Diritto Int Conforti
Diritto Int Conforti
DIRITTO INTERNAZIONALE
B.Conforti
INTRODUZIONE
Circa i mezzi che nel diritto internazionale sono adoperati per assicurare
coattivamente l’osservanza delle norme e per reprimerne le violazioni, occorre
realisticamente riconoscere che siffatti mezzi sono quasi tutti riportabili alla
categoria dell’autotutela.
Circa la soggettività del Governo (o Partito) insurrezionale, gli insorti non sono
certo soggetti di diritto internazionale. Ma se essi riescono a costituire, già nel
corso della guerra civile, un’organizzazione di governo che controlla
effettivamente una parte del territorio, allora si è di fronte ad una forma sia
pure embrionale di Stato alla quale la personalità non può negarsi,
indipendentemente dal fatto che tal personalità sia destinata ad estinguersi
qualora, alla fine, l’insurrezione non abbia successo.
Alla Chiesa cattolica, anche nel periodo tra il 1870 e il 1929, periodo in cui
venne meno ogni suo dominio territoriale, la personalità internazionale è stata
sempre per tradizione riconosciuta. Essa si concreta non solo nel potere di
concludere accordi internazionali ma, data l’esistenza dello Stato della Città del
PARTE PRIMA
Le norme di diritto internazionale generale, che vincolano cioè tutti gli Stati,
hanno natura consuetudinaria. La consuetudine internazionale è costituita da
un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, dal ripetersi di un
certo comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e
della necessità del comportamento stesso. Due sono gli elementi che
caratterizzano questa fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis. È
vero che, almeno nel momento iniziale di formazione della consuetudine, il
comportamento non è tanto sentito come giuridicamente quanto come
socialmente dovuto. Se non si facesse leva sull’opinio juris, mancherebbe però
la possibilità di distinguere tra mero ‘uso’, determinato ad es. da motivi di
cortesia, di cerimoniale ecc., e consuetudine produttiva di norme giuridiche.
L’esistenza o meno dell’opinio juris è poi il solo criterio utilizzabile per ricavare
una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale: i trattati costituiscono
uno dei punti di riferimento più utilizzati nella costruzione di una regola
consuetudinaria internazionale, ma possono essere interpretati sia come
conferma di norme consuetudinarie già esistenti, sia come creazione di nuove
norme e limitate ai rapporti fra Stati contraenti; e per l’appunto solo
un’indagine sull’opinio juris, solo la ricerca tendente a stabilire se gli Stati
contraenti abbiano inteso il vincolo contrattuale nel primo o nel secondo senso
può consentire, o escludere, l’utilizzazione di tutta una serie di trattati come
prova dell’esistenza di una norma consuetudinaria.
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principio generale di diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia
uniformemente seguito nella più gran parte degli Stati, ne deriva che la
ricostruzione di un principio del genere può consentire al giudice di uno Stato
di farne applicazione anche quando il principio medesimo non esista
nell’ordinamento statale; ciò sempre che, come di solito avviene,
l’ordinamento interno imponga l’osservanza del diritto internazionale. Ad es. i
principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali fanno parte, al pari
delle norme consuetudinarie, dell’ordinamento italiano, in virtù dell’art. 101
Cost. (“L’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute”); dato che, in virtù dell’art. 10 Cost., la contrarietà
di una legge ordinaria italiana al diritto internazionale generale comporta
l’illegittimità costituzionale della medesima, tale illegittimità potrà dichiararsi
anche in caso di contrarietà ad un principio generale di diritto riconosciuto
dalle Nazioni civili.
Una parte della dottrina (Quadri) pone al di sopra delle norme consuetudinarie
un’altra categoria di norme generali non scritte, i principi ‘costituzionali’
connaturati con la comunità internazionale. Questi sarebbero le norme
primarie del diritto internazionale, “espressione immediata e diretta della
volontà del corpo sociale” e comprenderebbero quelle norme volute e imposte
dalle “forze prevalenti” in un dato momento storico nell’ambito della comunità
internazionale. Tra i principi, alcuni avrebbero carattere formale, in quanto si
limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri carattere
materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente rapporti fra Stati. I principi
formali sarebbero due: consuetudo est servanda e pacta sunt servanda.
L’osservanza delle consuetudini e degli accordi si spiegherebbe quindi in
quanto voluta e imposta dalle forze prevalenti della comunità internazionale.
Così consuetudine ed accordo sarebbero fonti di secondo grado. Ma la dottrina
comune in tema di gerarchia delle fonti internazionali considera la
consuetudine fonte primaria, esaurente il diritto internazionale generale,
mentre si ritiene che l’accordo, fonte secondaria, tragga la sua forza dalla
consuetudine (si ritiene cioè che la norma pacta sunt servanda sia una norma
consuetudinaria). I principi materiali potrebbero avere qualunque contenuto
(Quadri cita quello che ha sancito la libertà dei mari). Ciò che non convince è
che, seguendo tale tesi, un gruppo di Stati o anche un solo Stato potrebbe
imporre, disponendo della forza necessaria, la propria volontà a tutti gli altri
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L’art. 13 della Carta ONU prevede che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite
intraprenda studi e faccia raccomandazioni per “…incoraggiare lo sviluppo
progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione…”. Sulla base di
questa disposizione l’Assemblea costituì (1947) come proprio organo
sussidiario la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite. Questa
è composta da esperti che vi siedono a titolo personale (cioè da individui che
non rappresentano alcun Governo) ed ha il compito di provvedere alla
preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie relative a
determinate materie. Si può dire che l’epoca delle grandi codificazioni si è
conclusa e la Commissione si occupa attualmente di temi assai specifici.
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Fin dai primi anni di vita, l’Assemblea ha seguito la prassi di emanare, in forma
più o meno solenne, delle Dichiarazioni contenenti una serie di regole che
talvolta riguardano rapporti fra Stati ma più spesso riguardano rapporti interni
alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con
gli stranieri. Tra le principali dichiarazioni è da ricordare la Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo (1948). Le Dichiarazioni di principi non
costituiscono un’autonoma fonte di norme internazionali generali. L’Assemblea
generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi mondiali (l’atto tipico che
essa può emanare in base alla Carta è la raccomandazione) e il carattere non
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I trattati possono dar vita sia a regole materiali, cioè a norme che direttamente
disciplinano i rapporti fra destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti,
sia a regole formali o strumentali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti
per la creazione di ulteriori norme. Tra gli accordi istitutivi di fonti acquistano
oggi grande importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali, i
quali, oltre a disciplinare direttamente certi rapporti fra Stati membri,
demandano agli organi sociali la produzione di norme ulteriori.
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Secondo l’art. 102 della Carta ONU ogni trattato o accordo internazionale
‘deve’ essere registrato presso il Segretariato delle Nazioni Unite e pubblicato a
cura di quest’ultimo: unica conseguenza dell’omessa registrazione è
l’impossibilità di invocare il trattato innanzi ad un organo delle Nazioni Unite.
La registrazione non è dunque un requisito di validità del trattato.
Normalmente, tutti gli accordi internazionali sono pubblicati nella raccolta
ufficiale dell’ONU, la United Nations Treaty Series.
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concludenti delle parti, risulti che le medesime hanno inteso attribuire alla
firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà. L’art. 12 della
Convenzione di Vienna dice che “Il consenso di uno Stato ad essere vincolato da
un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di questo Stato: a)
quando il trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b) quando è in altro
modo stabilito che gli Stati partecipanti ai negoziati abbiano convenuto di
attribuire tale effetto alla firma; c) quando l’intenzione dello Stato di dare tale
effetto alla firma risulta dai pieni poteri del suo rappresentante o è stato
espresso nel corso della negoziazione”. A tale categoria di accordi sono da
riportare anche gli scambi di note diplomatiche o di altri strumenti simili,
sempre che dagli strumenti medesimi o aliunde si ricavi l’intenzione delle parti
di vincolarsi immediatamente. Per aversi un accordo in forma semplificata è
necessario che dal testo o dalle circostanze risulti una sicura volontà di
obbligarsi; ciò perchè la prassi internazionale conosce numerosi casi di intese
tra Governi, cui spesso si dà il nome di accordi, ma che non hanno natura di
accordi in senso giuridico. In una zona di confine fra intese non giuridiche e
accordi in forma semplificata si collocano gli accordi sull’applicazione
provvisoria dei trattati, che si hanno quando le parti prevedono che il trattato
si applichi provvisoriamente in attesa della sua entrata in vigore. La
competenza a concludere accordi in forma semplificata, al pari della
competenza a ratificare, è regolata da ciascuno Stato con proprie norme
costituzionali. Circa l’ordinamento italiano, la stipulazione in forma semplificata
è da escludere solo quando l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui
all’art. 80 Cost. (trattati aventi natura politica, che prevedono arbitrati o
regolamenti giudiziari, che importano variazioni del territorio od oneri alle
finanze o modificazioni di leggi); in tutti gli altri casi il Potere esecutivo è libero
di decidere, insieme alle altre parti contraenti, che forma dare all’accordo e che
procedura seguire (tale tesi, nel silenzio della nostra Costituzione, è ricavata da
un’interpretazione sistematica degli artt. 80 e 87 Cost. e sembra essere
confortata dai lavori dell’Assemblea Costituente).
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Figure intermedie fra gli accordi in forma semplificata e gli accordi solenni sono
gli accordi che espressamente subordinano la propria entrata in vigore alla
comunicazione, da parte di ciascun Governo firmatario, che sono state
adempiute le procedure previste dal diritto interno per “rendere applicabile nel
territorio dello Stato” l’accordo medesimo. Quando tali accordi toccano materie
rientranti nell’art. 80 devono ricevere anch’essi l’assenso del Parlamento con
una legge di approvazione oppure con una legge contenente l’ordine di
esecuzione.
