere l’utilizzazione degli spazi marini fino al punto di sopprimere le
possibilità degli altri Paesi. Circa le risorse minerarie del fondo e del sottosuolo
del mare internazionale (noduli e solfati polimetallici, croste di ferro e
manganese), una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU (1970) le ha
dichiarate “patrimonio comune dell’umanità”. È stata creata l’Autorità
internazionale dei fondi marini, di cui si occupa la parte XI della Convenzione di
Montego Bay nonché l’Accordo applicativo. Quest’ultimo modifica, in senso
favorevole agli Stati industrializzati, la parte XI della Convenzione ed è stato
applicato in via provvisoria anche a quegli Stati firmatari che non hanno
dichiarato di non volervi partecipare prima della ratifica; in tal modo l’Accordo
è stato applicato agli Stati Uniti: ma, essendo l’applicazione provvisoria prevista
per un periodo limitato e non avendo questo Paese ancora ratificato la
Convenzione, la sua partecipazione è cessata nel 1998. Gli organi principali
dell’Autorità sono l’Assemblea, il Consiglio, il Segretariato e l’Impresa;
quest’ultima è un organo operativo attraverso il quale l’Autorità partecipa
direttamente alla sfruttamento: ogni sito di sfruttamento è diviso in due parti,
l’uno attribuita allo Stato che abbia individuato l’area e l’altra attribuita
all’Impresa, che agirà nel quadro di joint ventures. L’Autorità ha per ora un
rilievo assai limitato, nessuna attività di sfruttamento essendo stata intrapresa
a causa della sua antieconomicità.

34. La navigazione marittima.

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Ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha la


nazionalità (Stato della bandiera). Tale principio si esprimeva un tempo
dicendosi che la nave è territorio della Stato. Lo Stato nazionale ha diritto
all’esercizio esclusivo del potere di governo sulla comunità navale. Esso esercita
siffatto potere attraverso il comandante o attraverso le proprie navi da guerra.
Il comandante di una nave, anche privata, è da considerare, dal punto di vista
del diritto internazionale, come organo dello Stato ed ha pertanto poteri
coercitivi limitatamente agli eventi che si verificano nel corso della navigazione,
salvo il rispetto degli obblighi relativi al trattamento degli stranieri che si
trovino a bordo. Un’eccezione fermamente stabilita dal diritto consuetudinario
è quella che concerne la pirateria: la nave che commette atti di violenza contro
le altre navi a fini di preda o altri fini non politici, può essere catturata da
qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive quali la punizione dei membri
dell’equipaggio e di coloro che hanno partecipato all’atto di pirateria, la
confisca della nave o del carico, ecc. L’art. 110 della Convenzione di Montego
Bay ammette un limitato diritto di visita della navi altrui in alto mare da parte
delle navi da guerra; una nave da guerra che incontri in alto mare una nave
mercantile non può fermarla, a meno che non abbia seri motivi per sospettare:
“(a) che la nave pratichi la prateria; (b) che la nave pratichi la tratta degli
schiavi; (c) che dalla nave partano trasmissioni radio o televisive rivolte al
grande pubblico e non autorizzate; (d) che la nave non abbia la nazionalità di
alcuno Stato; (e) che la nave, pur battendo bandiera straniera o rifiutandosi di
issare la bandiera, abbia la stessa nazionalità della nave da guerra”; se i
sospetti si rivelano infondati e sempre che la nave non abbia commesso alcun
atto tale da giustificarli, la nave medesima deve essere indennizzata per
qualsiasi perdita o danno.

Nella propria zona economica esclusiva lo Stato costiero può esercitare sulle
navi altrui tutti i poteri connessi allo sfruttamento delle risorse (ad es. visita,
cattura del carico, comminazione di sanzioni penali per infrazioni alle proprie
leggi sulla pesca, ecc.), nell’osservanza del principio funzionale, per cui non
sono giustificabili misure coercitive sproporzionate alle infrazioni commesse.
Nel proprio mare territoriale lo Stato costiero può esercitare il proprio potere
di governo sulle navi altrui, con gli unici limiti costituiti dal passaggio
inoffensivo e dalla sottrazione alla giurisdizione penale dello Stato costiero dei
fatti puramente interni alla comunità navale.

Eccezione al principio della sottoposizione della nave all’esclusivo potere dello


Stato della bandiera è la regola relativa al c.d. diritto di inseguimento: le navi
da guerra o adibite a servizi pubblici, appartenenti allo Stato costiero, possono
inseguire una nave straniera che abbia violato le leggi di tale Stato purché

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l’inseguimento abbia avuto inizio nella acque interne o nel mare territoriale
oppure nella zona contigua, nella zona economica esclusiva o nella acque
sovrastanti la piattaforma continentale (ma in queste ultime tre zone
limitatamente all’inosservanza delle misure ivi consentite allo Stato costiero);
l’inseguimento deve essere continuo e sulla nave così catturata potranno
essere esercitati quei poteri esercitabili nella zona in cui l’inseguimento ha
avuto inizio; l’inseguimento deve cessare se la nave entra nel mare territoriale
di un altro Stato.

L’art. 91 della Convenzione di Montego Bay stabilisce che ogni Stato fissa le
regole per l’immatricolazione delle navi nei propri registri navali, ma aggiunge
che “deve esistere un legame sostanziale [genuine link] tra lo Stato e la nave”;
l’art. 94 precisa che il primo “esercita effettivamente la sua potestà di governo
e il suo controllo in campo amministrativo, tecnico e sociale” sulla seconda. Tale
regola corrisponde al diritto internazionale generale. La Convenzione ONU sulle
condizioni di immatricolazione delle navi (1986) richiede che alla proprietà
della nave partecipi un numero di cittadini dello Stato di immatricolazione
“sufficiente” per assicurare a quest’ultimo il controllo effettivo sulla nave, o che
l’equipaggio sia formato per una quota “soddisfacente” da cittadini o residenti
abituali nello Stato di immatricolazione.

35. La protezione dell’ambiente marino e del patrimonio culturale sottomarino.

La Convenzione di Montego Bay dedica all’inquinamento una normativa


quadro che consta di più di quaranta articoli, che impegnano gli Stati a
collaborare fra di loro. Non vi sono, secondo la prassi, obblighi relativi alla
produzione di danni da inquinamento agli spazi marini di altri Stati; deve
ritenersi che l’art. 192, che dichiara che “gli Stati hanno il dovere di proteggere
e preservare l’ambiente marino”, sancisca un principio non codificatorio ma
tendente allo sviluppo progressivo del diritto internazionale; l’art. 235, in tema
di responsabilità da inquinamento, si preoccupa soltanto che gli Stati
predispongano al loro interno sistemi adeguati di ricorsi per un congruo
risarcimento dei danni. Gli accordi contengono invece tutta una serie di divieti
dettagliati di comportamenti capaci di inquinare le acque marine. Circa il
potere di governo sulle navi per impedire fenomeni di inquinamento, ad
imporre divieti ed a comminare sanzioni saranno lo Stato della bandiera e, nelle
zone sottoposte a giurisdizione nazionale, lo Stato costiero: quest’ultimo potrà
esercitare il proprio potere sulle navi altrui solo per prevenire o reprimere
attività inquinanti delle proprie acque interne o territoriali; nella zona
economica esclusiva tale potere sarà circoscritto alle attività inquinanti

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suscettibili di danneggiare le risorse naturali. L’art. 221 della Convenzione di


Montego Bay ammette la possibilità per uno Stato di intervenire
eccezionalmente su una nave altrui nel mare internazionale per prendere
misure strettamente idonee ad impedire o ad attenuare i danni al proprio
litorale, derivanti da un incidente già avvenuto; la prassi che si è sviluppata
dall’epoca dell’incidente della Torrey Canion (1967), al largo delle coste
britanniche, conferma questo punto di vista.

36. Gli spazi aerei e cosmici.

Le norme sulla navigazione aerea si sono andate modellando su quelle relative


alla navigazione marittima: esse furono dapprima dedotte per analogia dal
diritto del mare, ma poi si sono andate consolidando per consuetudine. Due
principi generali sono sempre stati affermati in materia di navigazione aerea. Il
primo, sancito anche dall’art. 1 della Convenzione di Chicago, istitutiva
dell’ICAO, prevede che la sovranità della Stato si estenda alla spazio
atmosferico sovrastante il territorio ed il mare territoriale. Per il secondo, lo
spazio che non sovrasta il territorio ed il mare territoriale dello Stato, deve
restare libero dall’utilizzazione di tutti i Paesi, con la conseguenza che
ciascuno Stato esercita il proprio, esclusivo potere di governo sugli aerei aventi
la sua stessa nazionalità. Sono due principi modellati rispettivamente sul
principio che sancisce l’estensione della sovranità dello Stato nei mari costieri e
sul principio della libertà dei mari. Lo Stato territoriale può regolare il sorvolo,
quindi stabilire le zone che non vanno sorvolate, indicare le rotte, impedire il
sorvolo ad aerei stranieri. Quando l’aereo straniero sorvola il territorio dello
Stato, tutto ciò che riguarda la vita della comunità aerea, tutto ciò che non
implica alcun contatto con la comunità territoriale, la vita di bordo, sfugge al
diritto di controllo da parte dello Stato territoriale. Dopo l’introduzione dei
motori a reazione ed il conseguente aumento della velocità degli aerei, è
invalsa la prassi delle c.d. zone di identificazione, zone che si estendono anche
per centinaia di miglia nello spazio sovrastante l’alto mare intorno alle coste: gli
Stati costieri impongono agli aerei stranieri che entrano in dette zone e che
sono diretti verso le coste, l’obbligo di sottoporsi alla identificazione, alla
localizzazione e ad altre misure di controllo esercitate da terra; gli aerei che
tentino di sottrarsi all’osservanza di simili obblighi si espongono a diverse
sanzioni, come l’essere intercettati in volo ed essere costretti ad atterrare o
addirittura l’essere abbattuti.

Alla navigazione cosmica è applicabile anzitutto, per analogia, il principio sulla


libertà di sorvolo degli spazi nullius: negli spazi cosmici vi è libertà di
navigazione. Lo Stato che lancia il satellite o la nave spaziale ha diritto al

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governo esclusivo di questi ultimi. Non è applicabile invece il principio


dell’estensione della sovranità dello Stato territoriale, non avendo neanche
senso parlare di ‘sorvolo’ del territorio: nella prassi, mai lo Stato che ha lanciato
satelliti si è ritenuto obbligato a richiedere il preventivo assenso di altri Stati.
Fondamentale è il Trattato ONU sui principi relativi alle attività degli Stati in
materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra atmosferico, inclusi la
Luna e gli altri corpi celesti (1967); oltre a confermare che lo spazio extra
atmosferico non è sottoposto alla sovranità di alcuno Stato, ne sancisce la
denuclearizzazione, definisce gli astronauti come “inviati dell’umanità”,
impegnando gli Stati a dar loro assistenza in caso di incidenti, pericolo o
atterraggio di emergenza, prevede la responsabilità dello Stato nazionale e
dello Stato dal cui territorio un oggetto spaziale è lanciato, per i danni procurati
alle attività cosmiche, ed attribuisce allo Stato nel quale l’oggetto è registrato
piena “giurisdizione e controllo” sull’oggetto medesimo. Vige la libertà di
utilizzazione dello spazio a fini di radio e telecomunicazione, libertà che
incontra il consueto limite del rispetto delle pari libertà altrui; tale limite
assume maggior rilievo in presenza di risorse limitate, quali sono lo spettro
delle onde radio e l’orbita geostazionaria (l’orbita circolare intorno
all’equatore, nella quale i satelliti ruotano con lo stesso periodo di rotazione
della terra, restando praticamente fissi rispetto a questa).

