Pappe Left
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Ilan Pappé:
«Il progetto di Tel Aviv
in Palestina fallirà»
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«C’è una implosione sociale interna in Israele. Ebrei laici e religiosi hanno
ben poco in comune», dice lo storico israeliano che denuncia
il governo di Tel Aviv per il disastro umanitario di Gaza. E sottolinea
la possibilità che nasca un nuovo movimento di liberazione palestinese
di Pasquale Liguori
© Majority World Cic /Alamy/Ipa Agency
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a Palestina non era un deserto che aspettava di sbocciare; era un
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prime, quindi assoggettando i nativi, fino a esser poi spazzate via dai grandi
movimenti di lotta anticoloniale. Il sionismo dà vita invece al colonialismo d’in-
sediamento in Palestina: rifugiati ebrei, emarginati e indesiderati in Europa, cer-
cano di costruire uno Stato ebraico europeo in un territorio dove è già presente
e radicato un altro popolo. Inizialmente supportati dalla Gran Bretagna, hanno
via via occupato territori trasferendo o espellendo il maggior numero possibile
di popolazione indigena. Ribellatisi poi agli stessi britannici e con la creazione
di Israele, persistono nel sanguinario conflitto contro il movimento anticolonia-
lista degli indigeni palestinesi.
Si parla di “Israel defense forces” per indicare l’esercito. Ma sono documen-
tate lungo la storia le cruente e disumanizzanti azioni militari messe in atto
Ilan Pappé,
da Israele contro i palestinesi e tese all’appropriazione e sfruttamento di storico e docente
universitario
terre. La Nakba del 1948, la Guerra dei sei giorni, il pluridecennale regime israeliano, fra i suoi
libri La prigione più
di occupazione e apartheid e, infine, tutto ciò che accade in conseguenza grande del mondo.
dell’attacco di Hamas del 7 ottobre appaiono collegati da obiettivi di puli- Storia dei territori
occupati e La pulizia
zia etnica. Qual è il suo pensiero? etnica in Palestina,
entrambi editi da
Le operazioni belliche israeliane sono state ampiamente divulgate come ritorsive Fazi. E Storia della
Palestina moderna
ma io non penso sia corretto. Al più possiamo dire che talvolta hanno avuto (Einaudi)
esordi di carattere ritorsivo. Per esempio, nel 1948 le forze sioniste hanno
agito inizialmente vendicandosi di alcuni, limitati incidenti. Molto pre-
sto, però, presero il sopravvento atti e iniziative che, sebbene non fossero
provocati da cause oggettive, hanno avuto come obiettivo una massiccia
operazione di pulizia etnica. Nel 1967 fu Israele a dar inizio alla guerra e
negli eventi contemporanei condotti a Gaza soltanto nelle primissime fasi
© Pako Mera/Alamy/Ipa Agency
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in possesso della maggior parte della Palestina storica con il minor numero pos-
sibile di Palestinesi presenti. È dunque assolutamente infondato affermare che
politiche di tale portata rispondano a logiche di mera rappresaglia.
Gaza è perlopiù distrutta, il bilancio di una carneficina indiscriminata con-
ta decine e decine di migliaia di vittime. Qual è il peso storico della paralisi
Onu? Non le sembra che le Nazioni Unite abbiano fallito in quel loro costi-
tuente «salvare le future generazioni dal flagello della guerra»?
Non va sottovalutato che il 24 marzo scorso, e per la prima volta, dopo un lungo
periodo, gli Stati Uniti si siano astenuti di fronte alla richiesta di cessate il fuoco
permettendo così l’adozione di una specifica risoluzione Onu. Capisco però il
senso di delusione e sconforto che trapela dalla sua domanda. Nell’Assemblea
generale Onu la grande maggioranza degli Stati membri non accetta e respinge
le politiche israeliane. Tuttavia, parliamo di un’istituzione che si rivela impoten-
te quando si tratta di tradurre quel consenso in atti concreti a causa del potere
di veto americano, britannico e francese. Ed è perciò naturale che il Sud globale
sviluppi tutta la sua diffidenza nei confronti di un organismo universale che si
mostra puntualmente prevenuto nelle sue decisioni favorenti politiche dell’Oc-
cidente e dei suoi alleati, compreso Israele. Non bisogna, però, rinunciare all’i-
niziativa delle Nazioni Unite almeno fin quando non si presenti una miglior
offerta istituzionale di carattere internazionale.
Cosa ha significato per lei vedere Israele imputato di genocidio all’Aja? Il
fatto che Israele non rispetti le ordinanze provvisorie emanate dalla Corte
internazionale di giustizia conferma la crisi di credibilità del diritto?
Sebbene sia rimasto deluso dalla riluttanza della Corte internazionale di giusti-
zia a emettere un verdetto chiaro di condanna dell’operato israeliano, sono con-
sapevole della rilevanza storica del fatto che tale dibattimento sia stato indetto e
abbia avuto luogo. Si tratta infatti di un fatto storico importante che potrebbe
poi determinare la futura adozione di sanzioni. Se così non dovesse essere, il
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Sud globale rimarrebbe deluso, umiliato al cospetto di un diritto internazionale
ancora una volta non universalmente applicato. La conseguenza sarebbe un ulte-
riore calo di credibilità di istituzioni come la stessa Corte internazionale di giu-
stizia. Questo creerebbe un’enorme e drastica crisi di fiducia nelle organizzazioni
internazionali perché, oltre che in merito a Gaza, tali enti dovrebbero essere un
vessillo di valori morali nel mondo in generale.