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10. Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. L’incompatibilità tra
norme convenzionali.
Per il trattato internazionale vale ciò che si dice per il contratto di diritto
interno: esso fa legge fra le parti e solo fra le parti. Diritti ed obblighi per terzi
Stati non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche forma
di partecipazione dei terzi Stati al medesimo. Le parti di un trattato possono
sempre impegnarsi a tenere comportamenti che risultano vantaggiosi per i
terzi (ad es. gli accordi in tema di navigazione su fiumi, canali e stretti
internazionali, pur intercorrendo fra un numero limitato di paesi, sanciscono di
solito la libertà di navigazione per le navi di tutti gli Stati), ma tali vantaggi,
finché non si trasformino in diritti attraverso la partecipazione del terzo
all’accordo, possono sempre essere revocati ad libitum dalle parti contraenti. Il
diritto del terzo di esigere l’applicazione del trattato o di opporsi alla sua
abrogazione è sempre stato negato dalla prassi. L’art. 34 della Convenzione di
Vienna del 1969 sancisce, come regola generale, che “un trattato non crea
obblighi o diritti per un terzo Stato senza il suo consenso”; l’art. 35 specifica che
un obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di un terzo
Stato “se le parti contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e se lo
Stato accetta espressamente per iscritto l’obbligo medesimo”; l’art. 36 prevede
che un diritto possa nascere a favore di uno Stato terzo solo se questo vi
consenta, ma aggiunge che il consenso si presume finché non vi siano
“indicazioni contrarie” e sempre che il trattato non disponga altrimenti; l’art. 37
autorizza i contraenti originari revocare quando vogliono il ‘diritto’ accettato
dal terzo, a meno che non ne abbiano previamente stabilita in qualche modo
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La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del
trattato o di accettarle con talune modifiche oppure secondo una determinata
interpretazione (c.d. dichiarazione interpretativa); cosicché tra lo Stato autore
della riserva e gli altri Stati contraenti , l’accordo si forma solo per la parte non
investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente applicabile tra gli
altri Stati. La riserva ha senso nei trattati multilaterali ed ha lo scopo di
facilitare la più larga partecipazione. Secondo il diritto internazionale classico,
la possibilità di apporre riserve deve essere tassativamente concordata nella
fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato
predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, si riteneva che uno Stato non
avesse altra alternativa che quella di ratificare o meno il trattato. Due erano i
modi per apporre riserve: o i singoli Stati dichiaravano al momento della
negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo si faceva
menzione di tale riserva; oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di
apporre riserve al momento della ratifica o dell’adesione, specificando quali
articoli potessero formare oggetto di riserva. La formulazione di riserve non
previste dal testo comportava l’esclusione dello Stato autore della riserva dal
novero dei contraenti ed equivaleva piuttosto alla proposta di un nuovo
accordo. L’istituto si è notevolmente evoluto. Tappa fondamentale è il parere
(1951) della Corte Internazionale di Giustizia reso all’Assemblea generale
dell’ONU: questa chiedeva se, non prevedendo la Convenzione sulla
repressione del genocidio (1948) la facoltà di apporre riserve, gli Stati
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informato e se non si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico o minoris
generis, vi è materia perché scattino i meccanismi di controllo del Legislativo
sull’Esecutivo. Circa i riflessi internazionalistici, la riserva aggiunta dal Governo
e dichiarata all’atto di deposito della ratifica è, per il diritto internazionale,
valida. Nel caso, molto teorico, di riserva contenuta nella legge di
autorizzazione ma di cui il Governo non tenga conto, per la parte coperta dalla
riserva sarà configurabile una violazione grave del diritto interno e dovrà
ritenersi che lo Stato non resti impegnato per detta parte se e finché il
Parlamento non revochi espressamente o implicitamente la riserva.
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quella più favorevole alla parte più onerata (principio del favor debitoris) o al
contraente più debole. Circa l’interpretazione estensiva e, in particolare
l’analogia, è da abbandonare l’opinione per cui i trattati vadano interpretati
sempre restrittivamente in quanto comporterebbero una limitazione della
sovranità e della libertà degli Stati.
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Può darsi che una parte del territorio di uno Stato passi, per effetto di cessione
o di conquista, sotto la sovranità di un altro Stato già esistente, oppure si
costituisca in Stato indipendente; può darsi invece che il cambiamento di
sovranità riguardi l’intero territorio dello Stato, oppure si smembri e dia luogo a
più Stati nuovi, o infine venga a trovarsi, in seguito ad eventi rivoluzionari, sotto
un apparato di governo radicalmente nuovo. Alla ‘successione degli Stati
rispetto ai trattati’ è dedicata la Convenzione di Vienna del 1978 (entrata in
vigore nel 1996), complementare alla Convenzione di Vienna del 1969. Per l’art.
7 la Convenzione si applica “alle successioni fra Stai che siano intervenute dopo
l’entrata in vigore della Convenzione…”; se però uno Stato successore aderisce
alla Convenzione, la sua adesione retroagisce fino al momento in cui la
successione è avvenuta, sempre che, in quel momento, la Convenzione fosse
già in vigore. La ratio della norma sta nel fatto che in molti casi lo Stato che si
sostituisce ad un altro nel governo di un territorio è uno Stato nuovo, e che
pertanto la Convenzione non potrebbe applicarsi in molti casi qualora si
pretendesse che lo Stato successore fosse già parte contraente al momento
della successione. Uno Stato successore può addirittura dichiarare di voler
applicare la Convenzione ad una successione intervenuta prima della stessa
entrata in vigore di quest’ultima, ma una tale dichiarazione varrà solo nei
confronti di quelle parti contraenti che abbiano a loro volta dichiarato di
accettarla.
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Il principio della tabula rasa si applica anzitutto nell’ipotesi del distacco di una
parte del territorio di uno Stato. Può darsi che la parte di territorio distaccatasi
si aggiunga, per effetto di cessione o di conquista, al territorio di un altro Stato
preesistente (trasferimento); in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che
subisce il distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio distaccatosi
e si estendono in modo automatico gli accordi vigenti nello Stato che acquista il
territorio: la dottrina parla di mobilità delle frontiere dei trattati. Può darsi
invece che sulla parte distaccatasi si formino uno o più Stati nuovi (secessione);
anche in tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di
avere vigore nel territorio che acquista l’indipendenza. La prassi depone a
sfavore della Convenzione di Vienna del 1978 nella parte in cui essa enuncia il
principio della continuità dei trattati nelle ipotesi di secessione da Potenze non
coloniali. Sul problema della secessione non influiscono i c.d. accordi di
devoluzione, con cui lo Stato indipendente consente a subentrare nei trattati
conclusi dalla ex madrepatria: l’accordo, non potendo avere efficacia rispetto
alle altre parti contraenti dei trattati devoluti, pone soltanto l’obbligo per la ex
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nuovi tra loro e, allorché si tratti di debiti pecuniari, l’accollo non si ispira a
principi di diritto internazionale, bensì al fine pratico di evitare di interrompere
il flusso dei crediti dall’estero.
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in tutti i casi di vizi non frequenti. Circa le cause di estinzione vanno ricordate:
la condizione risolutiva, il termine finale, la denuncia o il recesso (l’atto
formale con cui lo Stato dichiara alle parti contraenti la volontà di sciogliersi dal
trattato, sempre che la possibilità di denunciare o recedere sia espressamente
o implicitamente prevista dallo stesso trattato), l’inadempimento della
controparte, la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, l’abrogazione
totale o parziale, espressa o per incompatibilità, mediante accordo successivo
tra le stesse parti.
Per uso della forza come causa di invalidità dei trattati deve intendersi l’uso
della forza nei rapporti internazionali, ossia la violenza di tipo bellico: solo
questo tipo di violenza è in grado di costituire un male notevole per lo Stato nel
suo complesso. Altro è l’uso della forza interna, ossia l’esercizio del potere di
governo, ivi comprese tutte le possibili misure di carattere coercitivo sugli
individui. Se uno Stato sottopone a misure detentive i cittadini di un altro Stato,
ciò può giustificare l’adozione di misure di autotutela, di analogo contenuto, da
parte dello Stato offeso, ma non si può dire che l’eventuale trattato, concluso
per porre fine all’illecito esercizio del potere di governo, sia viziato da violenza,
ancorché disponga nel senso voluto dallo Stato offensore.
Il problema dei trattati ineguali, ossia dei trattati rispetto ai quali una parte
non abbia disposto di un ampio margine di potere contrattuale, non si risolve
sul piano della validità: l’ineguaglianza può trovare una correzione solo sul
piano interpretativo (se si esamina la giurisprudenza degli Stati vinti relativa ai
trattati di pace, può notarsi la tendenza ad interpretare in modo restrittivo
certe clausole particolarmente favorevoli agli Stati).
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Si discute se sia causa di estinzione dei trattati la guerra. Ovvio è che, fatti salvi
certi trattati quali sono stipulati proprio in vista della guerra e che
appartengono pertanto al c.d. diritto internazionale bellico, gli accordi conclusi
dagli Stati belligeranti prima della guerra non trovino applicazione finché
durano le ostilità. La regola classica, a favore dell’estinzione, si è andata
affievolendo; la prassi si è orientata sempre più nel senso delle eccezioni: si è
negato l’effetto estintivo della guerra in ordine ai trattati multilaterali; si è
manifestata nella giurisprudenza interna la tendenza a considerare estinte
soltanto quelle convenzioni che, per loro natura, siano incompatibili con lo
stato di guerra. L’argomento della guerra è da riportare dunque sotto la
disciplina della clausole rebus sic stantibus, verificando di volta in volta se la
guerra abbia determinato un mutamento radicale di circostanze.