37. Le regioni polari.

Come spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato vanno considerate le
regioni polari; circa l’Antartide, può parlarsi di territorio internazionalizzato,
nel senso che in esso non vige solo un regime di libertà ma anche un complesso
di norme che ne disciplina l’utilizzazione; circa l’Artide non sono mancate le
pretese di sovranità basate sulla c.d. teoria dei settori, per la quale gli Stati i cui
territori si estendono al di là del circolo polare dovrebbero considerarsi come
sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi, inclusi in un triangolo avente
il vertice nel Polo Nord e la base in una linea che congiunge i punti estremi delle
coste di ciascuno Stato. La pretese di sovranità sui territori polari sono sempre
state respinte dalla maggioranza degli Stati in quanto non sorrette
dall’effettività dell’occupazione. La mancanza di sovranità territoriale comporta
che ciascuno Stato eserciti il proprio potere sulle comunità che ad esso fanno
capo; circa le comunità navali, si tratta del normale potere dello Stato della
bandiera; nel caso di spedizioni scientifiche o di basi su terraferma, lo Stato che
le organizza esercita il proprio potere su tutte le persone, cittadini o stranieri,
che le compongono (con l’eccezione del personale scientifico scambiato fra le
basi, nonché degli osservatori inviati a controllare il rispetto del Trattato
sull’Antartide, che sono sottoposti ai rispettivi Stati nazionali). L’Antartide è

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stato internazionalizzato con il Trattato di Washington sull’Antartide (1959), di


cui sono Parti contraenti le maggiori Potenze mondiali (fra cui l’Italia e i sette
Paesi rivendicanti la sovranità, i c.d. claimant States: Argentina, Cile, Australia,
Nuova Zelanda, Francia, Gran Bretagna, Norvegia). L’art. IV congela le pretese
alla sovranità, consentendo al regime internazionale di funzionare; le
caratteristiche dell’internazionalizzazione sono: l’interdizione di ogni attività di
carattere militare, in particolare di ogni esperimento nucleare, la libertà di
ricerca scientifica, la cooperazione nell’attività di ricerca. Il Trattato distingue
due categorie di Stati contraenti: le Parti consultive, aventi uno status di netto
privilegio rispetto alle altre, e le Parti non consultive. Le prime, costituite dagli
originari firmatari del Trattato nonché da quegli Stati che “dimostrino il loro
interesse per l’Antartide conducendovi attività sostanziale di ricerca scientifica,
in particolare stabilendovi basi o inviando spedizioni”, hanno il diritto esclusivo
di decidere (all’unanimità ma con effetti vincolanti) su tutte le questioni
rientranti nell’oggetto del Trattato e di condurre ispezioni, su navi, basi,
personale e materiale altrui al fine di controllare l’osservanza del Trattato.
L’Italia ha acquisito lo status di Parte consultiva nel 1987, avendo intrapreso
attività di ricerca scientifica nel Continente. Il regime internazionale
dell’Antartide vincola solo le Parti contraenti: per gli Stati terzi il regime che
vige è soltanto quello di libertà. In alcune risoluzioni prese a maggioranza,
l’Assemblea generale dell’ONU ha dichiarato le risorse del Continente
“patrimonio comune dell’umanità”.

PARTE TERZA

L’APPLICAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI ALL’INTERNO DELLO STATO

38. L’adattamento del diritto statale al diritto internazionale.

L’osservanza del diritto internazionale da parte di uno Stato deve ritenersi


affidata in primo luogo agli operatori giuridici, ed in particolare agli organi
statali: di fronte ai mezzi interni, i mezzi di cui la comunità internazionale
dispone per costringere uno Stato ad osservare il diritto internazionale sono
assai scarsi ed imperfetti. Circa il modo in cui il diritto internazionale viene
nazionalizzato, nel caso del procedimento ordinario l’adattamento avviene
mediante norme statali (costituzionali, legislative, amministrative) che

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riformulano quelle internazionali; nel caso del procedimento speciale (o


procedimento mediante rinvio) gli organi preposti alle funzioni normative si
limitano ad ordinare l’osservanza della o delle norme internazionali medesime;
esempi sono l’art. 101 Cost., che adotta un procedimento speciale di
adattamento a tutte le norme di diritto internazionale generale e quindi alle
norme consuetudinarie, e l’ordine di esecuzione di un trattato, che di solito
viene dato con legge (la stessa che autorizza la ratifica del trattato) e rinvia alle
norme contenute nel trattato medesimo. Dal punto di vista del diritto
internazionale, il procedimento speciale è di gran lunga quello preferibile:
infatti, nel caso del procedimento ordinario, l’interprete si trova davanti ad una
norma che in nulla differisce dalle altre norme statali se non per il motivo che
l’ha ispirata (occasio legis) e potrà tenere conto della norma internazionale solo
se abbia dubbi circa l’esatta interpretazione della medesima; nel caso del
procedimento speciale, è invece l’interprete che deve ricostruire il contenuto
della norma internazionale e che deve stabilire se la norma vige o si sia estinta,
se sia stata illegittimamente emanata o meno (l’interprete potrà sbagliare nella
sua ricostruzione, ma l’errore avrà valore solo per il singolo caso concreto). Il
procedimento ordinario è indispensabile quando la norma internazionale non è
direttamente applicabile (non è self executing). I due procedimenti possono
coesistere: ciò accade quando si dà l’ordine di esecuzione di un trattato e
successivamente si provvede agli atti di integrazione delle norme non self
executing contenute.

Una volta introdotte nell’ordinamento interno, le norme internazionali sono


fonti di diritti ed obblighi per gli organi statali e per tutti i soggetti pubblici e
privati che operano all’interno dello Stato. La nozione di norma non self
executing va rigorosamente circoscritta a tre casi: al caso in cui la norma
attribuisca semplici facoltà agli Stati; al caso in cui una norma, pur imponendo
obblighi, non possa ricevere esecuzione in quanto non esistono gli organi e le
procedure interne indispensabili alla sua applicazione; al caso in cui la sua
applicazione comporti particolari adempimenti di carattere costituzionale (ad
es. norme che comportano oneri finanziari straordinari o norme a contenuto
penalistico). È da censurare il comportamento di molti Paesi che, per non
applicare norme ‘indesiderate’, qualificano come non self executing le norme
di una convenzione (come ha fatto, ad es., la Germania per escludere la diretta
applicabilità delle norme del GATT); così come è da respingere l’opinione che
un trattato non sia self executing se prevede che, in caso di difficoltà
nell’applicazione, debba farsi ricorso a procedure di conciliazione: dal che
dovrebbe dedursi la ‘flessibilità’ delle sue disposizioni. In realtà, in casi del
genere, lo Stato contraente può adottare misure non conformi al trattato ma,
finché esse non siano prese, il trattato deve ricevere applicazione all’interno

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dello Stato. Neppure può ritenersi che costituisca un impedimento alla diretta
applicabilità di un trattato il fatto che questo contenga una clausola di
esecuzione (clause of implementation), ossia preveda che gli Stati contraenti
adotteranno tutte le misure di ordine legislativo o altro per dare effetto alle sue
disposizioni.

Il rango che assumono le norme internazionali introdotte nella gerarchia delle


fonti interne tende a corrispondere alla forza che, nella gerarchia delle fonti, ha
il procedimento, ordinario o speciale, di adattamento. Se a procedere
all’adattamento è il Costituente (come avviene per il diritto internazionale
generale ad opera dell’art. 101 Cost.), le norme internazionali così introdotte
avranno rango costituzionale; se a procedere all’adattamento è il legislatore
ordinario (come avviene per i trattati), le norme internazionali così introdotte
avranno rango di legge ordinaria; e così via.

39. L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario.

L’adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello


costituzionale, grazie all’art. 101 Cost., secondo cui “L’ordinamento giuridico
italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute”. È dunque previsto un procedimento di adattamento speciale o
mediante rinvio. Il Costituente ha voluto rimettere in tutto e per tutto
all’interprete interno la rilevazione e l’interpretazione del diritto
internazionale generale, limitandosi ad affermare la propria volontà che
l’adattamento sia automatico, cioè completo e continuo: le norme
internazionali generali valgono all’interno dello Stato se e finché vigono
nell’ambito della comunità internazionale. Tali norme si situano ad un livello
superiore alla legge ordinaria che, pertanto, risulterà costituzionalmente
illegittima, in quanto violerà indirettamente l’art. 10 Cost., se contraria al
diritto internazionale consuetudinario. Si ritiene che, prescrivendo l’art. 101
Cost. l’adattamento “dell’ordinamento giuridico italiano” al diritto
internazionale generale, esso intenda escludere che il diritto consuetudinario
sia subordinato al diritto costituzionale; con la conseguenza che il primo
prevarrà sul secondo a titolo di diritto speciale (concetto di specialità del diritto
internazionale rispetto al diritto interno). In ogni caso, lo stesso art. 10 Cost., se
interpretato sistematicamente, contiene una clausola implicita di salvaguardia
dei valori fondamentali che ispirano la nostra Costituzione: l’art. 10 Cost. non
può né vuole dare un’esecuzione del diritto consuetudinario all’interno dello
Stato spinta fino al limite di rottura con quei valori.

40. L’adattamento ai trattati e alle fonti derivate dai trattati.

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La nostra Costituzione non contiene una norma generale che preveda


l’adattamento ai trattati e alle fonti da essi derivate. L’adattamento alle norme
pattizie internazionali avviene con un atto ad hoc relativo ad ogni singolo
trattato, l’ordine di esecuzione, il quale è un procedimento speciale o di
rinvio; esso si esprime solitamente con la formula “Piena ed intera esecuzione è
data al Trattato X…” ed è accompagnato dalla riproduzione del testo
dell’accordo. È dato di solito con legge ordinaria, ma può essere dato anche
con atto amministrativo quando l’accordo riguarda materie regolabili
discrezionalmente dalla Pubblica Amministrazione. Normalmente è la stessa
legge che, ai sensi dell’art. 80 Cost., autorizza la ratifica del trattato da parte del
Capo dello Stato, contiene l’ordine di esecuzione. La giurisprudenza è unanime
nel ritenere che, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non abbia valore
per l’ordinamento interno, ma può essergli assegnata una funzione ausiliaria
sul piano interpretativo: può essere invocato per dare alle norme interne
un’interpretazione il più possibile ad esso conforme.

Le norme convenzionali così introdotte nell’ordinamento italiano hanno un


rango pari alla posizione che nel sistema delle fonti occupa l’atto normativo in
cui l’ordine di esecuzione è contenuto. Fino all’entrata in vigore della L. cost. n.
3/2001, che ha modificato il Titolo V della Parte II della Costituzione, doveva
ritenersi che i rapporti fra le norme convenzionali immesse e le norme delle
altre leggi ordinarie fossero rapporti fra norme di pari rango (regolati quindi dai
principi per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore e la legge speciale
prevale sulla legge comune); l’art. 3 di suddetta legge stabilisce invece che la
legislazione statale deve esercitarsi “nel rispetto…dei vincoli…internazionali”,
sancendo così una preminenza degli obblighi internazionali sulla legislazione
ordinaria. Deve dunque ritenersi viziata da illegittimità costituzionale la legge
ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato. L’intervento della
Corte costituzionale, alla luce dell’art. 3, non può che essere, comunque,
eccezionale, giacché la prevalenza del trattato sulle leggi interne anche
posteriori va attuata anzitutto sul piano interpretativo. A tal fine è utilizzato lo
strumento della presunzione di conformità delle norme interne al diritto
internazionale, criterio in base la quale si ritiene che, se la legge posteriore è
ambigua, essa vada interpretata in modo da consentire allo Stato il rispetto
degli obblighi internazionali assunti in precedenza. Un altro criterio consiste nel
considerare il trattato come diritto speciale ratione materiae o personarum. Vi
è infine il criterio, seguito dalla Corti americane e svizzere, secondo cui la legge
posteriore prevale solo se vi è una chiara indicazione della volontà del
legislatore di contravvenire al trattato, solo se, in altri termini, il legislatore
contravviene con piena coscienza di causa: occorre che la norma posteriore

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intenda ripudiare gli impegni internazionali già contratti. Il trattato


internazionale, una volta introdotto nell’ordinamento interno, prevale dunque
finché non si dimostri la volontà del legislatore di venir meno agli impegni
internazionali; questo principio di carattere interpretativo è un principio di
specialità sui generis, di una specialità che non va confusa con quella ratione
materiae o ratione personarum: la specialità consiste nel fatto che la norma
internazionale è sorretta non solo dalla volontà che certi rapporti siano regolati
in un certo modo, quanto dalla volontà che tali obblighi siano rispettati.

La Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso a trattati riguardanti la


materia costituzionale, ed in particolare alle convenzioni internazionali sui
diritti dell’uomo, come ausilio interpretativo di singoli articoli della
Costituzione. Ad es. la sent. n. 168/94 dichiara incostituzionali gli artt. 17 e 22
c.p. nella parte in cui non prevedono l’esclusione della pena dell’ergastolo per i
minori, in quanto contrari all’art. 312 Cost., secondo cui “[la Repubblica]
protegge…l’infanzia…e la gioventù…”: la Corte interpreta tale comma alla luce
della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (esecutiva in Italia dal
1991) che dispone che “…né la pena capitale né l’imprigionamento a vita senza
possibilità di rilascio possono essere decretati per reati commessi da persone di
età inferiore ai diciotto anni…”.