Lei sostiene che il progetto sionista è destinato inevitabilmente a fallire.
La scarsa coesione sociale interna, la vasta protesta contro la riforma giu-
diziaria voluta dall’esecutivo messianico e fascista a guida Netanyahu sono
segnali? Lei parla di un’alba dopo l’oscurità dei tempi attuali, può spiegare
cosa intende?
Vari sono gli indizi che mi hanno portato a dire che stiamo assistendo all’inizio
della fine del progetto sionista in Palestina. Provo a elencarli. Il primo è l’implo-
sione sociale interna alla società ebraica israeliana. È ormai chiaro che ebrei laici
e religiosi hanno ben poco in comune. L’unica cosa che li tiene uniti è il senso di
pericolo rispetto alla propria esistenza ma ciò non basta a sostenere la coesione
di una nazione. In secondo luogo, lo Stato ha smesso di funzionare: l’esercito si
è mostrato inadeguato nella prevenzione e difesa dei cittadini da un attacco da
parte di un gruppo, Hamas, che non ha armi potenti. A tutt’oggi, inoltre, è in-
capace a erogare quei servizi elementari necessari ai cittadini israeliani che sono
stati colpiti. E ciò accade in un quadro sociale dove il divario tra abbienti e non
abbienti è il più ampio tra i Paesi dell’Ocse con molti israeliani che si trovano al
di sotto della soglia di povertà. In terzo luogo, l’economia israeliana è adesso to-
talmente dipendente dagli Stati Uniti. Tuttavia, chiunque sarà il prossimo presi-
dente Usa dovrà far ricorso a drastici tagli di spesa destinati a Israele che diventa
sempre un peso e non una risorsa quale invece appare essere l’Arabia Saudita agli
occhi di Washington. In quarto luogo, la generazione ebraica più giovane, an-
che quella residente negli Usa, dimostra sempre minor simpatia per il sionismo.
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E se tale è la tendenza, Israele si ritroverà sionisti cristiani e fascisti quali unici
suoi alleati. Per quinta cosa, Israele sta diventando uno Stato paria non solo agli
occhi della società civile che sostiene boicottaggio e disinvestimento nei suoi
confronti, ma anche agli occhi dei governi del mondo potenzialmente disposti
a decretare sanzioni. Un’ultima, importante, nota va riservata alla società pale-
stinese, una delle più vitali al mondo. In particolare, la generazione dei giovani
palestinesi è sempre più unita e assertiva nel portare avanti le proprie istanze e
ha concreto potenziale per consolidare un movimento di liberazione più efficace
nelle sue lotte future.
Di fronte a un processo storico costituente di una Palestina libera non crede
che gli Stati e le organizzazioni occidentali dovrebbero fare un passo di lato
o, meglio ancora, indietro e avere un approccio politico totalmente privo di
un connotato “orientalista”?
Sì, sono pienamente d’accordo. È ora di porre fine alla pax americana che l’Oc-
cidente ha avallato in Medio Oriente, mentre le potenze regionali e quelle del
Sud globale come i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) dovrebbero
svolgere un’azione più importante in questo processo.
Quanto agli Stati della regione e, più specificamente, all’Arabia Saudita e
all’Iran?
In parte, lo dicevo prima. Credo che una cosa sia chiara e cioè che la normaliz-
zazione con Israele (per esempio mediante i cosiddetti patti d’Abramo, ndr) non
fa compiere nessun avanzamento verso la pace e la riconciliazione. Possiamo
aggiungere che un Iran riformato potrebbe esprimere maggior efficacia nelle
politiche complessive della regione tutta e della Palestina in particolare.
Sul versante palestinese cresce la presa di coscienza in senso anti- e de-co-
loniale. Dopo la tragedia di Gaza non sarà facile riproporre accordicchi in
“salsa Oslo”. Nonostante il pesantissimo prezzo pagato da persone inno-
centi, Hamas conserva la leadership. Lo stesso non può dirsi dell’Autorità
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palestinese. Quali sono i rapporti di forza tra le varie fazioni, come evitare
un vacuum politico? Quale forma di Stato?
È molto difficile prevedere un miglioramento nell’immediato futuro mentre,
come già accennavo, è possibile intravedere sviluppi più positivi un po’ più in
là nel tempo. Dobbiamo attendere che la generazione palestinese più giovane
acquisisca ulteriore maturità come movimento politico. Già adesso è molto più
unita e consapevole dell’attuale leadership ed è ben interconnessa nonostante i
confini geografici e politici. Due condizioni devono però concretizzarsi. Da un
lato, questa fresca energia ha bisogno di un’organizzazione adeguata che la so-
stenga e faccia progredire; dall’altro, la minoranza palestinese che vive in Israele
deve decidere in quale campo politico operare, se in quello israeliano o in quello
palestinese. Secondo la mia valutazione, quest’ultimo aspetto rappresenta un
fattore chiave per i prossimi sviluppi perché non sarà più consentito “giocare”
in entrambi i campi. Ad ogni buon conto, nel breve termine vedo Israele in
crisi agire in modo spietato contro i Palestinesi non solo a Gaza, ma anche in
Cisgiordania, all’interno di Israele e in Libano. Certo, questo dipende da quanto
il mondo glielo permetterà ed è difficile da poter pronosticare. Nel più lungo
periodo, ne sono convinto, il futuro comporterà la disintegrazione del progetto
sionista. È chiaro che questo creerà un vuoto e i Palestinesi dovranno farsi trovar
pronti a riempirlo, altrimenti sarà il caos.
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