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interni) non può non decidere se il trattato sia ancora in vigore o se viceversa
esso sia affetto da una causa di invalidità o di estinzione. Trattasi però di una
decisione che vale solo per il caso concreto, non vincolante per i casi successivi.
La denuncia serve a scopi diversi. L’atto formale di denuncia, notificato alle
Parti contraenti o al depositario del trattato, implica la volontà dello Stato di
sciogliersi una volta per tutte dal vincolo contrattuale. Una simile
manifestazione di volontà, quando non è esercizio di un potere di denuncia
previsto dallo stesso trattato ed esercitabile ad libitum ma si fonda su un’altra
causa di invalidità o di estinzione, non è indispensabile; se lo Stato vi ricorre è
per far risaltare in modo certo e definitivo che, a suo giudizio, il trattato non è
applicabile o non è più applicabile in quanto invalido o estinto. La denuncia
vincola alla disapplicazione interna; unica condizione a tal fine è che essa
promani dagli organi competenti a manifestare la volontà dello Stato in ordine
ai rapporti internazionali. Ma gli altri Stati contraenti non sono, indubbiamente,
vincolati alla unilaterale manifestazione di volontà dello Stato denunciante;
cosicché, in caso di disaccordo sull’effettiva insorgenza della causa di invalidità
o di estinzione, il trattato entrerà in una fase di incertezza sul piano
internazionale, dalla quale potrà uscirsi solo con un nuovo accordo oppure, ove
possibile, con la sentenza di un giudice internazionale. Circa la determinazione
degli organi dello Stato competenti a denunciare il trattato, occorre rifarsi,
come per la competenza a stipulare, ai principi costituzionali di ciascuno Stato.
In Italia, la prassi indica che tale competenza spetta al Potere esecutivo, ma la
situazione si sta evolvendo verso una sempre maggiore collaborazione fra
Governo e Parlamento.
In questo quadro vanno inserite le regole della Convenzione di Vienna del 1969
(artt. 65 68). Lo Stato che invoca un vizio del consenso, o altra causa di
invalidità o di estinzione, deve notificare per iscritto la sua pretesa alle altre
Parti contraenti del trattato in questione. Se, trascorso un termine che non può
essere inferiore a tre mesi salvo il caso di particolare urgenza, non vengono
manifestate obiezioni, lo Stato può definitivamente dichiarare, con un atto
comunicato alle altre Parti, e che deve essere sottoscritto dal Capo dello Stato,
o del Governo o dal Ministro degli Esteri, che il trattato è da ritenersi invalido o
estinto. Se, invece, vengono sollevate obiezioni, lo Stato che intende sciogliersi
e la Parte o le Parti obiettanti devono ricercare una soluzione della controversa
con mezzi pacifici (negoziati, conciliazione, arbitrato, ecc.). La soluzione deve
intervenire entro dodici mesi; trascorso inutilmente tale termine, ciascuna
parte può mettere in moto una complessa procedura conciliativa che fa capo
ad una Commissione delle Nazioni Unite, che non sfocia però in una decisione
obbligatoria ma solo in un rapporto dal valore esortativo (non è detto cosa
succede se la Parte o le Parti controinteressate respingano il rapporto che si
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I trattati possono contenere non solo regole materiali ma anche regole formali
o strumentali, regole cioè che istituiscono ulteriori procedimenti o fonti di
produzione di norme. L’esempio più importante è l’organizzazione
internazionale: in tutti i casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata
dal trattato che le dà vita ad emanare decisioni vincolanti per gli Stati membri,
si è in presenza di una fonte prevista da accordo (fonte di terzo grado). Il
numero delle organizzazioni esistenti è impressionante, ma solo alcune di esse,
e solo in alcuni casi, dispongono di un vero e proprio potere decisionale. Il loro
compito è generalmente quello di facilitare la collaborazione fra Stati membri e
la loro attività si svolge il più spesso in una fase dallo scarso valore giuridico
consistendo nella mera predisposizione di progetti di convenzioni. Altra
attività normalmente svolta dalle organizzazioni internazionali è costituita
dall’emanazione di raccomandazioni, atti cha hanno valore esortativo. Le
risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono essere normalmente
prese a maggioranza, magari qualificata; ma poiché gli Stati non amano
sottostare alle altrui deliberazioni, non è rara la ricerca dell’unanimità. Si è poi
andata diffondendo la pratica del consensus, che consiste nell’approvare una
risoluzione senza votazione formale, di solito con una dichiarazione del
presidente dell’organo la quale attesta l’accordo fra i membri: tale pratica non
è del tutto positiva perché finisce col dare alle risoluzioni contenuti vaghi e di
compromesso.
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Svizzera non ne fa parte. L’art. 7 della Carta elenca gli organi principali. Il
Consiglio di Sicurezza è composto da 15 membri, di cui 5 siedono a titolo
permanente (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) godendo del
diritto di veto (cioè del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione di
qualsiasi delibera che non abbia mero carattere procedurale); gli altri 10
membri sono eletti per un biennio dall’Assemblea. Ha una competenza relativa
a questioni attinenti al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale ed è l’organo di maggior rilievo nell’ambito dell’Organizzazione,
per l’evidente importanza delle questioni di sua competenza e perché, in taluni
casi, dispone di poteri decisionali vincolanti. Nell’Assemblea generale, che al
contrario ha una competenza vastissima ratione materiae ma quasi nessun
potere vincolante, sono rappresentati tutti gli Stati e tutti hanno pari diritto di
voto. Il Consiglio economico e sociale è composto da membri eletti
dall’Assemblea per tre anni; sia esso che il Consiglio di Amministrazione
fiduciaria (il quale è adesso senza lavoro, avendo svolto per decenni il controllo
sull’amministrazione di territori di tipo coloniale) sono in posizione subordinata
rispetto all’Assemblea generale, in quanto sono tenuti a seguirne le direttive ed
in certi casi il loro compito si limita addirittura alla preparazione di atti che
vengono poi formalmente adottati dall’Assemblea. Il Segretariato o, meglio, il
Segretario generale che ne è capo, e che è nominato dall’Assemblea su
proposta del Consiglio di Sicurezza, è l’organo esecutivo dell’Organizzazione. La
Corte Internazionale di Giustizia è composta da 15 giudici ed ha sia la funzione
di dirimere le controversie fra Stati sia una funzione consultiva, in quanto può
dare pareri su qualsiasi questione giuridica all’Assemblea generale o al
Consiglio di Sicurezza oppure ad altri organi su autorizzazione dell’Assemblea; i
pareri non sono né obbligatori né vincolanti.
L’art. 7 della Carta prevede che organi sussidiari possano essere istituiti “ove si
rivelino necessari”; esiste tutta una serie di organi permanenti che svolgono
funzioni di rilievo anche se non sono dotati di poteri vincolanti: i più importanti
sono l’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo),
l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), l’UNICEF (Fondo delle
Nazioni Unite per l’infanzia), l’UNHCR (Alto Commissariato per i rifugiati),
l’UNITAR (Istituto delle Nazioni Unite per l’insegnamento e la ricerca), l’UNEP
(Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente).
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In rari casi le decisioni dell’ONU sono vincolanti e sono fonti previste dalla
Carta. Circa l’Assemblea generale, un caso importante è dato dall’art. 17, che le
attribuisce il potere di ripartire fra gli Stati membri le spese
dell’Organizzazione, ripartizione che, approvata a maggioranza di due terzi,
vincola tutti gli Stati (lo Stato membro in arretrato di due annualità di contributi
non ha diritto di voto in Assemblea). A tale caso deve aggiungersi quello della
competenza dell’Assemblea a decidere, con efficacia vincolante per gli Stati
membri, circa modalità e tempi per la concessione dell’indipendenza ai
territori sotto dominio coloniale: siffatta competenza non trova fondamento
nella Carta ma in una norma consuetudinaria formatasi nell’ambito delle
Nazioni Unite. Circa il Consiglio di Sicurezza, le decisioni vincolanti sono quelle
previste dal Cap. VII della Carta (artt. 39 ss.) intitolato ‘Azione rispetto alle
minacce alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione’. Nucleo
centrale sono gli artt. 41 e 42 riguardanti rispettivamente le misure non
implicanti e quelle implicanti l’uso della forza contro uno Stato che abbia anche
solo minacciato la pace. A parte l’art. 42, in base al quale il Consiglio “può
intraprendere” azioni di tipo bellico contro uno Stato e che quindi si presta
poco ad essere inquadrato tra le fonti di norme internazionali, l’art. 41 prevede
le c.d. sanzioni: attribuisce al Consiglio di Sicurezza il potere di deliberare quali
misure non implicanti l’uso della forza armata debbano essere adottate dagli
Stati membri contro uno Stato che minacci o abbia violato la pace, ed indica tra
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WTO (World Trade Organization); del tutto indipendente dalle Nazioni Unite,
l’Organizzazione Mondiale del Commercio, creata nel 1994 e di cui fanno parte
135 Stati (fra cui l’Italia), ha come organi principali: la Conferenza ministeriale,
in cui tutti i membri sono rappresentati e che si riunisce ogni due anni; il
Consiglio generale, composto dai rappresentanti di tutti i membri e che si
riunisce nell’intervallo delle riunioni della Conferenza; il Segretariato, con a
capo un Direttore generale; l’Organizzazione fornisce un forum per lo
svolgimento dei negoziati relativi alle relazioni commerciali multilaterali e
tendenti alla massima liberalizzazione del commercio mondiale
(‘globalizzazione’ dei mercati): sono complessi negoziati che prima si
svolgevano in seno all’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (GATT),
fuori da un quadro istituzionale; l’Organizzazione veglia sull’esecuzione di tutta
una serie di accordi annessi allo Statuto come integrazioni di quest’ultimo;
annessi allo Statuto sono lo stesso GATT, il GATS (Accordo generale sugli
scambi dei servizi) e il TRIPs (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di
proprietà intellettuale); la Conferenza e il Consiglio possono adottare, a
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maggioranza dei tre quarti dei membri, decisioni vincolanti con cui fornire
un’interpretazione delle norme dello Statuto o dispensare uno Stato membro
dall’osservanza degli obblighi derivanti dalle norme medesime; altrettanto può
fare un altro organo dell’Organizzazione, deputato alla soluzione delle
controversie, il Dispute Settlement Body.