Circa il problema se l’ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di


un’organizzazione internazionale implichi l’adattamento alle decisioni delle
organizzazioni vincolanti per il nostro Stato, può darsi anzitutto che il trattato
preveda espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi
all’interno degli Stati membri (tale caso si verifica solo con riguardo ai
regolamenti delle Comunità europee). Quando il trattato istitutivo
dell’organizzazione nulla dispone in materia, il problema va risolto alla luce del
diritto interno: la prassi italiana è orientata nel senso dell’adozione di singoli
atti di esecuzione per ciascuna decisione vincolante di un organo
internazionale; tali atti consistono talvolta in una legge, ma il più spesso in
decreti legislativi o in regolamenti amministrativi. Tale prassi non è comunque
decisiva per concludere che, prima dell’emanazione degli specifici atti di
adattamento, le decisioni degli organi internazionali non abbiano valore per
l’ordinamento italiano: l’ordine di esecuzione del trattato istitutivo di una
determinata organizzazione, in quanto copre anche la parte del trattato che
prevede la competenza di quella organizzazione ad emanare decisioni
vincolanti, già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica interna.
L’emanazioni di singoli atti di adattamento serve ad integrare il contenuto non
sempre autosufficiente (non sempre self executing) della decisione

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internazionale, ma per quanto riguarda la forza formale delle decisioni, detta


emanazione è superflua.

Ad un particolare regime è sottoposta in Italia l’attuazione delle decisioni del


Consiglio di Sicurezza, che sono adottate in base all’art. 41 della Carta ONU e
che prevedono misure di carattere economico, come l’interruzione totale o
parziale dei rapporti commerciali e simili. Nella materia si è radicata la
competenza della Comunità europea che provvede all’esecuzione di dette
decisioni mediane regolamenti; dato che questi sono direttamente applicabili,
l’intervento degli organi italiani è limitato al caso in cui occorra colmare lacune
nella normativa comunitaria (ad es. la mancanza di sanzioni amministrative o
penali nei confronti di chi violi la decisione).

41. L’adattamento al diritto comunitario.

Ai trattati istitutivi delle Comunità europee e agli accordi successivi che li hanno
modificati o integrati, nonché al trattato sull’Unione europea, l’ordinamento
italiano si è conformato, come per qualsiasi altro trattato, con un normale
ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. Sotto la spinta della Corte di
Giustizia delle Comunità si è arrivati ad assicurare al diritto comunitario una
prevalenza sulle norme nazionali: in Italia si è fatto leva sull’art. 11 Cost.,
secondo cui l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo”.

Al Trattato CE si è dato esecuzione con legge. Per effetto dell’ordine di


esecuzione hanno acquistato forza giuridica non solo le norme del Trattato, ma
automaticamente acquistano la stessa forza, via via che vengono emanate, le
norme dei regolamenti comunitari, che sono direttamente applicabili ex art.
249 del Trattato. Tale diretta ed automatica applicabilità dei regolamenti
riguarda la loro forza formale: tutti acquistano tale forza e possono creare
diritti ed obblighi all’interno del nostro Stato indipendentemente da
provvedimenti di adattamento ad hoc; alcuni di essi tuttavia, non essendo self
executing, per quanto riguarda il loro contenuto, abbisognano, per poter
produrre i loro effetti, di atti statali esecutivi o integrativi. Prescrivendo l’art.
249 del Trattato CE la diretta applicabilità dei soli regolamenti, le direttive e le
decisioni necessitano in ogni caso di atti di adattamento ad hoc. Nella prassi,
simili atti possono assumere la veste della legge, del decreto legislativo, del
decreto legge o dell’atto amministrativo; di solito si segue il procedimento
ordinario e la norma viene integralmente riformulata. La materia è stata per

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molti anni disciplinata dalla L. n. 86/89, la c.d. legge La Pergola, ed è ora


regolata dalla L. n. 11/2005: si prevede che entro il 31 gennaio di ogni anno il
Governo presenti alle Camere un progetto di legge “disposizioni per
l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle
Comunità europee”, la c.d. legge comunitaria. È da escludere che le direttive e
le decisioni siano del tutto inapplicabili prima ed indipendentemente dai
provvedimenti interni che le eseguono: l’art. 249 sancisce l’obbligatorietà
anche per questi due tipi di atti. Dunque, regolamenti, direttive e decisioni
sono tutti sullo stesso piano per quanto concerne la loro diretta applicabilità;
l’emanazione di atti interni di esecuzione è necessaria solo quando il
regolamento, la direttiva o la decisione sono incompleti; la direttiva, essendo
incompleta per definizione, può produrre immediatamente solo gli effetti
conciliabili con l’obbligo di risultato. Secondo la Corte, gli effetti diretti delle
direttive sono essenzialmente da riportare a tre ipotesi: (a) quando i giudici
interni sono chiamati ad interpretare norme nazionali disciplinanti materie
oggetto di una direttiva comunitaria, tale interpretazione deve avvenire alla
luce della lettera e dello scopo della direttiva medesima; (b) allorché la direttiva
chiarisce la portata di un obbligo già previsto dal Trattato, la sua
interpretazione può considerarsi vincolante; (c) allorché la direttiva impone allo
Stato un obbligo, sia pure di risultato, ma non implicante necessariamente
l’emanazione di atti di esecuzione ad hoc, gli individui possono invocarla
innanzi ai giudici nazionali per far valere gli effetti che essa si propone. Secondo
la Corte, però, imponendo la direttiva ex art. 189 del Trattato CE, obblighi allo
Stato, essa può essere invocata solo contro lo Stato (c.d. effetti verticali) e non
anche nelle controversie degli individui fra loro (c.d. effetti orizzontali). La
Corte ha stabilito che, nel caso di direttive che stabiliscono un termine per loro
trasposizione nel diritto interno, lo Stato, che non ha vincoli fino alla scadenza
del termine, ha però l’obbligo di non adottare disposizioni che possano
compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva. L’efficacia
diretta è stata riconosciuta dalla Corte comunitaria anche alle decisioni
indirizzate agli Stati. Nel caso di direttive non direttamente applicabili che
restino inattuate, i singoli possono richiedere il risarcimento del danno che
derivi dalla mancata attuazione, purché si tratti di direttive che attribuiscano
loro dei diritti; ciò si ricaverebbe dall’art. 10 del Trattato CE, in base al quale gli
Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie per l’esecuzione
degli obblighi comunitari.

Negli ordinamenti degli Stati membri deve riconoscersi efficacia diretta anche
agli accordi conclusi dalla Comunità con Stati terzi, sempre che tali accordi
contengano norme incomplete, ossia norme che non siano destinate ad essere
completate da atti degli organi comunitari; il Trattato CE, cui l’ordinamento

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italiano si è adattato, prevede che gli accordi stipulati dalla Comunità siano
vincolanti “per le istituzioni comunitarie e per gli Stati membri”. Non hanno
invece efficacia diretta le decisioni quadro e neppure le decisioni, categorie di
atti che sono adottati dall’Unione europea nell’ambito della cooperazione di
polizia e giudiziaria in materia penale.

Circa il rango delle norme comunitarie, con la sent. n. 170/84, la Corte


costituzionale ha ritenuto che il diritto comunitario direttamente applicabile
prevalga sulle leggi interne, sia anteriori che posteriori, e qualsiasi giudice od
organo amministrativo deve disapplicare le leggi dello Stato nel caso di
conflitto: tutto ciò discenderebbe dall’art. 11 Cost. La tesi affermata dalla Corte
in precedenza (sent. n. 232/75) era che le leggi contrarie a norme comunitarie
direttamente applicabili concretassero una violazione indiretta dell’art. 11 Cost.
e fossero pertanto costituzionalmente illegittime. La tesi fu fortemente
osteggiata dalla Corte comunitaria e criticata per i suoi effetti paralizzanti: di
fronte ad una norma di legge interna incompatibile con un regolamento
comunitario, gli operatori giuridici interni non avrebbero potuto applicare la
normativa comunitaria prima che la legge fosse annullata dalla Corte. La Corte
di Giustizia delle Comunità europee, nella sent. Simmenthal (1978), aveva
sostenuto che gli atti legislativi interni contrari al diritto comunitario
dovrebbero addirittura considerarsi come “non validamente formati” e ciò
spiega la possibilità di disapplicarli automaticamente, ossia senza ricorrere
all’intervento degli organi di giustizia costituzionale. Nella sent. n. 170/84, la
Corte costituzionale respinge espressamente la tesi dell’invalidità, la quale, a
suo avviso, presupporrebbe un rapporto di tipo federalistico tra diritto interno
e diritto comunitario, ma arriva anch’essa al risultato dell’automatica
disapplicabilità della norma interna difforme ad opera del giudice comune,
attraverso la tesi dell’inoccupabilità, da parte del diritto interno, dello spazio
concesso al diritto comunitario. Alla luce di quel principio di specialità
nell’interpretazione dei trattati, il trattato o singole sue clausole non possono
mai considerarsi abrogati o derogati per incompatibilità da leggi interne
successive, l’abrogazione o la deroga potendo derivare solo da una volontà del
legislatore diretta a sospendere totalmente o parzialmente l’adempimento
degli obblighi assunti dallo Stato sul piano internazionale: l’applicazione del
diritto comunitario è assicurata dall’interprete.

La Corte di Giustizia delle Comunità europee ha ritenuto che la tutela dei diritti
fondamentali dell’individuo, ancorché non espressamente prevista dai Trattati
comunitari, non sia estranea al diritto comunitario, che quivi essa sia rilevabile
per sintesi tenendo presenti le “tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri” nonché le convenzioni sui diritti umani vincolanti tali Stati, e che a

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siffatta sintesi debba procedere essa Corte nella funzione di controllo del
rispetto del diritto comunitario; tale prassi della Corte ha trovato esplicito
riconoscimento nel Trattato di Maastricht. Un importante strumento cui la
Corte può fare riferimento è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea (2000), solennemente proclamata a Nizza dal Consiglio dell’Unione,
ma priva di forza vincolante: è da considerare come una sorta di Dichiarazione
di principi a livello regionale. La Corte costituzionale italiana, dopo una certa
cautela iniziale, con la sent. n. 183/73, ha stabilito che l’ordine comunitario e
l’ordine interno costituiscono due sistemi distinti e separati anche se coordinati
fra loro; che le norme comunitarie “debbono avere piena efficacia obbligatoria
e diretta applicazione in tutti gli Stati membri”; che l’ordinamento comunitario
risulta caratterizzato da un proprio complesso di garanzie statutarie e da un
proprio sistema di tutela giuridica; che, appartenendo i regolamenti
all’autonomo ordinamento della Comunità, essi si sottraggono al controllo di
costituzionalità, controllo limitato dall’art. 134 Cost. alle leggi e agli atti aventi
forza di legge dello Stato e delle Regioni. Simile evoluzione ha subito la
giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca: questa, dopo aver più volte
dichiarato di non voler rinunciare alla sua funzione di garante del rispetto dei
diritti fondamentali in Germania neppure in ordine agli atti comunitari, ha
cambiato idea con la c.d. decisione Solange II (1986), nella quale ha promesso
che non controllerà più la legislazione comunitaria “fintantoché la Corte di
Giustizia delle Comunità europee assicurerà in linea generale una protezione
effettiva dei diritti fondamentali”. Entrambe le Corti hanno poi ripreso una
certa distanza dalla Corte comunitaria; la prima, nella sent. n. 232/89, si è
riservata la possibilità di “verificare…se una qualsiasi norma del Trattato CE,
così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi
comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona
umana”; la seconda, in un’ordinanza (1989), si è riservata di intervenire nei casi
in cui non sia assicurato “…lo standard di protezione dei diritti umani
considerato come irrinunciabile dalla Legge Fondamentale”.

42. L’adattamento al diritto internazionale e le competenze delle Regioni.

La grande maggioranza della dottrina è sostanzialmente d’accordo nel ritenere


che ad immettere il diritto internazionale nel nostro ordinamento debba essere
il Potere centrale. Tale opinione trova conferma espressa nella Costituzione per
quanto riguarda il diritto consuetudinario (art. 101); circa i trattati, la medesima
opinione trova conferma nella prassi dell’ordine di esecuzione dato con legge
ordinaria. Né cambia la prospettiva l’art. 3 della L. cost. n. 3/2001, modificante

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l’art. 117 Cost., che prevede che “Le Regioni…nelle materie di loro
competenza…provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi
internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio
del potere sostitutivo in caso di inadempienza”; la disposizione può essere
riferita alle competenze in materia di esecuzione delle norme internazionali e
comunitarie che le Regioni hanno sì il diritto di esercitare in piena autonomia,
ma una volta che queste siano state formalmente introdotte nell’ordinamento
interno.

Pacifico è il principio del rispetto, da parte della Regione, degli obblighi


internazionali; tale principio è espressamente sancito in taluni Statuti regionali
ed è stato considerato come implicito, anche negli Statuti che non ne fanno
menzione, dalla Corte costituzionale. Oggi è sancito dalla L. cost. n. 3/2001 che,
all’art. 3, obbliga il legislatore regionale al rispetto dei “vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Agli inizi degli anni Settanta, legislatore e Corte costituzionale muovevano


dall’idea che tutto ciò che riguardasse l’applicazione del diritto internazionale e
del diritto comunitario, rientrando nella materia ‘affari esteri’, fosse di esclusiva
competenza dello Stato; se tale competenza non fosse esistita, lo Stato, non
disponendo in base alla Costituzione di strumenti che gli consentissero di
sostituirsi alle Regioni in caso di inerzia di queste ultime, avrebbe rischiato di
essere chiamato a rispondere nei confronti degli altri Stati per omissioni non
sue e non da esso eliminabili. Per evitare che le Regioni fossero spogliate delle
loro attribuzioni in determinate materie, esse avrebbero dovuto partecipare
all’attuazione del diritto internazionale o comunitario solo mediante strumenti,
come la delega da parte degli organi centrali, che comunque garantissero allo
Stato le facoltà di controllo e di sostituzione. La Corte ha poi finito col
riconoscere la competenza autonoma ed originaria delle Regioni a
partecipare, per le materie rientranti nelle loro attribuzioni, all’attuazione del
diritto internazionale nonché del diritto comunitario direttamente applicabile;
d’altro canto ha però continuato a fondarsi sul limite del rispetto degli obblighi
internazionali e comunitari per dedurne il potere dello Stato di sostituirsi alle
Regioni, quando si tratta di assicurare il puntuale adempimento degli obblighi
medesimi. Essa non ha limitato il potere sostitutivo dello Stato al solo caso di
inerzia delle Regioni, ma lo ha esteso senza ben definire i suoi confini (ad es. in
caso di “urgenza”, o per “esigenze di uniformità sorrette dall’interesse
nazionale”, o per non meglio precisate “finalità attuative”). L’art. 3 della L. cost.
n. 3/2001 demanda alla legge dello Stato il compito di disciplinare le modalità
del potere sostitutivo in caso di inadempienza delle Regioni; l’art. 6 specifica

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che il potere sostituivo del Governo si esercita “…nel caso di mancato rispetto
di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di
pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo
richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” e
che la legge deve definire “le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi
siano esercitati nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale
collaborazione”.

PARTE QUINTA

LA VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI E LE SUE CONSEGUENZE

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43. Il fatto illecito e i suoi elementi costitutivi: l’elemento soggettivo.

Al tema della responsabilità degli Stati la dottrina ha dedicato approfondite


indagini fin dall’inizio del XX secolo. Dal 1953 la Commissione di diritto
internazionale delle Nazioni Unite ha intrapreso lo studio dell’argomento. Nel
1980 essa approvò, in prima lettura, la prima parte di un progetto di articoli che
si occupava dell’origine della responsabilità, ossia degli elementi dell’illecito
internazionale. Il progetto definitivo (Progetto di articoli sulla responsabilità
degli Stati per atti illeciti internazionali) ha visto la luce nell’agosto 2001: esso
si occupa, in 59 articoli, sia degli elementi sia delle conseguenze dell’illecito.
Cautamente la Commissione raccomanda all’Assemblea generale dell’ONU di
prenderne per ora soltanto atto e di considerarne l’eventuale trasfusione in
una convenzione di codificazione. Il Progetto considera i principi sulla
responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di qualsiasi
norma internazionale: tutti i precedenti tentativi di codificazione si erano
limitati ad esaminare la responsabilità nel quadro delle norme sul trattamento
degli stranieri; solo in tema di responsabilità dello Stato per danni arrecati agli
stranieri nel suo territorio esisteva, infatti, ed esiste una prassi omogenea.

Data la coincidenza tra lo Stato come soggetto di diritto internazionale e lo


Stato organizzazione, è ovvio che il fatto illecito consista anzitutto in un
comportamento di uno o più organi statali, fra cui coloro che partecipano
dell’esercizio del potere di governo. Il Progetto, dopo aver indicato all’art. 2
come elementi del fatto illecito un comportamento (azione od omissione) (a)
attribuibile allo Stato e (b) consistente in una violazione di un obbligo
internazionale dello Stato, specifica all’art. 4 che il primo elemento (elemento
soggettivo) consiste nel comportamento di qualsiasi organo dello Stato
(legislativo, esecutivo o giudiziario), del governo centrale o di un ente
territoriale. Orbene, la violazione di norme internazionali attraverso la semplice
emanazione di leggi o di altre norme a portata astratta è scarsamente
ipotizzabile; il contenzioso internazionale è, del resto, un contenzioso che ha
sempre per oggetto questioni concrete.

Una questione discussa è se le responsabilità dello Stato sorga quando l’organo


abbia commesso un’azione internazionalmente illecita avvalendosi di tale sua
qualità, agendo dunque nell’esercizio delle sue funzioni, ma al di fuori dei limiti
della sua competenza. La questione attiene ai soli illeciti commissivi e riguarda
essenzialmente azioni illecite condotte da organi di polizia in violazione del
proprio diritto interno e contrari agli ordini ricevuti. Secondo l’art. 7 del
Progetto, tali azioni sarebbero comunque attribuibili allo Stato per il fatto che
l’organo ha esorbitato dai limiti di sua competenza; per molti autori, l’azione in

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quanto tale resterebbe invece propria dell’individuo o degli individui che


l’hanno compiuta e l’illecito dello Stato consisterebbe nel non aver preso
misure idonee ad impedirla. Più aderente alla prassi è la prima ipotesi.

Resta esclusa la responsabilità dello Stato per atti di privati che arrechino danni
ad individui, organi o Stati stranieri. A configurare una responsabilità dello
Stato in questi termini perveniva la vecchia teoria germanica della solidarietà
del gruppo, in base alla quale il gruppo doveva ritenersi come responsabile per
le azioni dannose dei suoi membri. La teoria fu già abbandonata da Grozio a
favore della dottrina della ‘patientia’ e del ‘receptus’ limitante la responsabilità
dello Stato ai soli casi di tolleranza delle, o di complicità con le, azioni compiute
da privati nel proprio territorio. Oggi dottrina e prassi sono concordi nel
ritenere che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure
atte a prevenire l’azione o a punirne l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi
organi.

44. (Segue). L’elemento oggettivo.

L’art. 12 del Progetto definisce lapalissianamente l’elemento oggettivo


dell’illecito, dichiarando che “si ha violazione di un obbligo internazionale da
parte di uno Stato quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò che gli è
imposto dal predetto obbligo”. L’art. 13 contiene la regola tempus regit actum,
ossia prevede che l’obbligazione debba esistere al momento in cui il
comportamento dello Stato è tenuto. È poi importante la determinazione del
tempus commissi delicti, soprattutto in relazione all’interpretazione dei trattati
di arbitrato e di regolamento giudiziario, trattati che di solito dichiarano di non
volersi applicare alle controversie relative a fatti avvenuti prima della loro
entrata in vigore o comunque prima di une certa data (c.d. data critica).

All’elemento oggettivo dell’illecito internazionale attengono le cause


escludenti l’illiceità. 1) Consenso dello Stato leso; l’art. 20 del Progetto
afferma che “Il consenso validamente dato da uno Stato alla commissione da
parte di un altro Stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale fatto nei
confronti del primo Stato, sempre che il fatto medesimo resti nei limiti del
consenso”; tale consenso non configura un accordo, ma è sostanzialmente un
atto unilaterale, che non può violare una norma imperativa, essendo assoluta
l’inderogabilità dello jus cogens. 2) Autotutela. È costituita da quelle azioni
rivolte a reprimere l’illecito altrui e che, per tale funzione, non possono essere
considerate antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme
internazionali; il Progetto prevede la legittima difesa e le contromisure

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(rappresaglie). 3) Forza maggiore. È il verificarsi di una forza irresistibile o di un


evento imprevisto, al di là del controllo dello Stato, che rende materialmente
impossibile adempiere l’obbligo. 4) Stato di necessità. L’aver commesso il fatto
per evitare un pericolo grave, imminente e non volontariamente causato, è
controverso se possa essere invocato come circostanza che escluda l’illiceità; la
necessità può essere sicuramente invocata quando il pericolo riguardi la vita
dell’individuo organo che abbia commesso l’illecito o degli individui a lui
affidati (c.d. distress), ad es. la nave che si rifugia nel porto straniero senza
autorizzazione dello Stato costiero per sfuggire alla tempesta; è incerto invece
se la necessità possa essere invocata riguardo allo Stato nel suo complesso;
l’art. 25 del Progetto si pronuncia in senso favorevole: “1. Lo Stato non può
invocare lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità di un atto
non conforme ad un obbligo internazionale se non quando l’atto: (a) costituisca
l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave
ed imminente; e (b) non leda gravemente l’interesse essenziale dello Stato o
degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste, oppure della comunità
internazionale nel suo complesso. 2. In ogni caso la necessità non può essere
invocata se: (a) l’obbligo internazionale in questione esclude la possibilità di
invocare la necessità; o (b) lo Stato ha contribuito al verificarsi della situazione
di necessità”; la prassi è incerta e non ha mai chiarito in che cosa esattamente
consista la natura vitale o essenziale di un interesse dello Stato; va detto che,
una volta bandito dal diritto internazionale cogente l’uso della forza in tutte le
sue manifestazioni, inclusi i c.d. interventi umanitari o a protezione dei propri
cittadini all’estero, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si riducono a nulla.
5) Raccomandazioni. Le raccomandazioni degli organi internazionali producono
il c.d. effetto di liceità. 6) Rispetto dei principi costituzionali dello Stato. Può
sostenersi che l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma
internazionale, sempre che non si tratti di una norma di jus cogens, urti contro i
principi fondamentali della Costituzione dello Stato; ad es. la Corte
costituzionale italiana ha talvolta annullato le norme interne di esecuzione di
norme internazionali pattizie (in tema di estradizione per reati punibili
all’estero con la pena di morte, in tema di limitazione della responsabilità del
vettore) contrarie a principi costituzionali, mettendo quindi gli organi dello
Stato nell’impossibilità di osservare le norme medesime; l’art. 32 del Progetto
esclude invece che il diritto interno possa avere influenze sull’esclusione
dell’illecito internazionale.

45. (Segue). Gli elementi controversi: la colpa e il danno.

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Circa la colpa, possono distinguersi tre tipi di responsabilità. Anzitutto vi è la


responsabilità per colpa, che si ha quando si richiede cha l’autore dell’illecito
abbia commesso quest’ultimo intenzionalmente (dolo) o almeno con
negligenza (colpa in senso stretto, lieve o grave); questi sono i connotati tipici
della responsabilità extracontrattuale o aquiliana. Vi è poi la responsabilità
oggettiva relativa (strict liability) che sorge per effetto del solo compimento
dell’illecito; l’autore di quest’ultimo può invocare, per sottrarsi alla
responsabilità, una causa di giustificazione consistente in un evento esterno
che gli ha reso impossibile il rispetto della norma (forza maggiore, impossibilità
della prestazione e simili); vi è uno spostamento dell’onere della prova dalla
vittima all’autore dell’illecito. Vi è infine la responsabilità oggettiva assoluta
che, oltre a sorgere automaticamente dal comportamento contrario ad una
norma giuridica, non ammette alcuna causa di giustificazione; è prevista in
relazione ai danni da attività pericolose o socialmente dannose ed è spesso
collegata a sistemi di assicurazione obbligatoria. Per molto tempo, sulle orme di
Grozio ed in omaggio alla tradizione romanistica, la responsabilità dello Stato fu
configurata come responsabilità per colpa: perché sorgesse la responsabilità, il
comportamento dell’organo statale doveva essere intenzionale o frutto di
negligenza. Agli inizi del XX secolo Anzillotti sostenne la natura oggettiva
relativa della responsabilità internazionale e la dottrina, da allora, si è divisa.

Il regime di responsabilità può anzitutto risultare specificamente previsto in


relazione alla violazione di una determinata norma o di un determinato gruppo
di norme: ad es. la violazione del dovere di protezione degli stranieri o degli
organi stranieri dà luogo ad una responsabilità per colpa, consistendo tale
violazione proprio nella circostanza che lo Stato non abbia usato la dovuta
diligenza nella protezione. Un regime di responsabilità assoluta risulta invece
dalle norme sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti
spaziali. A parte i regimi specifici, sia consuetudinari che convenzionali, il
regime residuale, valido cioè in tutti gli altri casi, è quello di responsabilità
oggettiva relativa: lo Stato risponde di qualsiasi violazione del diritto
internazionale da parte dei suoi organi, purché non dimostri l’impossibilità
assoluta, ossia da lui non provocata, dell’osservanza dell’obbligo. Il Progetto
non dedica alla colpa alcun articolo; ma dalla circostanza che la colpa non è
menzionata, all’art. 2, come elemento dell’illecito internazionale e dalla
circostanza che l’art. 23 considera la forza maggiore come causa di esclusione
dell’illiceità, può dedursi che il regime della responsabilità oggettiva relativa sia
considerato dalla Commissione come il regime generale applicabile.

Il danno, sia materiale che morale, e dunque la lesione di un interesse diretto e


concreto dello Stato nei confronti del quale l’illecito è perpetrato, non è, per la

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Commissione, elemento dell’illecito. L’inosservanza di determinate norme, ad


es. di quelle che obbligano lo Stato a tutelare i diritti umani dei propri cittadini
o della norma sul divieto dell’uso della forza, da parte di uno dei loro
destinatari è sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri anche quando
un interesse diretto e concerto di questi ultimi non sia leso.