Nel campo della tutela dell’ambiente e della conservazione delle risorse sono
stati creati vari organismi che prendono decisioni vincolanti di carattere
tecnico. Sono detti ‘organismi’ in quanto i trattati che li prevedono non danno
luogo a vere e proprie organizzazioni distinte dagli Stati membri, non creano un
insieme permanente di organi ma demandano un certo potere normativo alla
assemblea degli Stati contraenti. Le decisioni vincolanti, di solito emanate sotto
forma di annessi o allegati al trattato istitutivo, derivano la loro forza vincolante
dal trattato istitutivo medesimo e sono fonti di norme internazionali di terzo
grado.
Con il Trattato di Parigi (1951) venne creata la CECA (Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio), scaduta nel 2002 e non più rinnovata; ad essa
seguirono i Trattati di Roma (1957), con cui vennero create la CEE (Comunità
Economica Europea), oggi denominata CE (Comunità Europea), e l’Euratom o
CEEA (Comunità Europea dell’Energia Atomica). Modifiche di rilievo sono state
apportate da vari trattati successivi: Atto Unico europeo (in vigore dal 1987),
Trattato di Maastricht, o Trattato sull’Unione europea (in vigore dal 1993),
Trattato di Amsterdam (in vigore dal 1999) e Trattato di Nizza (in vigore dal
2003). Il Trattato di Maastricht ha dato vita all’Unione europea, che si fonda
sulle due Comunità ed inoltre su azioni comuni in politica estera e di sicurezza e
su una cooperazione tra gli Stati membri nel settore della giustizia e degli affari
interni (i c.d. tre ‘pilastri’ sui quali poggia l’Unione). Dell’Unione europea fanno
parte 25 Stati, di cui sei (Belgio, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia e
Germania) fin dall’inizio.
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fra gli Stati membri un’integrazione più stretta. Vanno ricordati anche gli
accordi di Schengen (1985) che hanno soppresso i controlli sulle persone alle
frontiere e sono poi confluiti nel Trattato CE. La CECA aveva carattere settoriale
e tale è il carattere dell’Euratom. Con la CE si è invece in presenza di
un’organizzazione che investe tutta la vita economica e sociale degli Stati
membri; il Trattato istitutivo prevede quattro ‘libertà fondamentali’: la libera
circolazione delle merci (unione doganale), la libera circolazione delle persone,
la libera circolazione dei servizi, la libera circolazione dei capitali; gli organi
comunitari intervengono per garantire, all’interno di un unico mercato interno,
la libera concorrenza, una politica agricola comune, una politica comune dei
trasporti e una politica commerciale comune.
L’azione degli organi delle Comunità dipende in larga misura dalla volontà
politica degli Stati membri. tale azione deve svolgersi secondo i principi della
proporzionalità e della sussidiarietà previsti dall’art. 5 del Trattato CE, deve
cioè mantenersi entro i limiti necessari per il raggiungimento degli obiettivi del
Trattato e, nelle materie che non sono di esclusiva competenza comunitaria,
intervenire solo se l’azione degli Stati membri non è sufficiente a realizzare
detti obiettivi. Le Comunità presentano elementi che non si riscontrano in
alcuna altra organizzazione internazionale, come gli ampi poteri decisionali
attribuiti ai loro organi, la loro sostituzione agli Stati membri nella disciplina di
molti rapporti puramente interni a questi ultimi, l’esistenza di una Corte di
Giustizia destinata a controllare la conformità ai loro trattati istitutivi dei
comportamenti degli organi e degli Stati membri, ecc. Tra i principi del diritto
comunitario ve ne sono certamente alcuni che sono propri del vincolo federale,
primo fra tutti il principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto
interno. Ciò nonostante le Comunità nel loro complesso restano delle
organizzazioni internazionali, sia pure altamente sofisticate, la sovranità degli
Stati membri non potendo considerarsi degradata, neppure nelle materie di
competenza comunitaria, ad autonomia.
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accordi è prevista dall’art. 300 che indica gli organi della Comunità competenti
per i trattati (Commissione per i negoziati e Consiglio, previa consultazione, o in
certi casi su ‘parere conforme’ del Parlamento, per la manifestazione di volontà
diretta ad impegnarsi), stabilendo anche che la Corte di Giustizia possa essere
chiamata a dare in via preventiva un parere circa la compatibilità dell’accordo
con le disposizioni del Trattato; aggiunge inoltre che “gli accordi conclusi alle
condizioni suindicate sono vincolanti per le istituzioni delle Comunità e per gli
Stati membri”: viene sancita un’eccezione al principio generale valevole per le
organizzazioni internazionali, secondo cui gli accordi stipulati da
un’organizzazione restano estranei alla sfera giuridica degli Stati membri. Gli
accordi in questione si situano nell’ordinamento comunitario a metà strada fra
il Trattato CE e gli atti delle istituzioni: essi non possono derogare al Trattato,
ma non possono a loro volta essere derogati dalle istituzioni. Anche l’Unione
europea ha competenza a stipulare accordi internazionali nel quadro della
politica estera e di sicurezza comune. L’art. 310 prevede inoltre la conclusione
di convenzioni di associazione: “La Comunità può concludere con uno o più
Stati o organizzazioni internazionali, accordi che istitutiscono un’associazione
caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da
procedure particolari”. L’art. 133 tratta invece degli accordi commerciali,
contenendo una elencazione, esemplificativa e non tassativa, che comprende
gli accordi tariffari, commerciali e quelli che si collegano alle misure di
liberalizzazione, alla politica di esportazione e alle misure di difesa
commerciale. Ad essi vanno aggiunti gli accordi in materia di politica monetaria,
di ricerca e di sviluppo tecnologico, di politica ambientale e di cooperazione allo
sviluppo.
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PARTE SECONDA
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21. Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della
forza internazionale ed interna agli Stati.
Si tratti di forza internazionale o di forza interna, ciò che è limitato dal diritto
internazionale è sempre l’azione esercitata dallo Stato su persone o cose. Si
dice che certi fenomeni, essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con
modalità che non possono essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di
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governo dello Stato: lo si è detto per le comunicazioni via radio, poi per le
attività spaziali e lo si dice oggi per le comunicazioni via internet. In realtà, lo
Stato può governare, magari soltanto nei luoghi di partenza o di arrivo, le
attività umane (si pensi alle regole che uno Stato emana per disciplinare il
commercio elettronico).
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23. I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del c.d. dominio riservato e il
rispetto dei diritti umani.
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diritti umani non può dirsi consumata, o comunque non può farsi valere sul
piano internazionale, finché esistono nell’ordinamento dello Stato offensore
rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire
all’individuo offeso una congrua riparazione.
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Importanti sono gli accordi sui prodotti di base (ad es., juta, caffè, zucchero,
grano, cacao, gomma naturale) che tendono a stabilizzare il prezzo del
prodotto e a renderlo remunerativo per i Paesi produttori, di solito i Paesi in via
di sviluppo, ed equo per i Paesi consumatori; le convezioni commerciali ispirate
al principio del trattamento preferenziale dei Paesi in sviluppo (c.d. sistema
generalizzato delle preferenze); gli accordi che prevedono assistenza tecnica,
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Non bisogna poi confondere gli obblighi dello Stato sul piano internazionale con
quelli degli individui, persone fisiche o giuridiche, o, al limite, dello stesso Stato,
sul piano interno: se un’industria, pubblica o privata, provoca danni nel
territorio di un altro Stato, può essere chiamata a rispondere presso innanzi ai
giudici di questo Stato, nel quadro del normale esercizio della sovranità
territoriale; oppure può essere chiamata a rispondere innanzi ai giudici dello
stesso Stato dal cui territorio proviene l’inquinamento. Responsabilità di diritto
interno si ha quando si parla del principio “chi inquina paga” come un principio
di diritto internazionale, che si limiterebbe ad imporre allo Stato di apprestare
gli strumenti affinché la responsabilità dell’inquinatore possa essere fatta
valere al suo interno.
A parte gli usi nocivi, ci si chiede se esista un obbligo per lo Stato di gestire
razionalmente le risorse del proprio territorio secondo i principi dello sviluppo
sostenibile (ossia contemperando le esigenze del proprio sviluppo economico
con quelle della tutela ambientale), della responsabilità intergenerazionale
(ossia salvaguardando le esigenze delle generazioni future) e dell’approccio
precauzionale (ossia evitando di invocare la mancanza di piene certezze
scientifiche allo scopo di rinviare l’adozione di misure dirette a prevenire gravi
danni all’ambiente); la risposta, in assenza di dati sicuri dalla prassi, non può
che essere negativa.