46. Le conseguenze del fatto illecito internazionale. L’autotutela individuale e


collettiva.

Le conseguenze dell’illecito consistono in una nuova relazione giuridica fra


Stato offeso e Stato offensore, discendente da una norma apposita, la c.d.
norma secondaria contrapposta alla norma primaria, ossia alla norma violata.
Circa i contenuti da dare a siffatta relazione, secondo Anzillotti, le conseguenze
del fatto illecito consisterebbero unicamente nel diritto dello Stato offeso di
pretendere, e nell’obbligo dello Stato offensore di fornire, un’adeguata
riparazione: questa comprenderebbe sia il ripristino dello status quo antea
(restitutio in integrum) sia il risarcimento del danno oppure, nel caso di danno
immateriale, la ‘soddisfazione’ (presentazione ufficiale di scuse, omaggi alla
bandiera dello Stato offeso, ecc.).

Sviluppo di detto schema è la tendenza a riportare sotto la norma secondaria, e


quindi fra le conseguenze autonome dell’illecito, anche i mezzi di autotutela e,
in particolare, le rappresaglie (o contromisure): dal fatto illecito discenderebbe
per lo Stato offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il diritto di ricorrere
a contromisure coercitive (non necessariamente implicanti l’uso della forza,
oggi in massima parte vietato) aventi lo scopo di infliggere una punizione allo
Stato offensore.

Kelsen critica la tesi anzillottiana, sostenendo l’inutilità della costruzione delle


conseguenze dell’illecito in termini di diritti e obblighi, costruzione che
condurrebbe poi ad un regressus ad infinitum, dato che la violazione
dell’obbligo di riparazione, costituendo a sua volta un fatto illecito,
produrrebbe a sua volta l’obbligo di riparare, e così via. Per Kelsen l’illecito
avrebbe, invece, come unica ed immediata conseguenza il ricorso alle misure di
autotutela (rappresaglia e guerra), mentre la riparazione sarebbe soltanto
eventuale e dipenderebbe dalla volontà dello Stato offeso e dello Stato
offensore di evitare l’uso della coercizione. Le misure di autotutela non
costituirebbero oggetto di un rapporto fra Stato offeso e Stato offensore, non
sarebbero inquadrabili come diritto del primo ad esercitarle e obbligo del
secondo a subirle, ma avrebbero natura di azione coercitiva. È innegabile che la

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fase patologica del diritto internazionale sia una fase assai poco normativa e sia
caratterizzata da reazioni contro l’illecito che non hanno lo scopo di punire
(anche se tale scopo non è ad esse del tutto estraneo), ma sono
fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato, ossia a far
cessare l’illecito e cancellarne, ove possibile, gli effetti. Non sorge un nuovo
rapporto, facente capo ad una nuova norma, dal fatto illecito: l’obbligo per lo
Stato offensore di porre fine all’illecito e di cancellarne gli effetti è l’obbligo
previsto dalla stessa norma violata (la norma primaria) e il diritto di esercitare
l’autotutela non è altro che la sanzione (in senso lato) che sia accompagna alla
norma medesima. Kelsen sbaglia però quando considera l’unica forma di
riparazione avente rilevanza pratica, il risarcimento del danno, come fondata su
un accordo tra gli Stati interessati (ciò è vero solo per la c.d. ‘soddisfazione’):
essa è prevista da un’autonoma norma di diritto internazionale.

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si è fatta strada l’opinione,
espressa anche dalla Corte Internazionale di Giustizia, secondo cui l’autotutela
non possa consistere nella minaccia o nell’uso della forza, minaccia ed uso
essendo vietati dall’art. 2, par. 4, della Carta ONU e dallo stesso diritto
internazionale consuetudinario (come affermato nella sent. Attività militari e
paramilitari in e contro il Nicaragua del 1986, tra Nicaragua e Stati Uniti). Il
principio che vieta il ricorso alla forza ha carattere cogente, ma trova un limite
generale nella legittima difesa, intesa come risposta ad un attacco armato già
sferrato. L’art. 51 della Carta, altra norma che la Corte Internazionale di
Giustizia ha ritenuto corrispondente al diritto consuetudinario, riconosce infatti
“il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva nel caso che abbia
luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”.

Attacco o aggressione si ha anche quando lo Stato agisce attraverso bande


irregolari o di mercenari da esso assoldati. La Corte ha affermato che non
costituisce aggressione armata la sola assistenza data a forze ribelli che
agiscono sul territorio di uno Stato, sotto forma di fornitura di armi, assistenza
logistica e simili. La legittima difesa ex art. 51 può essere esercitata anche con
armi nucleari, purché nel rispetto del principio di proporzionalità della risposta
rispetto all’attacco e del diritto umanitario di guerra.

Oltre all’eccezione ex art. 51 della Carta ONU, vi è chi sostiene che interventi
armati siano ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all’estero o
per impedire che certi Stati commettano violazioni gravi dei diritti umani nei
confronti dei loro stessi cittadini. Vi è anche chi sostiene l’estensione della
categoria della legittima difesa in via preventiva o per giustificare reazioni
contro Stati che alimentano il terrorismo. La dottrina della legittima difesa

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preventiva è contenuta nel documento intitolato “La strategia per la sicurezza


nazionale degli Stati Uniti” (c.d. dottrina Bush), presentata dal Presidente
americano al Congresso nel 2002.

Quando si è in presenza di una vera e propria guerra ed il sistema di sicurezza


collettiva dell’ONU non riesce a controllarla e a funzionare, c’è da prendere
atto che il diritto internazionale, sia consuetudinario che pattizio, ha esaurito la
sua funzione; la guerra non può allora essere valutata giuridicamente ma solo
politicamente e moralmente. C’è anche da tenere presente però che, quando la
guerra è scatenata, entra in vigore il corpo di regole, consuetudinarie e pattizie,
detto jus in bello, contrapposto allo jus ad bellum. Vanno ricordate in proposito
le Convenzioni dell’Aja (1899 e 1907) e le Convenzioni di Ginevra (1949).

Vietata è la forza internazionale, ossia le operazioni militari di uno Stato contro


un altro Stato. Ciò che il diritto internazionale non vieta, e non potrebbe vietare
se non abolendo il diritto di sovranità territoriale, è l’uso della forza interna,
ossia quella forza che rientra nel normale esercizio della potestà di governo
dello Stato. La distinzione diviene difficile in certi casi limite e l’unico criterio
utilizzabile è quello del luogo ove l’azione dello Stato è stata commessa:
l’azione dello Stato nei limiti del suo territorio è sempre un’azione di polizia
interna (sempre che non abbia come oggetto mezzi bellici che si trovino sul suo
territorio con la sua autorizzazione); mentre l’impiego della forza da parte dello
Stato contro comunità o mezzi di altri Stati fuori dal suo territorio è un’ipotesi
dell’uso della forza internazionale.

La specie più importante di autotutela è la rappresaglia (o contromisura),


comportamento dello Stato leso, che in sé sarebbe illecito, ma che diviene
lecito in quanto costituisce reazione ad un illecito altrui. Un limite importante,
fra quelli di carattere generale, è costituito dalla proporzionalità tra la
violazione subita e la violazione commessa per rappresaglia: si richiede, più che
altro, che non vi sia eccessiva sproporzione fra le due violazioni; se
sproporzione c’è, la contromisura diviene illecita per la parte eccedente. Altro
limite è quello relativo all’impossibilità di ricorrere a violazioni del diritto
internazionale cogente, anche nel caso in cui si tratti di reagire a violazioni
dello stesso tipo (con l’eccezione consistente nella possibilità di usare la forza
per respingere un attacco armato). Assorbito dal rispetto del diritto cogente è il
limite del rispetto dei principi umanitari. Si ritiene poi che alla contromisura
non possa farsi ricorso se non si sia prima tentato di giungere ad una soluzione
concordata della controversia, anche se la prassi è molto incerta.

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Come specie del genere dell’autotutela va considerata anche la ritorsione, che


si distingue dalla rappresaglia in quanto non consiste nella violazione di norme
internazionali ma soltanto in un comportamento inamichevole, come
l’attenuazione o la rottura dei rapporti diplomatici (non vi è alcun obbligo
internazionale di intrattenere tali rapporti), oppure l’attenuazione o la rottura
della collaborazione economica e commerciale (quando non vi siano trattati
che la impongano). Si dice che la ritorsione non sia una forma di autotutela,
dato che lo Stato può sempre tenere un comportamento inamichevole verso
un altro Stato anche senza aver subito un illecito. La ritorsione va inoltre tenuta
distinta dalle misure che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU può deliberare in
base all’art. 41 della Carta, in caso di minaccia o violazione della pace o di atto
di aggressione, misure che, inquadrandosi nel sistema di difesa collettiva della
Nazioni Unite, gli Stati posono essere obbligati ad attuare.

Circa il problema se le reazioni possano provenire da Stati che non abbiano


subito alcuna lesione, nulla esclude che tale possibilità sia prevista da singole
norme consuetudinarie internazionali. Il caso più importante è quello della
legittima difesa collettiva in caso di attacchi armati, riconosciuta dall’art. 51
Carta ONU ed ammessa, secondo la Corte Internazionale di Giustizia, dallo
stesso diritto internazionale generale. Le misure, anche militari, che lo Stato
terzo può prendere devono rispondere ai criteri della necessità e della
proporzionalità e presuppongono una precisa richiesta dello Stato aggredito.
Un’altra norma consuetudinaria è quella che vincola tutti gli Stati a negare
effetti extraterritoriali agli atti di governo (leggi, sentenze, atti amministrativi)
emanati in un territorio acquistato con la forza o detenuto in dispregio del
principio di autodeterminazione dei popoli. E può ricordarsi anche la norma che
autorizza tutti gli Stati ad aiutare militarmente i movimenti che lottano per la
liberazione del loro territorio dal dominio straniero, quindi contro la violazione
del principio di autodeterminazione, aiuti che, fuori da quest’ipotesi, sarebbero
illeciti, contravvenendo al divieto della minaccia e dell’uso della forza. Al di
fuori del sistema delle Nazioni Unite e delle singole norme consuetudinarie e
pattizie, non esiste un regime generale di autotutela collettiva, non esistono
principi generali che consentano ad uno Stato di intervenire a tutela di un
interesse fondamentale della comunità internazionale o di un interesse
collettivo.

L’autotutela è istituto del diritto internazionale consuetudinario. Naturalmente


lo Stato può obbligarsi, mediante trattato, a non ricorrere a misure di
autotutela o a ricorrervi a certe condizioni. È da ritenere implicito nel vincolo di
solidarietà e di collaborazione fra gli Stati membri di qualsiasi organizzazione
internazionale l’obbligo di non ricorrere all’autotutela, in particolare di non

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reagire con la propria inadempienza a quella altrui, se non come extrema ratio.
Può darsi poi che siano previste espressamente norme limitative
dell’autotutela; ad es. l’art. 228 del Trattato CE demanda esclusivamente alla
Corte comunitaria il compito di imporre “il pagamento di una somma forfetaria
o di una penalità” allo Stato membro che abbia compiuto una violazione del
Trattato, previamente contestata dalla stessa Corte, e non abbia preso i
provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti.

L’autotutela ha i suoi riflessi nel diritto statale: il giudice costituzionale,


chiamato a pronunciare l’illegittimità di una legge contraria al diritto
internazionale consuetudinario, ai sensi dell’art. 10 Cost., oppure di una legge
contraria ad un trattato, ai sensi dell’art. 117 Cost., dovrà chiedersi tra l’altro se
una tale legge non si giustifichi come misura di autotutela; così il giudice
ordinario, che sia chiamato a far prevalere, in base al principio di specialità, le
norme di un trattato rispetto alle norme di una legge ordinaria, potrà negare
tale prevalenza se la legge è inquadrabile come attuazione di autotutela. Un
meccanismo che rende automaticamente praticabile la violazione di norme
internazionali, a titolo di contromisura, da parte degli organi statali, è la
condizione di reciprocità, secondo la quale un determinato trattamento viene
accordato agli Stati, agli organi e ai cittadini stranieri a condizione che il
medesimo trattamento sia accordato allo Stato nazionale, ai suoi organi e ai
suoi cittadini. La reciprocità deve essere sempre accertata dal giudice e non
dagli organi del Potere esecutivo (la Corte costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale della norma della L. n. 1263/26, secondo cui era il
Potere esecutivo ad accertare la reciprocità). La reciprocità non è utilizzata
esclusivamente come base per l’adozione di eventuali contromisure, ma spesso
costituisce soltanto il presupposto di concessioni dettate da puri motivi di
cortesia, come avviene, ad es., se uno Stato accorda l’immunità fiscale agli
agenti diplomatici stranieri, per imposte diverse da quelle dirette personali, a
condizione di reciprocità.

47. (Segue). La riparazione.

Nella riparazione si fa rientrare anzitutto l’obbligo della restituzione in forma


specifica (restitutio in integrum) ossia del ristabilimento della situazione di fatto
e di diritto esistente prima del compimento dell’illecito, sempre che il
ristabilimento sia possibile.

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Anche la ‘soddisfazione’ è considerata una forma di riparazione, una forma di


riparazione di danni morali, dovuta per il solo fatto che l’illecito sia stato
compiuto e a prescindere dalla richiesta di risarcimento degli eventuali danni di
carattere patrimoniale; la presentazione ufficiale di scuse, l’omaggio alla
bandiera o ad altri simboli dello Stato leso, il versamento di una somma
simbolica, il ricorso ad un tribunale internazionale (la Corte Internazionale di
Giustizia ha affermato che la ‘soddisfazione’ può anche essere costituita dalla
semplice constatazione dell’avvenuta violazione ad opera di un tribunale
internazionale), se accettati dallo Stato leso, fanno venire meno qualsiasi
ulteriore conseguenza del fatto illecito ed in particolare il ricorso a misure di
autotutela. La ‘soddisfazione’, lungi dall’essere oggetto di un obbligo dello
Stato offensore, va a formare (come sosteneva Kelsen) il contenuto di una sorta
di accordo, espresso o tacito, che, direttamente o attraverso una decisione di
un tribunale internazionale, elimina ogni questione tra Stato offeso e Stato
offensore.

In definitiva, l’unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del


danno prodotto dall’illecito internazionale. Un obbligo di risarcire sorge dalla
prassi relativa alle violazioni delle norme sul trattamento degli stranieri ed al
conseguente esercizio della protezione diplomatica. Il risarcimento è senz’altro
dovuto quando la violazione del diritto internazionale consista in un’azione
violenta (esclusa forse la guerra) contro beni, mezzi ed organi dello Stato (ad
es. danneggiamento di sedi diplomatiche, distruzione di navi o aerei, ferimento
di individui organi, ecc.); fuori di questi casi è difficile ritenere che il diritto
internazionale consuetudinario imponga che il danno venga risarcito. Nel senso
invece che il risarcimento pecuniario sia sempre dovuto in ordine a qualsiasi
violazione di norme internazionali e per “…qualsiasi danno suscettibile di
valutazione finanziaria, compreso il lucro cessante…”, si pronuncia l’art. 36 del
Progetto, che va inquadrato nel compito di promozione dello sviluppo del
diritto internazionale da parte della Commissione di diritto internazionale. Circa
i danni prodotti dalle lesioni arrecate agli stranieri che ricoprono la qualifica di
organo, occorre distinguere tra danni subiti dall’individuo (da inquadrare
nell’esercizio della protezione diplomatica) ed i danni subiti dall’organizzazione
statale (c.d. danni alla funzione): in ogni caso i danni risarcibili sono quelli
materiali.

Tutto ciò riguarda l’obbligo di risarcimento del danno relativo ai rapporti fra
Stati. Diverso è il caso dei trattati che prevedono che lo Stato contraente abbia
l’obbligo di risarcire direttamente gli individui, stranieri o cittadini, danneggiati
dalla violazione del trattato medesimo: ad es. la Convenzione europea sui diritti
umani stabilisce che qualora, accertata dalla Corte europea dei diritti umani

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una violazione della Convenzione, il diritto interno non permetta di eliminare le


conseguenze della violazione, la Corte possa concedere un risarcimento alla
parte lesa. Circa il diritto internazionale generale, può ritenersi che dall’obbligo
che incombe sullo Stato di non compiere gravi violazioni dei diritti umani, possa
ricavarsi un diritto al risarcimento da far valere innanzi ai giudici dello stesso
Stato.

48. La c.d. responsabilità da fatti leciti.

Una responsabilità oggettiva può essere qualificata come responsabilità senza


illecito quando lo Stato è chiamato a rispondere non soltanto delle attività
svolte dai suoi organi ma anche delle attività svolte da individui posti sotto il
suo controllo. Ma il diritto internazionale non conosce una responsabilità così
sofisticata e così improntata al solidarismo come la responsabilità da fatto
lecito. Numerose convenzioni si preoccupano del risarcimento dei danni
prodotti da attività pericolose; esse però, a parte la Convenzione sulla
responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali (1972), il cui
art. II prevede che lo Stato di lancio risponda dei danni causati dai suoi oggetti
spaziali alla superficie terrestre e agli aeromobili in volo, non si riferiscono alla
responsabilità internazionale, ma a quella di diritto interno; trattasi di
convenzioni che si limitano ad imporre agli Stati contraenti l’obbligo di
predisporre al loro interno sistemi appropriati di responsabilità civile o
addirittura penale. La Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite
ha adottato due progetti di articoli, il primo sulla “prevenzione dei danni oltre
frontiera derivanti da attività pericolose” (2001) ed il secondo sulla ripartizione
di tali danni una volta prodotti (2004).

49. Il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite.

La Carta ONU, da un lato sancisce, all’art. 2, par. 4, il divieto dell’uso della forza
nei rapporti internazionali, dall’altro, al cap. VII (artt. 39 ss.) accentra nel
Consiglio di Sicurezza, la competenza a compiere le azioni necessarie per il
mantenimento dell’ordine e della pace tra gli Stati, ed in particolare l’uso della
forza a fini di polizia internazionale. Il sistema di sicurezza accentrato ha poco e
male funzionato fino alla caduta del muro di Berlino a causa del diritto di veto
riconosciuto alle grandi Potenze. A partire dalla Guerra del Golfo (1991) esso ha
invece avuto una seconda vita, divenendo l’attività principale delle Nazioni
Unite. Nel quadro del sistema di sicurezza collettiva è degna di nota l’istituzione
della Commissione per la costruzione della pace (Peacebuilding Commission) ad

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opera di due risoluzioni identiche dell’Assemblea generale e del Consiglio di


Sicurezza nel 2005 e definita “Corpo consultivo intergovernativo”.

Ai sensi del cap. VII, il Consiglio di Sicurezza accerta innanzitutto l’esistenza di


una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione
(art. 39), e stabilisce poi quali misure sanzionatorie ma non implicanti l’uso
della forza, come l’interruzione totale o parziale delle comunicazioni e delle
relazioni economiche da parte degli altri Stati (art. 41), sia implicanti l’uso della
forza (art. 42 ss.) debbano essere prese nei confronti di uno Stato. Prima di
ricorrere alle une o alle altre, esso può invitare le parti interessate a prendere
quelle “misure provvisorie” che consideri necessarie al fine di non aggravare la
situazione (art. 40). Spesso il Consiglio, dichiarando di agire in base al cap. VII,
ricorre a misure che invece non vi trovano fondamento: se tali misure sono
avallate dalla prassi, debbono considerarsi come previste da consuetudini
sovrappostesi alle norme scritte. Nell’accertare se esista una minaccia o
violazione della pace o un atto di aggressione, il Consiglio gode di un
larghissimo potere discrezionale; soprattutto l’ipotesi della “minaccia alla
pace” si presta ad inquadrare i più vari comportamenti di uno Stato. La
discrezionalità del Consiglio, così come sancita dall’art. 39, è rimasta integra
anche dopo l’adozione, da parte dell’Assemblea generale, della Dichiarazione
sulla definizione dell’aggressione (1974) che riconosce che il Consiglio possa
stabilire che la commissione di uno degli ivi atti elencati non giustifichi il suo
intervento e che possa considerare come aggressione anche atti non elencati. Il
sistema di sicurezza dell’ONU consiste non tanto di principi materiali quanto di
regole procedurali.

Misure provvisorie. “Al fine di evitare l’aggravarsi della situazione il Consiglio di


Sicurezza…può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure
provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili. Tali misure provvisorie
non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate.
Il Consiglio di Sicurezza prende in debito conto il mancato ottemperamento a
tali misure provvisorie” (art. 40). Una misura provvisoria tipica in caso di guerra,
internazionale o civile, è il cessate il fuoco. Le misure provvisorie hanno natura
non vincolante, in quanto sono oggetto di una raccomandazione del Consiglio.

Misure non implicanti l’uso della forza. Ai sensi dell’art. 41, il Consiglio può
vincolare gli Stati membri dell’ONU a prendere tutta una serie di misure (dalla
semplice interruzione dei rapporti diplomatici al blocco economico totale)
contro uno Stato che, sempre a giudizio insindacabile dell’organo, minacci o
abbia violato la pace, oppure, nelle crisi interne, contro gruppi armati, o

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ancora, nel quadro della lotta al terrorismo internazionale, contro gruppi


terroristici.

Misure implicanti l’uso della forza. Gli artt. 42 ss. si occupano dell’ipotesi in cui
il Consiglio decida di impiegare la forza contro uno Stato, colpevole di minaccia
o violazione della pace o di aggressione, oppure all’interno di uno Stato,
intervenendo in una guerra civile. Il ricorso a misure violente è concepito come
un’operazione di polizia internazionale: “Il Consiglio…può intraprendere con
forza aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o
ristabilire la pace…”. Tutto ciò attraverso risoluzioni operative, con cui
l’Organizzazione non ordina o raccomanda qualcosa agli Stati, ma direttamente
agisce. L’azione diretta consiste nell’utilizzazione di contingenti armati
nazionali, ma sotto un comando internazionale facente capo allo stesso
Consiglio di Sicurezza. Circa le modalità, gli artt. 43, 44 e 45 prevedono
l’obbligo per gli Stati membri di stipulare con il Consiglio degli accordi intesi a
stabilire il numero, il grado di preparazione, la dislocazione, ecc. delle forze
armate utilizzabili poi dall’organo; l’utilizzazione in concreto dei vari contingenti
deve far capo ad un Comitato di stato maggiore, composto dai Capi di stato
maggiore dei cinque membri permanenti e posto sotto l’autorità del Consiglio.
Gli artt. 43 ss. non hanno mai, dal 1945 ad oggi, ricevuto applicazione; gli
accordi, che ex art. 43 dovevano essere conclusi “al più presto”, non hanno mai
visto la luce; né mai ha funzionato il Comitato di stato maggiore.

Il Consiglio di Sicurezza è intervenuto in crisi internazionali o interne con misure


di carattere militare in due modi diversi, talvolta cumulandoli. Esso o ha creato
delle Forze delle Nazioni Unite (i famosi caschi blu) incaricate, ma con compiti
per lo più assai limitati, di operare per il mantenimento della pace
(peacekeeping operations) o ha autorizzato l’uso della forza da parte degli
Stati membri, sia singolarmente che nell’ambito di organizzazioni regionali. La
caratteristica fondamentale delle peacekeeping operations è costituita dalla
delega del Consiglio al Segretario generale in ordine al reperimento, attraverso
accordi con gli Stati membri, e al comando delle forze internazionali. Si dice che
le Forze operano con il consenso dello Stato, o degli Stati, nel cui territorio sono
dislocate; in realtà è questo un elemento puramente fittizio, un vero e proprio
sovrano locale non esistendo fin dall’inizio o non esistendo più nel corso delle
operazioni. È quasi universale l’opinione secondo cui le Forze per il
mantenimento della pace sarebbero semplicemente delle forze cuscinetto,
destinate soltanto a dividere i contendenti e ad aiutarli nel ristabilire la pace e
la sicurezza senza adoperare le armi, di cui sono dotate per legittima difesa: la
loro funzione sarebbe di peace keeping, non di peace enforcement. Le forze
militari agiscono poi spesso in combinazione col personale civile dell’ONU

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preposto all’assistenza del Governo locale nel ristabilimento delle normali


condizioni di vita politica ed istituzionale (c.d. peacekeeping operations
multifunzionali). In realtà molte missioni ONU sono state o sono state
trasformate in operazioni di peace enforcement e, nonostante il loro
reperimento ed il loro controllo siano assicurati caso per caso dal Segretario
generale (sotto il controllo continuo del Consiglio di Sicurezza), esse realizzano
l’azione di polizia internazionale di cui parla l’art. 42: per “azione che sia
necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” non
devono per forza intendersi soltanto la guerra o azioni che comportino lo
spargimento di sangue.

L’impiego delle Forze dell’ONU ha finito per rivelarsi impraticabile per ragioni
politiche, militari, logistiche e finanziarie. Il Consiglio di Sicurezza è andato
sempre più orientandosi verso l’impiego diretto di contingenti militari da parte
degli Stati membri, sia individualmente sia per il tramite di organizzazioni
regionali. In due casi si è trattato dell’autorizzazione a condurre vere e proprie
guerre internazionali, per respingere aggressioni esterne: la guerra in Corea
(1950), durante la quale gli Stati membri furono ‘invitati’ ad aiutare la Corea del
Sud a difendersi dall’attacco sferratole dalla Corea del Nord, e la guerra del
Golfo (1991), condotta da una coalizione di Stati membri ‘autorizzati’ dal
Consiglio ad aiutare il governo kuwaitiano a riconquistare il territorio del
Kuwait occupato dall’Iraq. La delega, che comporta che il Consiglio, lungi
dall’assumersi le responsabilità connesse ad un’azione di tutela della pace, se
ne spogli, non sembra sia inquadrabile sotto gli artt. 42 ss. Con la constatata
inefficienza del sistema di sicurezza collettiva, si è fatta strada la prassi della
delega agli Stati e ne consegue che tale delega può considerarsi prevista da
una norma consuetudinaria ad hoc.