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Circa gli investimenti stranieri, si tratta di fare una sintesi fra le posizioni dei
Paesi in via di sviluppo, tendenzialmente favorevoli all’assoluta libertà dello
Stato territoriale, e le posizioni dei Paesi industrializzati, tendenzialmente
favorevoli alla massima protezione degli investimenti stranieri. Per il punto di
vista dei primi, può farsi capo all’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici
degli Stati, secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti
“in conformità alle sue leggi e regolamenti ed alle priorità ed obiettivi nazionali
di politica economica e sociale” e di adottare tutte le misure necessarie affinché
siffatta disciplina sia rispettata dagli stranieri, particolarmente dalle società
multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è chiaramente quello di evitare gli
abusi perpetrati in passato in ordine allo sfruttamento delle risorse dei territori
sottoposti a dominio coloniale o degli Stati più deboli, può anche essere
considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia
di investimenti, a patto però che la libertà dello Stato, che essa sembra sancire
senza alcun limite, non sia spinta al punto di negare un’equa remunerazione
del capitale straniero.
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giudichi pertinente…”. In definitiva, alla luce della prassi, può dirsi che l’obbligo
dell’indennizzo sussiste, che lo Stato nazionalizzante commette una violazione
del diritto internazionale solo quando è inequivoca la sua volontà di non
indennizzare, che l’accordo può anche sacrificare gli interessi del privato
espropriato.
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in via di sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, dottrina che prende il
nome dall’internazionalista e diplomatico argentino che l’abbozzò nel secolo
XIX (come reazione alla pretesa degli Stati europei di intervenire militarmente
negli Stati dell’America latina col pretesto di proteggere i propri sudditi) e
secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri
sarebbero di esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato locale. Ad una
simile dottrina si sono sempre ispirati gli Stati latino americani, tra l’altro
inserendo nei contratti delle imprese straniere una clausola di rinuncia da parte
di queste ultime alla protezione del proprio Stato (c.d. clausola Calvo). Alla
stessa dottrina si ispira l’art. 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli
Stati quando, a proposito delle nazionalizzazioni di beni stranieri, stabilisce che
“…ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in conformità
alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dei Tribunali di questo
Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di
ricercare altri mezzi pacifici sulla base dell’uguaglianza sovrana degli Stati
medesimi”. In effetti, nessuno può costringere uno Stato, che sia accusato di
aver violato le norme sul trattamento degli stranieri, a trattare la questione sul
piano internazionale o addirittura a risolverla mediante arbitrato, se esso non
abbia preventivamente e liberamente assunto obblighi convenzionali al
riguardo, così come nessuno può vietare allo Stato dello straniero di protestare,
di proporre arbitrati o di minacciare rappresaglie (e ciò anche in presenza di
una clausola Calvo, dato che con la protezione diplomatica lo Stato fa valere un
diritto proprio).
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Limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto
consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici; essi si concretano
nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche. La materia è anche regolata
dalla Convenzione di Vienna (1961), che corrisponde largamente al diritto
consuetudinario. Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati
presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso
entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento
in cui ne esce. La presenza dell’agente è, come quella di qualsiasi straniero,
subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà che si esplica, per
quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento (che precede
l’accreditamento) e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la c.d.
consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare, entro un certo tempo, il
Paese.
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compiuti nell’esercizio delle sue funzioni; simili atti non sono imputabili
all’agente, ma allo Stato straniero, perciò il diplomatico non può essere
chiamato a rispondere di tali atti neanche una volta cessate le sue funzioni. I
secondi sono coperti dall’immunità personale, salvo per quanto riguarda la
giurisdizione civile, le azioni reali concernenti immobili situati nel territorio
dello Stato accreditatario, le azioni successorie e quelle riguardanti attività
professionali o commerciali dell’agente e le domande riconvenzionali; la ratio
di quest’immunità sta esclusivamente nell’esigenza di assicurare all’agente il
libero ed indisturbato esercizio delle sue funzioni e ne consegue il carattere
squisitamente processuale dell’immunità: l’agente non è dispensato
dall’osservare la legge, ma è semplicemente immune dalla giurisdizione finché
si trova nel territorio dello Stato e finché esplica le sua funzioni; una volta
cessate queste ultime, egli potrà essere sottoposto a giudizio per gli atti o i
reati compiuti.
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Può ritenersi che l’immunità non sia invocabile dallo Stato citato in giudizio per
le conseguenze civilistiche di gravi violazioni dei diritti umani: per ora può
parlarsi di norma consuetudinaria in via di formazione. La prassi non autorizza
che l’immunità cada per tutte le norme di jus cogens, essendo limitata ai casi di
genocidio, tortura e simili.
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L’immunità della giurisdizione civile, nei limiti in cui è prevista per gli Stati,
viene riconosciuta anche agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche
pubbliche. La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimento di
cognizione sia all’esecuzione forzata su beni (a qualsiasi titolo) detenuti da uno
Stato estero: l’esecuzione forzata deve pertanto ritenersi ammissibile solo se
essa è esperita su beni non destinati ad una pubblica funzione.
A parte il caso in cui lo Stato estero sia convenuto in giudizio, nessun altro
limite la giurisdizione dello Stato territoriale incontra in tema di trattamento di
Stati stranieri. Senza fondamento è la dottrina dell’Act of State, dottrina
secondo cui una Corte interna non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge o
un altro atto di sovranità straniero (ad es. una legge richiamata dalle norme di
diritto internazionale privato), in quanto contraria al diritto internazionale o in
quanto illegittimamente adottata: le corti di uno Stato non potrebbero
controllare la legittimità internazionale o interna di leggi, sentenze ed atti
amministrativi stranieri che vengano in rilievo nei giudizi a loro sottoposti. Più
che una dottrina di diritto internazionale è considerata una sorta di
autolimitazione da parte delle corti, giustificata dalla necessità di non creare
imbarazzo al proprio Governo nei rapporti con i Governi stranieri.
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Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello
Stato territoriale, lo sono pure le organizzazioni internazionali. Anche per
queste ultime il problema più importante è quello dell’immunità in tema di
controversie di lavoro: l’immunità è esclusa se l’Organizzazione non ha, nel suo
ordinamento interno, un organo, di natura giudiziaria, che offra tutte le
71
30. Il diritto internazionale marittimo. Libertà dei mari e controllo degli Stati
costieri sui mari adiacenti.
Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio
della libertà dei mari. Tale principio si affermò nel corso dei secoli XVII e XVIII.
Furono gli olandesi a promuoverne l’osservanza, inducendo Inghilterra, Spagna
e Portogallo ad abbandonare le pretese al c.d. dominio dei mari. Il singolo Stato
non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi
marini da parte di altri Stati. Tale utilizzazione incontra il solo limite del rispetto
della pari libertà altrui: essa non può essere spinta dal singolo Stato fino al
punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi. In
contrapposizione alla libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli
Stati ad assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste.
Ancora nella seconda metà del XIX secolo sostanzialmente estranea era la
figura del mare territoriale, intesa come una fascia di mare costiero addirittura
equiparata al territorio dello Stato. La tendenza si è invertita ed il vecchio
principio della libertà dei mari oggi non appare più come la regola prima e
generale ma semmai come una delle regole che compongono il diritto
internazionale marittimo. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale
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vuole sostenere a tutti i costi che la vigilanza doganale possa essere esercitata
soltanto entro spazi determinati, si è soliti ricorrere alla teoria della ‘presenza
costruttiva’, ossia alla tesi secondo cui la nave che abbia contatti con la costa è
come se si trovasse negli spazi sottoposti al potere di governo dello Stato
costiero: tale teoria è una pura finzione.
L’art. 5 della Convenzione fissa il principio generale secondo cui la linea di base
per la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea. L’art.
7 riconosce la possibilità di derogare a detto principio ricorrendosi al sistema
delle linee rette: la linea di base del mare territoriale non è segnata seguendo
le sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa o, se vi
sono isole prossime alla costa, congiungendo le estremità delle isole; la linea di
base non deve “discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione generale della
costa”, le acque situate all’interno della linea devono essere “sufficientemente
legate al dominio terrestre per essere sottoposte al regime delle acque interne”
e si può tenere conto degli “interessi economici attestati da un lungo uso” delle
regioni costiere. L’art. 10 riguarda le baie. Se la distanza fra i punti naturali
d’entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare territoriale viene misurato
a partire dalla linea che congiunge detti punti e tutte le acque della baia sono
considerate come acque interne; se la distanza eccede le 24 miglia, può
tracciarsi all’interno della baia una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo
tale da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare possibile.
Sono considerate baie solo le insenature che penetrino in profondità nella
costa: ne consegue che i golfi, le baie ed ogni altra insenatura che abbiano
magari una lunga linea di entrata ma non presentino una profonda rientranza
nella costa, non ricadono sotto l’art. 10 e possono essere chiusi interamente.
L’art. 10 fa salve poi le ‘baie storiche’, cioè quelle su cui lo Stato costiero possa
vantare diritti esclusivi consolidatisi nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri
Stati.
L’Italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e
delle isole maggiori (D.P.R. n. 816/77). Di dubbia legittimità internazionale è la
chiusura del Golfo di Taranto, che ha un’apertura di circa 60 miglia ed è una
vera e propria baia ai sensi dell’art. 10.