Talvolta il Consiglio di Sicurezza, dichiarando di agire in base al cap. VII ed


invocando la necessità di mantenere la pace e la sicurezza, ha organizzato il
governo di territori oggetto di rivendicazioni di sovranità o nei quali si è
verificata una guerra civile; in questo quadro sono stati decisi anche singoli atti
di governo. È questo il caso del Territorio Libero di Trieste, istituito dal
Trattato di pace tra Italia e Potenze Alleate (1947), concepito come una sorta di
piccolo Stato governato da un Governatore la cui nomina era affidata al
Consiglio di Sicurezza; il Territorio non fu mai costituito e quello che avrebbe
dovuto essere il suo territorio venne diviso fra Italia e Jugoslavia.
Recentemente sono da menzionare la UNMIK (Amministrazione provvisoria
delle Nazioni Unite nel Kosovo), tuttora in carica, e la UNTAET (Amministrazione
provvisoria delle Nazioni Unite in Timor Est), durata dal 1999 al 2002. Inoltre,
sono stati istituiti dei tribunali internazionali per la punizione di crimini

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commessi da individui. Gli esempi più noti sono quelli del Tribunale penale
internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia (ICTY) e del Tribunale
penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda (ICTR). Le misure
consistenti nel governo, o in atti di governo, di territori non trovano
fondamento espresso nella Carta ONU; vari tentativi sono stati fatti in dottrina
e nella prassi per riportarle alla categoria delle “misure coercitive” previste
dagli artt. 41 e 42. Particolarmente l’istituzione di Tribunali internazionali ha
costituito oggetto di dibattito; a chi sostiene che l’ipotesi possa riportarsi
all’art. 41, si può rispondere che la giurisdizione dei tribunali penali, e lo stesso
si può dire per il governo di territori, si esercita su individui, mentre le misure
coercitive previste dall’art. 41 sono chiaramente misure dirette contro uno
Stato o al massimo contro gruppi armati all’interno di uno Stato; inoltre, le
misure ex art. 41 sono destinate a cessare quando la pace e la sicurezza non
sono più in pericolo. L’art. 24 della Carta, circa gli “specifici poteri” per il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionali attribuiti al Consiglio
di Sicurezza con riferimento ai capp. VI, VII, VIII e XII della Carta, li elenca in
modo tassativo: dunque, le misure che non rientrano in questo o in
quell’articolo della Carta non possono fondarsi su una sorta di potere residuale
generale del Consiglio, presumibilmente desumibile dallo stesso art. 24.
Dunque, è evidente che il Consiglio abbia largamente deviato dallo spirito e
dalla lettera delle norme del cap. VII, ma la mancanza di una qualsiasi
opposizione alla partecipazione del Consiglio ad atti di governo di territori in
situazioni post conflittuali indica che detta prassi ha dato vita ad una norma
consuetudinaria ad hoc.

Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al Consiglio di Sicurezza fanno


parte, in base al cap. VIII Carta ONU, anche le organizzazioni regionali, create
per sviluppare la collaborazione fra Stati membri e per promuovere la difesa
comune verso l’esterno. L’art. 53 stabilisce che il Consiglio di Sicurezza utilizza
“gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua
direzione” ed aggiunge che “nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa
in base ad accordi regionali…senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza”.
Le organizzazioni regionali appaiono quasi come organi decentrati delle Nazioni
Unite. L’art. 51 ammette la legittima difesa sia individuale che collettiva: ne
consegue che le organizzazioni regionali possono agire coercitivamente contro
uno Stato con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ogni caso (art. 53) e
senza l’autorizzazione del Consiglio solo nel caso di risposta ad un attacco
armato già sferrato (art. 51).

Le organizzazioni regionali esistenti sono: la Lega degli Stati arabi,


l’Organizzazione degli Stati americani (OSA); l’Unione Europea Occidentale

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(UEO) che, ex art. 17 del Trattato UE costituisce l’alleanza difensiva dell’Unione;


l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), creata nel 1949 tra le
Potenze occidentali (c.d. Patto atlantico); l’Organizzazione per l’Unità Africana
(OUA); la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS);
l’Organizzazione degli Stati dei Carabi Orientali (OECS); la Comunità di Stati
indipendenti (CIS), creata nel 1991 tra le Repubbliche già facenti parte
dell’Unione Sovietica; l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa (OSCE).

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PARTE QUINTA

L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI NELL’AMBITO DELLA


COMUNITÀ INTERNAZIONALE

50. L’arbitrato. La Corte Internazionale di Giustizia.

La funzione giurisdizionale internazionale ha ancor oggi sostanzialmente natura


arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice internazionale non
può giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata
da tutti gli Stati parti di una controversia. Gli Stati sono liberi di deferire ad un
tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti.
Ai fini dell’esercizio della funzione giurisdizionale internazionale vale la nozione
di controversia data dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nella
sent. Mavrommatis (1929) e ripresa dall’attuale Corte Internazionale di
Giustizia: “la controversia è un disaccordo su di un punto di diritto o di fatto, un
contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi fra due soggetti”.
Dunque, non esistono controversie giustiziabili e controversie non giustiziabili,
dato che su qualsiasi rapporto tra Stati il diritto internazionale è capace di
pronunciarsi. La distinzione fra controversie giuridiche e controversie politiche,
consistente nel fatto che nelle seconde, a differenza delle prime, entrambe le
parti o almeno una non invocassero il diritto internazionale ma pretendessero
di mutarlo a loro favore, ha ormai scarso significato. L’art. 36, par. 2, dello
Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, prevede che gli Stati che, con
una dichiarazione ad hoc, accettino come obbligatoria la giurisdizione della
Corte, possano essere citati avanti alla Corte medesima da un qualsiasi altro
Stato che abbia emesso la stessa dichiarazione, e stabilisce che la dichiarazione
di accettazione può riguardare “…ogni controversia di natura giuridica avente
ad oggetto: a) l’interpretazione di un trattato; b) qualsiasi questione di diritto
internazionale; c) l’esistenza di un qualsiasi fatto che, se accertato,
costituirebbe la violazione di obbligo internazionale; d) la natura o la misura
della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale”. Non
risultano casi in cui la Corte Internazionale di Giustizia si sia rifiutata di
giudicare a causa dell’eccezione di ‘politicità’ della controversia.

Nel secolo XIX l’arbitrato isolato si svolgeva di solito nel modo seguente: sorta
una controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo, il c.d.
compromesso arbitrale, col quale si nominava un arbitro (ad es. un Capo di
Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola
procedurale, e ci si obbligava a rispettare la sentenza (che spesso consisteva

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nella sola parte dispositiva, non essendo l’arbitro obbligato a far conoscere la
motivazione) così emessa. Si distinguono due fasi di sviluppo dell’istituto.

I fase. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si è cominciato a ricorrere a dei
meccanismi per facilitare l’accordo degli Stati necessario per l’instaurazione del
processo internazionale e sono apparsi due istituti: la clausola compromissoria
‘non completa’, che accede ad una qualsiasi convenzione e crea l’obbligo per
gli Stati di ricorrere all’arbitrato per tutte le controversie che sorgano in futuro
in ordine all’applicazione e all’interpretazione della convenzione medesima, ed
il trattato generale di arbitrato ‘non completo’, che egualmente crea un
obbligo generico di ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le controversie
che possano sorgere in futuro fra le Parti contraenti, eccettuate alcune
controversie (c.d. clausola eccettuativa dei trattati di arbitrato) indicate una
volta come quelle toccanti l’onore e l’indipendenza delle Parti o aventi natura
politica, e oggi come quelle relative a questioni di dominio riservato. I due
istituti ‘non completi’ creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè l’obbligo
di stipulare un compromesso arbitrale; se questo però non interviene, non può
comunque pervenirsi all’emanazione di una sentenza. Nello stesso periodo si
tendono ad istituzionalizzare i tribunali internazionali, creando organi arbitrali
permanenti e a predisporre regole di procedura applicabili in ogni
procedimento così instaurato. L’avvio di tale istituzionalizzazione si ha con la
Corte Permanente di Arbitrato, tuttora esistente, creata dalle Convenzioni
dell’Aja sulla guerra terrestre (1899 e 1907). All’interno della Corte,
l’istituzionalizzazione è minima, trattandosi infatti di un elenco di giudici,
periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere ai fini della
composizione del collegio arbitrale; anche le regole di procedura non sono
molte e cedono il passo di fronte a quelle eventualmente stabilite dalle Parti.

II fase. Alla fine della prima guerra mondiale si è avuto un maggior processo di
istituzionalizzazione con la creazione prima della Corte Permanente di Giustizia
Internazionale all’epoca della Società delle Nazioni, e poi, nel 1945, con la
Corte Internazionale di Giustizia, organo delle Nazioni Unite che ha sostituito
la prima: essa ha sede all’Aja e funziona in base ad uno Statuto annesso alla
Carta ONU e ricalcante lo Statuto della vecchia Corte. Presenta un forte grado
di istituzionalizzazione: trattasi di un corpo permanente di giudici, eletti
dall’Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a
precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti; trattasi pur
sempre però di un tribunale arbitrale che giudica solo sul presupposto di un
accordo tra tutte le Parti di una controversia. La Corte Internazionale di
Giustizia può decidere non solo secondo il diritto ma anche ex aequo et bono se
le Parti così richiedono. Oltre alla giurisdizione in materia contenziosa, la Corte

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svolge anche una funzione consultiva: i pareri non sono vincolanti, ma possono
divenire tali se, con una convenzione o altro atto vincolante, ci si impegni a
rispettarli. Ex art. 34 dello Statuto, la Corte non può essere adita da tutti i
soggetti internazionali ma solo dagli Stati. Compaiono le figure della clausola
compromissoria ‘completa’ e del trattato generale di arbitrato ‘completo’:
questi prevedono direttamente l’obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale
internazionale (di solito la Corte Internazionale di Giustizia) già predisposto e
perfettamente in grado di funzionare; permettono ad uno Stato contraente di
citare unilateralmente un altro Stato contraente di fronte al tribunale
internazionale così investito della controversia: il fondamento del giudizio resta
pur sempre volontario, ma la giurisdizione è un potere che, una volta accettato,
come negli ordinamenti interni, si impone al singolo indipendentemente dalla
sua volontà. Analogo al trattato generale di arbitrato è il procedimento di cui
all’art. 36 dello Statuto: “gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni
momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza
speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti la
medesima obbligazione, la giurisdizione della Corte…”.

A partire dagli anni Sessanta e fino agli anni Ottanta, l’arbitrato ha attraversato
una consistente fase di declino. Gli Stati sorti dalla decolonizzazione, diffidenti
verso la Corte a causa di alcune sentenze emesse, considerate contrarie ai loro
interessi ed obiettivamente discutibili, presentarono un numero scarsissimo di
ricorsi, mentre alcune grandi Potenze, come gli Stati Uniti, si rifiutarono di
eseguire sentenze emesse. La situazione si è andata modificando a partire dagli
anni Ottanta, aumentando enormemente il ruolo della Corte.

Come per le norme così per le sentenze c’è da lamentare la scarsezza dei mezzi
coercitivi a livello interstatale e da affidarsi al diritto interno degli stessi Stati
che devono osservare la sentenza. L’osservanza di una sentenza internazionale
deve ritenersi assicurata nel diritto interno dalle stesse norme che provvedono
all’adattamento alle regole internazionali (consuetudinarie, pattizie o
contenute in atti di organizzazioni internazionali) di cui la sentenza abbia
accertato il contenuto: ad es. la legge italiana di esecuzione di un trattato
comporta l’obbligo di osservare non soltanto il trattato ma anche l’eventuale
sentenza internazionale emessa, in ordine al trattato medesimo, nei confronti
dell’Italia o di persone che operano all’interno dello Stato italiano.