Il primo limite ai poteri che spettano allo Stato costiero nel mare territoriale è
costituito dal c.d. diritto di passaggio inoffensivo o innocente da parte delle
navi straniere. Per gli artt. 17 ss. della Convenzione di Montego Bay ogni nave
straniera ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale, sia per
traversarlo, sia per entrare nella acque interne, sia per prendere il largo
provenendo da queste, e purché il passaggio sia “continuo e rapido”; il
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passaggio è inoffensivo “finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o
alla sicurezza dello Stato costiero”. Se il passaggio non è inoffensivo (manovre
con armi, propaganda ostile, inquinamento, pesca, ecc.), lo Stato costiero può
prendere tutte le misure atte ad impedirlo.
Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale segnano l’inizio della corsa
all’accaparramento delle risorse marine. Tale tendenza si è risolta nella
generale accettazione della dottrina della piattaforma continentale e, più
recentemente, dell’istituto della zona economica esclusiva. La prima,
enunciata dal Presidente americano Truman nel 1945, venne recepita dalla
Convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale (1958) ed è stata
trasfusa nella Convenzione di Montego Bay. La seconda si è affermata nella
Terza Conferenza sul diritto del mare (1973). Entrambe sono avallate dalla
consuetudine. L’Italia non ha introdotto la zona economica esclusiva, con il
risultato che zone di altri Stati (ad es. la Tunisia) arrivano a lambire il nostro
mare territoriale.
75
La zona economica esclusiva può estendersi fino a 200 miglia marine, limite
calcolato a partire dalla linea di base del mare territoriale. La delimitazione è
rimessa all’accordo fra Stati frontisti o contigui. Allo Stato costiero è attribuito il
controllo esclusivo su tutte le risorse economiche della zona, sia biologiche
che minerali, sia del suolo e del sottosuolo delle acque sovrastanti. La pesca è
la risorsa di maggior rilievo. Tale attribuzione di risorse allo Stato costiero non
deve pregiudicare la partecipazione degli altri Stati alle possibili utilizzazioni
della zona: tutti gli Stati continueranno a godere della libertà di navigazione, di
sorvolo, di posa di condotte e di cavi sottomarini. Si tratta di un regime non
improntato né alla libertà di tutti gli Stati né alla sovranità dello Stato costiero: i
diritti, sia dello Stato costiero che degli altri Stati, hanno carattere funzionale,
nel senso che sia all’uno che agli altri sono consentite solo quelle attività
indispensabili rispettivamente allo sfruttamento delle risorse e alle
comunicazioni e ai traffici marittimi ed aerei. I poteri dello Stato costiero
nell’ambito della zona economica esclusiva si confondono con quelli esercitabili
in base alla dottrina della piattaforma continentale. Solo oltre le 200 miglia,
pertanto, e sempre che la piattaforma si estenda geologicamente oltre tale
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77
Nella propria zona economica esclusiva lo Stato costiero può esercitare sulle
navi altrui tutti i poteri connessi allo sfruttamento delle risorse (ad es. visita,
cattura del carico, comminazione di sanzioni penali per infrazioni alle proprie
leggi sulla pesca, ecc.), nell’osservanza del principio funzionale, per cui non
sono giustificabili misure coercitive sproporzionate alle infrazioni commesse.
Nel proprio mare territoriale lo Stato costiero può esercitare il proprio potere
di governo sulle navi altrui, con gli unici limiti costituiti dal passaggio
inoffensivo e dalla sottrazione alla giurisdizione penale dello Stato costiero dei
fatti puramente interni alla comunità navale.
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l’inseguimento abbia avuto inizio nella acque interne o nel mare territoriale
oppure nella zona contigua, nella zona economica esclusiva o nella acque
sovrastanti la piattaforma continentale (ma in queste ultime tre zone
limitatamente all’inosservanza delle misure ivi consentite allo Stato costiero);
l’inseguimento deve essere continuo e sulla nave così catturata potranno
essere esercitati quei poteri esercitabili nella zona in cui l’inseguimento ha
avuto inizio; l’inseguimento deve cessare se la nave entra nel mare territoriale
di un altro Stato.
L’art. 91 della Convenzione di Montego Bay stabilisce che ogni Stato fissa le
regole per l’immatricolazione delle navi nei propri registri navali, ma aggiunge
che “deve esistere un legame sostanziale [genuine link] tra lo Stato e la nave”;
l’art. 94 precisa che il primo “esercita effettivamente la sua potestà di governo
e il suo controllo in campo amministrativo, tecnico e sociale” sulla seconda. Tale
regola corrisponde al diritto internazionale generale. La Convenzione ONU sulle
condizioni di immatricolazione delle navi (1986) richiede che alla proprietà
della nave partecipi un numero di cittadini dello Stato di immatricolazione
“sufficiente” per assicurare a quest’ultimo il controllo effettivo sulla nave, o che
l’equipaggio sia formato per una quota “soddisfacente” da cittadini o residenti
abituali nello Stato di immatricolazione.
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80
Come spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato vanno considerate le
regioni polari; circa l’Antartide, può parlarsi di territorio internazionalizzato,
nel senso che in esso non vige solo un regime di libertà ma anche un complesso
di norme che ne disciplina l’utilizzazione; circa l’Artide non sono mancate le
pretese di sovranità basate sulla c.d. teoria dei settori, per la quale gli Stati i cui
territori si estendono al di là del circolo polare dovrebbero considerarsi come
sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi, inclusi in un triangolo avente
il vertice nel Polo Nord e la base in una linea che congiunge i punti estremi delle
coste di ciascuno Stato. La pretese di sovranità sui territori polari sono sempre
state respinte dalla maggioranza degli Stati in quanto non sorrette
dall’effettività dell’occupazione. La mancanza di sovranità territoriale comporta
che ciascuno Stato eserciti il proprio potere sulle comunità che ad esso fanno
capo; circa le comunità navali, si tratta del normale potere dello Stato della
bandiera; nel caso di spedizioni scientifiche o di basi su terraferma, lo Stato che
le organizza esercita il proprio potere su tutte le persone, cittadini o stranieri,
che le compongono (con l’eccezione del personale scientifico scambiato fra le
basi, nonché degli osservatori inviati a controllare il rispetto del Trattato
sull’Antartide, che sono sottoposti ai rispettivi Stati nazionali). L’Antartide è
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PARTE TERZA
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dello Stato. Neppure può ritenersi che costituisca un impedimento alla diretta
applicabilità di un trattato il fatto che questo contenga una clausola di
esecuzione (clause of implementation), ossia preveda che gli Stati contraenti
adotteranno tutte le misure di ordine legislativo o altro per dare effetto alle sue
disposizioni.
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Ai trattati istitutivi delle Comunità europee e agli accordi successivi che li hanno
modificati o integrati, nonché al trattato sull’Unione europea, l’ordinamento
italiano si è conformato, come per qualsiasi altro trattato, con un normale
ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. Sotto la spinta della Corte di
Giustizia delle Comunità si è arrivati ad assicurare al diritto comunitario una
prevalenza sulle norme nazionali: in Italia si è fatto leva sull’art. 11 Cost.,
secondo cui l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo”.
87
Negli ordinamenti degli Stati membri deve riconoscersi efficacia diretta anche
agli accordi conclusi dalla Comunità con Stati terzi, sempre che tali accordi
contengano norme incomplete, ossia norme che non siano destinate ad essere
completate da atti degli organi comunitari; il Trattato CE, cui l’ordinamento
88
italiano si è adattato, prevede che gli accordi stipulati dalla Comunità siano
vincolanti “per le istituzioni comunitarie e per gli Stati membri”. Non hanno
invece efficacia diretta le decisioni quadro e neppure le decisioni, categorie di
atti che sono adottati dall’Unione europea nell’ambito della cooperazione di
polizia e giudiziaria in materia penale.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee ha ritenuto che la tutela dei diritti
fondamentali dell’individuo, ancorché non espressamente prevista dai Trattati
comunitari, non sia estranea al diritto comunitario, che quivi essa sia rilevabile
per sintesi tenendo presenti le “tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri” nonché le convenzioni sui diritti umani vincolanti tali Stati, e che a
89
siffatta sintesi debba procedere essa Corte nella funzione di controllo del
rispetto del diritto comunitario; tale prassi della Corte ha trovato esplicito
riconoscimento nel Trattato di Maastricht. Un importante strumento cui la
Corte può fare riferimento è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea (2000), solennemente proclamata a Nizza dal Consiglio dell’Unione,
ma priva di forza vincolante: è da considerare come una sorta di Dichiarazione
di principi a livello regionale. La Corte costituzionale italiana, dopo una certa
cautela iniziale, con la sent. n. 183/73, ha stabilito che l’ordine comunitario e
l’ordine interno costituiscono due sistemi distinti e separati anche se coordinati
fra loro; che le norme comunitarie “debbono avere piena efficacia obbligatoria
e diretta applicazione in tutti gli Stati membri”; che l’ordinamento comunitario
risulta caratterizzato da un proprio complesso di garanzie statutarie e da un
proprio sistema di tutela giuridica; che, appartenendo i regolamenti
all’autonomo ordinamento della Comunità, essi si sottraggono al controllo di
costituzionalità, controllo limitato dall’art. 134 Cost. alle leggi e agli atti aventi
forza di legge dello Stato e delle Regioni. Simile evoluzione ha subito la
giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca: questa, dopo aver più volte
dichiarato di non voler rinunciare alla sua funzione di garante del rispetto dei
diritti fondamentali in Germania neppure in ordine agli atti comunitari, ha
cambiato idea con la c.d. decisione Solange II (1986), nella quale ha promesso
che non controllerà più la legislazione comunitaria “fintantoché la Corte di
Giustizia delle Comunità europee assicurerà in linea generale una protezione
effettiva dei diritti fondamentali”. Entrambe le Corti hanno poi ripreso una
certa distanza dalla Corte comunitaria; la prima, nella sent. n. 232/89, si è
riservata la possibilità di “verificare…se una qualsiasi norma del Trattato CE,
così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi
comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona
umana”; la seconda, in un’ordinanza (1989), si è riservata di intervenire nei casi
in cui non sia assicurato “…lo standard di protezione dei diritti umani
considerato come irrinunciabile dalla Legge Fondamentale”.