51. I Tribunali internazionali settoriali e regionali.

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Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno


competenze settoriali (si parla di ‘frammentazione’ del diritto internazionale).
Competenze sui generis presenta la Corte di Giustizia delle Comunità europee,
con sede a Lussemburgo: essa, in comune con gli altri tribunali internazionali,
ha solo l’origine pattizia. La maggior parte delle sue competenze sono
accostabili a quelle dei tribunali interni ed il loro esercizio non dipende dalla
volontà degli stessi soggetti destinate a subirle. A parte la funzione arbitrale di
tipo classico ex art. 239 del Trattato CE, la Corte ha tre competenze
fondamentali. 1) Inadempimento del Trattato da parte di uno Stato membro. I
ricorsi diretti ad accertare la violazione del Trattato CE da parte di uno Stato
sono proponibili dalla Commissione o da ciascun altro Stato membro previa
consultazione della Commissione; lo Stato ‘accusato’ non può sottrarsi al
giudizio della Corte e, se questa lo dichiara inadempiente, è tenuto a prendere
tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta. 2) Controllo di
legittimità sugli atti comunitari. È limitato agli atti vincolanti (regolamenti,
direttive, decisioni) del Consiglio e della Commissione; i vizi, che se riconosciuti
comportano l’annullamento ex tunc degli atti, sono dati dall’incompetenza
dell’organo, dalla violazione di forme sostanziali, dalla violazione del Trattato o
di altra regola relativa alla sua applicazione e dallo sviamento di potere; essi
sono denunciabili entro determinati termini, da ciascuno Stato membro, dal
Consiglio o dalla Commissione, ed anche, nel caso di decisioni, da qualsiasi
persona fisica o giuridica interessata. 3) Questioni pregiudiziali. Quando,
innanzi ad un giudice di uno Stato membro, è sollevata una questione relativa
all’interpretazione del Trattato CE o alla validità o interpretazione di atti
comunitari, tale giudice ha il potere o, se è di ultima istanza, il dovere di
sospendere il processo e di chiedere una pronuncia della Corte al riguardo; la
pronuncia della Corte ha effetto immediato nel giudizio nazionale a quo, ma
l’interpretazione in essa racchiusa sarà utilizzata in tutti gli Stati membri finché
la Corte non sia sollecitata a mutarla attraverso una successiva pronuncia; tale
competenza ha lo scopo di assicurare l’interpretazione uniforme del diritto
comunitario negli Stati membri. Alla Corte è affiancato, dal 1988, il Tribunale di
primo grado delle Comunità europee, la cui principale competenza ha per
oggetto i ricorsi promossi dalle persone fisiche e giuridiche ai sensi dell’art. 230
del Trattato CE; le sentenze del Tribunale sono impugnabili per motivi di diritto
davanti alla Corte. Le sentenze della Corte e del Tribunale che comportano, a
carico di persone diverse dagli Stati, un obbligo pecuniario, costituiscono titolo
esecutivo negli Stati membri.

Nel campo del diritto internazionale marittimo opera il Tribunale


Internazionale del Diritto del Mare, il cui Statuto è contenuto nell’Annesso VI
alla Convenzione di Montego Bay. Ha sede ad Amburgo ed è composto da

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ventuno giudici indipendenti. Nel settore del commercio internazionale opera


un sistema complesso predisposto dall’Intesa sulle regole e procedure relative
alla soluzione delle controversie, contenuta nell’Allegato n. 2 all’Accordo
istitutivo dell’OMC, organizzazione nata dagli sviluppi della prassi relativa al
GATT. Il Dispute Settlement Body, l’Organo per la soluzione delle controversie,
si articola in due gradi di giudizio: il primo costituito da panels di esperti di volta
in volta nominati dall’Organo, il secondo consistente in un corpo permanente di
appello in cui siedono sette giudici; i panels hanno anche una funzione
conciliativa, al cui insuccesso è subordinata la decisione della controversia
secondo diritto. L’Organo può anche decidere all’unanimità di non costituire un
panel oppure di non approvare le decisioni emesse in prima o seconda istanza
ed il sistema può anche essere paralizzato da un decisione ‘interpretativa’
adottata, su richiesta di una delle parti della controversia, dalla Conferenza
ministeriale o dal Consiglio generale della WTO.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo, è l’organo che
controlla il rispetto della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte degli Stati contraenti. La Corte è
nata nel 1988 dalla fusione con la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo ed
è formata da un numero di giudici pari a quello degli Stati contraenti (oggi 45).
Giudica attraverso Comitati composti da tre giudici o attraverso Camere di
sette giudici; una Grande Camera di diciassette giudici può essere chiamata
eccezionalmente a pronunciarsi su richiesta di una Camera oppure come una
sorta di istanza di appello contro la sentenza di una Camera. Il ricorso alla Corte
può essere proposto da un altro Stato contraente nell’interesse obiettivo (c.d.
ricorso interstatale), sia da qualsiasi persona fisica o giuridica o organizzazione
o gruppo di individui (c.d. ricorso individuale), ma in questo caso occorre che il
ricorrente si pretenda vittima di una violazione della Convenzione. Constatata la
violazione della Convenzione da parte di uno Stato contraente, e se il diritto
interno dello Stato non permette di eliminarne le conseguenze, la Corte può
concedere alla parte lesa un’equa soddisfazione, di solito una somma di
denaro.

La Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo di San Josè de Costa Rica


(1969) istituisce un importante sistema regionale di cui sono parti contraenti la
maggior parte degli Stati del continente americano, fra i quali però non
figurano gli Stati Uniti; il controllo sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla
Convenzione è affidato ad una Commissione e ad una Corte di giustizia. Dal
1986 è in vigore anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli che ha
istituito una Commissione, organo quasi giurisdizionale competente a ricevere
comunicazioni e con potere decisionale limitato.

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Sul piano universale vengono in rilievo i due Patti internazionali promossi dalle
Nazioni Unite. Il Patto sui diritti civili e politici prevede il funzionamento di un
Comitato per i diritti dell’uomo che può prendere in esame reclami presentati
contro uno Stato contraente da altri Stati o da individui, se lo Stato accusato
ha, per i reclami statali, dichiarato di accettare la competenza del Comitato in
materia, oppure, per i reclami individuali, ratificato un Protocollo opzionale ad
hoc: la procedura non sfocia comunque mai in atti vincolanti, ma in rapporti e
tentativi di amichevole composizione. Il Patto sui diritti economici, sociali e
culturali, non prevede l’istituzione di organi ad hoc, limitandosi a stabilire che
gli Stati contraenti sottopongono rapporti periodici al Consiglio economico e
sociale delle Nazioni Unite, perché formuli raccomandazioni “di ordine
generale”, o anche sottoporli all’attenzione dell’Assemblea generale.

Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro


l’umanità si accompagna la tendenza ad attribuire la corrispondente
giurisdizione penale a tribunali internazionali. La prima esperienza in materia
fu quella del Tribunale di Norimberga, creato dall’Accordo di Londra (1945),
concluso tra le Potenze che occupavano la Germania debellata, per la punizione
dei criminali nazisti. Così il Tribunale di Tokyo che giudicò i criminali di guerra
giapponesi e che fu addirittura costituito con una decisione della sola Potenza
occupante, gli Stati Uniti. Recentemente, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha
costituito il Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia ed il Tribunale
per i crimini commessi in Ruanda. Il primo, composto da due Camere di prima
istanza e da una Camera di appello formate da giudici che vi siedono a titolo
personale, funziona in base ad uno Statuto allegato alla risoluzione del
Consiglio di Sicurezza e ad un Regolamento che esso stesso si è dato; lo Statuto
prevede la primacy del Tribunale rispetto alle Corti nazionali, nel senso che
esse devono spogliarsi della loro competenza e gli Stati che detengono il
presunto criminale devono consegnarlo al Tribunale, che ha sede all’Aja; il
Regolamento disciplina la procedura ma contiene anche norme sostanziali.
Disciplina simile ha il Tribunale per il Ruanda.

Lo Statuto della Corte penale internazionale permanente (1998), adottato a


Roma da un’apposita Conferenza ONU, è in vigore dal 2002 ed è osteggiato da
taluni Stati, fra cui gli Stati Uniti; esso prevede che la giurisdizione della Corte,
relativamente ai crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità (con
esclusione dell’aggressione), sia complementare rispetto a quella degli Stati,
nel senso di poter essere esercitata solo quando lo Stato che ha giurisdizione
sul crimine non voglia o non abbia la capacità di perseguirlo. Un cenno
meritano infine i tribunali penali interni a composizione internazionale,

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istituiti in Paesi in via di sviluppo ed in situazioni post conflittuali (ad es. il


Tribunale Speciale della Sierra Leone).

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52. I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie internazionali.

I mezzi diplomatici si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle


controversie in quanto tendono esclusivamente a facilitare l’accordo delle
parti: essi non hanno carattere vincolante e, anche quando non vengono
trascurati gli effetti giuridici della controversia, è sempre il compromesso fra le
opposte pretese, e non le determinazione di chi ha torto e chi ha ragione, a
costituirne l’oggetto. L’accordo può essere facilitato innanzitutto da negoziati
diretti. Si parla poi di buoni uffici e mediazione quando si verifica l’intervento
di uno Stato terzo, o anche di un organo supremo di uno Stato o di
un’organizzazione internazionale a titolo personale, intervento meno intenso
nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso della mediazione: con i primi
ci si limita ad indurre le parti a negoziare, con la seconda c’è una partecipazione
attiva del terzo alle trattative. Infine la conciliazione, che si realizza grazie a
Commissioni apposite istituite talvolta su base permanente e talvolta in modo
occasionale, composte solitamente da individui e non da Stati, e che hanno il
compito di esaminare la controversia in tutti i suoi aspetti, accertando i fatti
che hanno dato luogo alla controversia medesima e formulando una proposta
di soluzione che le parti sono libere di accettare o meno. Alle Commissioni di
conciliazione vanno accostate le Commissioni di inchiesta, il cui compito è
limitato all’accertamento, non vincolante, dei fatti. Spesso il ricorso alla
conciliazione è previsto come obbligatorio, con la conseguente possibilità, per
uno degli Stati contraenti, di dare unilateralmente l’avvio alla procedura
conciliativa; tipiche al riguardo sono le norme degli artt. 65 68 della
Convenzione di Vienna del 1969. Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche
quelle procedure di soluzione delle controversie a carattere non vincolante che
si svolgono in seno ad organizzazioni internazionali (c.d. funzione conciliativa
delle organizzazioni internazionali): tali procedure devono conformarsi alle
regole statutarie di ogni singola organizzazione e possono sfociare in
raccomandazioni.

La Carta ONU stabilisce che gli Stati hanno l’obbligo di risolvere le loro
controversie con mezzi pacifici (art. 2). L’art. 33 ribadisce l’obbligo delle parti di
una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, di perseguirne una
soluzione “mediante negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato,
regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri
mezzi pacifici di loro scelta”. Alla “soluzione pacifica delle controversie” è
dedicato il cap. VI della Carta ONU. Ex art. 34, il Consiglio di Sicurezza dispone
anzitutto di un potere di inchiesta che può esercitare direttamente o creando
un organo ad hoc (ad es. una Commissione di inchiesta composta da membri

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del Consiglio, da funzionari dell’ONU, ecc.). L’art. 36 prevede che il Consiglio


indichi quale specifico procedimento, tra quelli elencati dall’art. 33, sia
appropriato in ordine al caso in specie. Nella funzione conciliativa del Consiglio
rientra infine il potere di raccomandare “termini di regolamento”, ossia di
suggerire alla parti come risolvere, nel merito, la loro controversia: tale potere
è previsto dall’art. 37 e dovrebbe essere esercitato quando la controversia sia
portata all’esame del Consiglio dalle stesse parti, o almeno da una di esse, e
quando sia stata accertata l’impossibilità di raggiungere un’intesa attraverso i
mezzi elencati dall’art. 33; il Consiglio ha, in realtà, finito con l’entrare nel
merito delle questioni se e quando ha voluto.
Nell’ambito delle Nazioni Unite, una funzione conciliativa è svolta anche
dall’Assemblea generale. L’art. 14 della Carta ONU prevede che “…l’Assemblea
può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione
che…essa ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni
amichevoli tra le Nazioni…”. Una formula così generica permette di far rientrare
nella funzione conciliativa dell’Assemblea tutte le misure conciliative adottabili
dal Consiglio di Sicurezza in base al cap. VI. In base all’art. 12, l’Assemblea deve
astenersi dall’intervenire su questioni di cui si stia occupando il Consiglio.
Anche il Segretario generale dell’ONU ha prestato la propria attività mediatrice
agli Stati coinvolti in crisi internazionali; la Carta non prevede simili iniziative,
salva l’ipotesi in cui il Segretario generale agisca su autorizzazione del Consiglio
di Sicurezza o dell’Assemblea generale: sembra pertanto che le iniziative
autonome debbano collocarsi al di fuori del quadro istituzionale delle Nazioni
Unite. Alla funzione conciliativa dell’ONU si affianca quella delle organizzazioni
regionali; l’art. 52 della Carta ONU prevede che in seno a tali organizzazioni si
compia “ogni sforzo per giungere ad una soluzione pacifica delle controversie di
carattere locale…prima di deferirle al Consiglio di Sicurezza”.

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