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l’art. 117 Cost., che prevede che “Le Regioni…nelle materie di loro
competenza…provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi
internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio
del potere sostitutivo in caso di inadempienza”; la disposizione può essere
riferita alle competenze in materia di esecuzione delle norme internazionali e
comunitarie che le Regioni hanno sì il diritto di esercitare in piena autonomia,
ma una volta che queste siano state formalmente introdotte nell’ordinamento
interno.
91
che il potere sostituivo del Governo si esercita “…nel caso di mancato rispetto
di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di
pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo
richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” e
che la legge deve definire “le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi
siano esercitati nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale
collaborazione”.
PARTE QUINTA
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Resta esclusa la responsabilità dello Stato per atti di privati che arrechino danni
ad individui, organi o Stati stranieri. A configurare una responsabilità dello
Stato in questi termini perveniva la vecchia teoria germanica della solidarietà
del gruppo, in base alla quale il gruppo doveva ritenersi come responsabile per
le azioni dannose dei suoi membri. La teoria fu già abbandonata da Grozio a
favore della dottrina della ‘patientia’ e del ‘receptus’ limitante la responsabilità
dello Stato ai soli casi di tolleranza delle, o di complicità con le, azioni compiute
da privati nel proprio territorio. Oggi dottrina e prassi sono concordi nel
ritenere che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure
atte a prevenire l’azione o a punirne l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi
organi.
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fase patologica del diritto internazionale sia una fase assai poco normativa e sia
caratterizzata da reazioni contro l’illecito che non hanno lo scopo di punire
(anche se tale scopo non è ad esse del tutto estraneo), ma sono
fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato, ossia a far
cessare l’illecito e cancellarne, ove possibile, gli effetti. Non sorge un nuovo
rapporto, facente capo ad una nuova norma, dal fatto illecito: l’obbligo per lo
Stato offensore di porre fine all’illecito e di cancellarne gli effetti è l’obbligo
previsto dalla stessa norma violata (la norma primaria) e il diritto di esercitare
l’autotutela non è altro che la sanzione (in senso lato) che sia accompagna alla
norma medesima. Kelsen sbaglia però quando considera l’unica forma di
riparazione avente rilevanza pratica, il risarcimento del danno, come fondata su
un accordo tra gli Stati interessati (ciò è vero solo per la c.d. ‘soddisfazione’):
essa è prevista da un’autonoma norma di diritto internazionale.
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si è fatta strada l’opinione,
espressa anche dalla Corte Internazionale di Giustizia, secondo cui l’autotutela
non possa consistere nella minaccia o nell’uso della forza, minaccia ed uso
essendo vietati dall’art. 2, par. 4, della Carta ONU e dallo stesso diritto
internazionale consuetudinario (come affermato nella sent. Attività militari e
paramilitari in e contro il Nicaragua del 1986, tra Nicaragua e Stati Uniti). Il
principio che vieta il ricorso alla forza ha carattere cogente, ma trova un limite
generale nella legittima difesa, intesa come risposta ad un attacco armato già
sferrato. L’art. 51 della Carta, altra norma che la Corte Internazionale di
Giustizia ha ritenuto corrispondente al diritto consuetudinario, riconosce infatti
“il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva nel caso che abbia
luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”.
Oltre all’eccezione ex art. 51 della Carta ONU, vi è chi sostiene che interventi
armati siano ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all’estero o
per impedire che certi Stati commettano violazioni gravi dei diritti umani nei
confronti dei loro stessi cittadini. Vi è anche chi sostiene l’estensione della
categoria della legittima difesa in via preventiva o per giustificare reazioni
contro Stati che alimentano il terrorismo. La dottrina della legittima difesa
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reagire con la propria inadempienza a quella altrui, se non come extrema ratio.
Può darsi poi che siano previste espressamente norme limitative
dell’autotutela; ad es. l’art. 228 del Trattato CE demanda esclusivamente alla
Corte comunitaria il compito di imporre “il pagamento di una somma forfetaria
o di una penalità” allo Stato membro che abbia compiuto una violazione del
Trattato, previamente contestata dalla stessa Corte, e non abbia preso i
provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti.
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Tutto ciò riguarda l’obbligo di risarcimento del danno relativo ai rapporti fra
Stati. Diverso è il caso dei trattati che prevedono che lo Stato contraente abbia
l’obbligo di risarcire direttamente gli individui, stranieri o cittadini, danneggiati
dalla violazione del trattato medesimo: ad es. la Convenzione europea sui diritti
umani stabilisce che qualora, accertata dalla Corte europea dei diritti umani
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49. Il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite.
La Carta ONU, da un lato sancisce, all’art. 2, par. 4, il divieto dell’uso della forza
nei rapporti internazionali, dall’altro, al cap. VII (artt. 39 ss.) accentra nel
Consiglio di Sicurezza, la competenza a compiere le azioni necessarie per il
mantenimento dell’ordine e della pace tra gli Stati, ed in particolare l’uso della
forza a fini di polizia internazionale. Il sistema di sicurezza accentrato ha poco e
male funzionato fino alla caduta del muro di Berlino a causa del diritto di veto
riconosciuto alle grandi Potenze. A partire dalla Guerra del Golfo (1991) esso ha
invece avuto una seconda vita, divenendo l’attività principale delle Nazioni
Unite. Nel quadro del sistema di sicurezza collettiva è degna di nota l’istituzione
della Commissione per la costruzione della pace (Peacebuilding Commission) ad
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Misure non implicanti l’uso della forza. Ai sensi dell’art. 41, il Consiglio può
vincolare gli Stati membri dell’ONU a prendere tutta una serie di misure (dalla
semplice interruzione dei rapporti diplomatici al blocco economico totale)
contro uno Stato che, sempre a giudizio insindacabile dell’organo, minacci o
abbia violato la pace, oppure, nelle crisi interne, contro gruppi armati, o
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Misure implicanti l’uso della forza. Gli artt. 42 ss. si occupano dell’ipotesi in cui
il Consiglio decida di impiegare la forza contro uno Stato, colpevole di minaccia
o violazione della pace o di aggressione, oppure all’interno di uno Stato,
intervenendo in una guerra civile. Il ricorso a misure violente è concepito come
un’operazione di polizia internazionale: “Il Consiglio…può intraprendere con
forza aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o
ristabilire la pace…”. Tutto ciò attraverso risoluzioni operative, con cui
l’Organizzazione non ordina o raccomanda qualcosa agli Stati, ma direttamente
agisce. L’azione diretta consiste nell’utilizzazione di contingenti armati
nazionali, ma sotto un comando internazionale facente capo allo stesso
Consiglio di Sicurezza. Circa le modalità, gli artt. 43, 44 e 45 prevedono
l’obbligo per gli Stati membri di stipulare con il Consiglio degli accordi intesi a
stabilire il numero, il grado di preparazione, la dislocazione, ecc. delle forze
armate utilizzabili poi dall’organo; l’utilizzazione in concreto dei vari contingenti
deve far capo ad un Comitato di stato maggiore, composto dai Capi di stato
maggiore dei cinque membri permanenti e posto sotto l’autorità del Consiglio.
Gli artt. 43 ss. non hanno mai, dal 1945 ad oggi, ricevuto applicazione; gli
accordi, che ex art. 43 dovevano essere conclusi “al più presto”, non hanno mai
visto la luce; né mai ha funzionato il Comitato di stato maggiore.
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L’impiego delle Forze dell’ONU ha finito per rivelarsi impraticabile per ragioni
politiche, militari, logistiche e finanziarie. Il Consiglio di Sicurezza è andato
sempre più orientandosi verso l’impiego diretto di contingenti militari da parte
degli Stati membri, sia individualmente sia per il tramite di organizzazioni
regionali. In due casi si è trattato dell’autorizzazione a condurre vere e proprie
guerre internazionali, per respingere aggressioni esterne: la guerra in Corea
(1950), durante la quale gli Stati membri furono ‘invitati’ ad aiutare la Corea del
Sud a difendersi dall’attacco sferratole dalla Corea del Nord, e la guerra del
Golfo (1991), condotta da una coalizione di Stati membri ‘autorizzati’ dal
Consiglio ad aiutare il governo kuwaitiano a riconquistare il territorio del
Kuwait occupato dall’Iraq. La delega, che comporta che il Consiglio, lungi
dall’assumersi le responsabilità connesse ad un’azione di tutela della pace, se
ne spogli, non sembra sia inquadrabile sotto gli artt. 42 ss. Con la constatata
inefficienza del sistema di sicurezza collettiva, si è fatta strada la prassi della
delega agli Stati e ne consegue che tale delega può considerarsi prevista da
una norma consuetudinaria ad hoc.
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commessi da individui. Gli esempi più noti sono quelli del Tribunale penale
internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia (ICTY) e del Tribunale
penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda (ICTR). Le misure
consistenti nel governo, o in atti di governo, di territori non trovano
fondamento espresso nella Carta ONU; vari tentativi sono stati fatti in dottrina
e nella prassi per riportarle alla categoria delle “misure coercitive” previste
dagli artt. 41 e 42. Particolarmente l’istituzione di Tribunali internazionali ha
costituito oggetto di dibattito; a chi sostiene che l’ipotesi possa riportarsi
all’art. 41, si può rispondere che la giurisdizione dei tribunali penali, e lo stesso
si può dire per il governo di territori, si esercita su individui, mentre le misure
coercitive previste dall’art. 41 sono chiaramente misure dirette contro uno
Stato o al massimo contro gruppi armati all’interno di uno Stato; inoltre, le
misure ex art. 41 sono destinate a cessare quando la pace e la sicurezza non
sono più in pericolo. L’art. 24 della Carta, circa gli “specifici poteri” per il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionali attribuiti al Consiglio
di Sicurezza con riferimento ai capp. VI, VII, VIII e XII della Carta, li elenca in
modo tassativo: dunque, le misure che non rientrano in questo o in
quell’articolo della Carta non possono fondarsi su una sorta di potere residuale
generale del Consiglio, presumibilmente desumibile dallo stesso art. 24.
Dunque, è evidente che il Consiglio abbia largamente deviato dallo spirito e
dalla lettera delle norme del cap. VII, ma la mancanza di una qualsiasi
opposizione alla partecipazione del Consiglio ad atti di governo di territori in
situazioni post conflittuali indica che detta prassi ha dato vita ad una norma
consuetudinaria ad hoc.
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PARTE QUINTA
Nel secolo XIX l’arbitrato isolato si svolgeva di solito nel modo seguente: sorta
una controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo, il c.d.
compromesso arbitrale, col quale si nominava un arbitro (ad es. un Capo di
Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola
procedurale, e ci si obbligava a rispettare la sentenza (che spesso consisteva
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nella sola parte dispositiva, non essendo l’arbitro obbligato a far conoscere la
motivazione) così emessa. Si distinguono due fasi di sviluppo dell’istituto.
I fase. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si è cominciato a ricorrere a dei
meccanismi per facilitare l’accordo degli Stati necessario per l’instaurazione del
processo internazionale e sono apparsi due istituti: la clausola compromissoria
‘non completa’, che accede ad una qualsiasi convenzione e crea l’obbligo per
gli Stati di ricorrere all’arbitrato per tutte le controversie che sorgano in futuro
in ordine all’applicazione e all’interpretazione della convenzione medesima, ed
il trattato generale di arbitrato ‘non completo’, che egualmente crea un
obbligo generico di ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le controversie
che possano sorgere in futuro fra le Parti contraenti, eccettuate alcune
controversie (c.d. clausola eccettuativa dei trattati di arbitrato) indicate una
volta come quelle toccanti l’onore e l’indipendenza delle Parti o aventi natura
politica, e oggi come quelle relative a questioni di dominio riservato. I due
istituti ‘non completi’ creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè l’obbligo
di stipulare un compromesso arbitrale; se questo però non interviene, non può
comunque pervenirsi all’emanazione di una sentenza. Nello stesso periodo si
tendono ad istituzionalizzare i tribunali internazionali, creando organi arbitrali
permanenti e a predisporre regole di procedura applicabili in ogni
procedimento così instaurato. L’avvio di tale istituzionalizzazione si ha con la
Corte Permanente di Arbitrato, tuttora esistente, creata dalle Convenzioni
dell’Aja sulla guerra terrestre (1899 e 1907). All’interno della Corte,
l’istituzionalizzazione è minima, trattandosi infatti di un elenco di giudici,
periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere ai fini della
composizione del collegio arbitrale; anche le regole di procedura non sono
molte e cedono il passo di fronte a quelle eventualmente stabilite dalle Parti.
II fase. Alla fine della prima guerra mondiale si è avuto un maggior processo di
istituzionalizzazione con la creazione prima della Corte Permanente di Giustizia
Internazionale all’epoca della Società delle Nazioni, e poi, nel 1945, con la
Corte Internazionale di Giustizia, organo delle Nazioni Unite che ha sostituito
la prima: essa ha sede all’Aja e funziona in base ad uno Statuto annesso alla
Carta ONU e ricalcante lo Statuto della vecchia Corte. Presenta un forte grado
di istituzionalizzazione: trattasi di un corpo permanente di giudici, eletti
dall’Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a
precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti; trattasi pur
sempre però di un tribunale arbitrale che giudica solo sul presupposto di un
accordo tra tutte le Parti di una controversia. La Corte Internazionale di
Giustizia può decidere non solo secondo il diritto ma anche ex aequo et bono se
le Parti così richiedono. Oltre alla giurisdizione in materia contenziosa, la Corte
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svolge anche una funzione consultiva: i pareri non sono vincolanti, ma possono
divenire tali se, con una convenzione o altro atto vincolante, ci si impegni a
rispettarli. Ex art. 34 dello Statuto, la Corte non può essere adita da tutti i
soggetti internazionali ma solo dagli Stati. Compaiono le figure della clausola
compromissoria ‘completa’ e del trattato generale di arbitrato ‘completo’:
questi prevedono direttamente l’obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale
internazionale (di solito la Corte Internazionale di Giustizia) già predisposto e
perfettamente in grado di funzionare; permettono ad uno Stato contraente di
citare unilateralmente un altro Stato contraente di fronte al tribunale
internazionale così investito della controversia: il fondamento del giudizio resta
pur sempre volontario, ma la giurisdizione è un potere che, una volta accettato,
come negli ordinamenti interni, si impone al singolo indipendentemente dalla
sua volontà. Analogo al trattato generale di arbitrato è il procedimento di cui
all’art. 36 dello Statuto: “gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni
momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza
speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti la
medesima obbligazione, la giurisdizione della Corte…”.
A partire dagli anni Sessanta e fino agli anni Ottanta, l’arbitrato ha attraversato
una consistente fase di declino. Gli Stati sorti dalla decolonizzazione, diffidenti
verso la Corte a causa di alcune sentenze emesse, considerate contrarie ai loro
interessi ed obiettivamente discutibili, presentarono un numero scarsissimo di
ricorsi, mentre alcune grandi Potenze, come gli Stati Uniti, si rifiutarono di
eseguire sentenze emesse. La situazione si è andata modificando a partire dagli
anni Ottanta, aumentando enormemente il ruolo della Corte.
Come per le norme così per le sentenze c’è da lamentare la scarsezza dei mezzi
coercitivi a livello interstatale e da affidarsi al diritto interno degli stessi Stati
che devono osservare la sentenza. L’osservanza di una sentenza internazionale
deve ritenersi assicurata nel diritto interno dalle stesse norme che provvedono
all’adattamento alle regole internazionali (consuetudinarie, pattizie o
contenute in atti di organizzazioni internazionali) di cui la sentenza abbia
accertato il contenuto: ad es. la legge italiana di esecuzione di un trattato
comporta l’obbligo di osservare non soltanto il trattato ma anche l’eventuale
sentenza internazionale emessa, in ordine al trattato medesimo, nei confronti
dell’Italia o di persone che operano all’interno dello Stato italiano.
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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo, è l’organo che
controlla il rispetto della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte degli Stati contraenti. La Corte è
nata nel 1988 dalla fusione con la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo ed
è formata da un numero di giudici pari a quello degli Stati contraenti (oggi 45).
Giudica attraverso Comitati composti da tre giudici o attraverso Camere di
sette giudici; una Grande Camera di diciassette giudici può essere chiamata
eccezionalmente a pronunciarsi su richiesta di una Camera oppure come una
sorta di istanza di appello contro la sentenza di una Camera. Il ricorso alla Corte
può essere proposto da un altro Stato contraente nell’interesse obiettivo (c.d.
ricorso interstatale), sia da qualsiasi persona fisica o giuridica o organizzazione
o gruppo di individui (c.d. ricorso individuale), ma in questo caso occorre che il
ricorrente si pretenda vittima di una violazione della Convenzione. Constatata la
violazione della Convenzione da parte di uno Stato contraente, e se il diritto
interno dello Stato non permette di eliminarne le conseguenze, la Corte può
concedere alla parte lesa un’equa soddisfazione, di solito una somma di
denaro.
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Sul piano universale vengono in rilievo i due Patti internazionali promossi dalle
Nazioni Unite. Il Patto sui diritti civili e politici prevede il funzionamento di un
Comitato per i diritti dell’uomo che può prendere in esame reclami presentati
contro uno Stato contraente da altri Stati o da individui, se lo Stato accusato
ha, per i reclami statali, dichiarato di accettare la competenza del Comitato in
materia, oppure, per i reclami individuali, ratificato un Protocollo opzionale ad
hoc: la procedura non sfocia comunque mai in atti vincolanti, ma in rapporti e
tentativi di amichevole composizione. Il Patto sui diritti economici, sociali e
culturali, non prevede l’istituzione di organi ad hoc, limitandosi a stabilire che
gli Stati contraenti sottopongono rapporti periodici al Consiglio economico e
sociale delle Nazioni Unite, perché formuli raccomandazioni “di ordine
generale”, o anche sottoporli all’attenzione dell’Assemblea generale.
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La Carta ONU stabilisce che gli Stati hanno l’obbligo di risolvere le loro
controversie con mezzi pacifici (art. 2). L’art. 33 ribadisce l’obbligo delle parti di
una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, di perseguirne una
soluzione “mediante negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato,
regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri
mezzi pacifici di loro scelta”. Alla “soluzione pacifica delle controversie” è
dedicato il cap. VI della Carta ONU. Ex art. 34, il Consiglio di Sicurezza dispone
anzitutto di un potere di inchiesta che può esercitare direttamente o creando
un organo ad hoc (ad es. una Commissione di inchiesta composta da membri
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