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I Musulmani Nel Terzo Millennio

Il documento analizza l'evoluzione dell'Islam e delle politiche secolari nel mondo musulmano, evidenziando come le politiche coloniali abbiano influenzato la nascita di regimi autoritari e il crescente radicalismo islamico. Si discute anche della trasformazione degli Stati nazionali musulmani, con esempi di Turchia e Albania, e delle dinamiche tra musulmani e minoranze religiose, sottolineando l'impatto del colonialismo e del radicalismo contemporaneo. Infine, viene esplorato il concetto di jihad e la sua interpretazione da parte di gruppi estremisti, evidenziando le sfide attuali per le comunità musulmane.
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I Musulmani Nel Terzo Millennio

Il documento analizza l'evoluzione dell'Islam e delle politiche secolari nel mondo musulmano, evidenziando come le politiche coloniali abbiano influenzato la nascita di regimi autoritari e il crescente radicalismo islamico. Si discute anche della trasformazione degli Stati nazionali musulmani, con esempi di Turchia e Albania, e delle dinamiche tra musulmani e minoranze religiose, sottolineando l'impatto del colonialismo e del radicalismo contemporaneo. Infine, viene esplorato il concetto di jihad e la sua interpretazione da parte di gruppi estremisti, evidenziando le sfide attuali per le comunità musulmane.
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I musulmani nel terzo millennio

De Poli Barbara

Islam e istanze secolari nel campo politico contemporaneo


Le politiche coloniali non riuscirono a consolidare il dominio a lungo termine sulle regioni
occupate. Il motivo principale risiedeva nel fatto che lo sviluppo imposto dalle potenze
imperialiste mirava a tutelare i loro interessi, trascurando il benessere delle popolazioni locali.
La reazione ai regimi coloniali fu diversificata: nel Maghreb, la lotta armata portò
all’indipendenza tra il 1956 e il 1962, mentre nei paesi del Vicino Oriente sotto mandato o
protettorato, l’indipendenza fu ottenuta tramite accordi che, però, mantennero l’ingerenza
straniera. Questo generò instabilità politica, spesso culminata in colpi di Stato militari tra gli
anni ’50 e ’60.
L'influenza europea nel Mediterraneo musulmano non si limitò all’imposizione di nuovi modelli
amministrativi, ma introdusse anche ideologie occidentali come nazionalismo, liberalismo e
socialismo. Queste idee furono assimilate da giovani intellettuali formatisi in Europa o nelle
scuole moderne locali. Le prime organizzazioni nazionaliste nacquero in ambiti religiosi, come
le moschee, ma ben presto spostarono la loro azione su un piano politico e laico,
marginalizzando progressivamente gli esponenti religiosi. Alla fine, il potere venne assunto da
élite laiche occidentalizzate, che mantennero le strutture amministrative coloniali,
nazionalizzandole. Tuttavia, la democratizzazione auspicata non si concretizzò: i regimi si
rivelarono autoritari, spesso sotto il controllo degli apparati militari, e le riforme sociali ed
economiche generarono profonde disuguaglianze, lasciando gran parte della popolazione in
condizioni di sottosviluppo.
Il fallimento dei governi nazionalisti postcoloniali provocò una diffusa disillusione verso
l’occidentalizzazione e i modelli moderni. Per molti, la modernità si identificò con le élite che li
opprimevano, spingendo le fasce sociali più vulnerabili a rifugiarsi nei valori tradizionali e
religiosi. Questo aprì la strada ai movimenti islamisti, che acquisirono consenso a partire dagli
anni ’70, sostenuti anche da forze esterne come gli Stati Uniti, che li appoggiarono per
contrastare il socialismo, e l’Arabia Saudita, che diffuse il wahhabismo grazie ai proventi
petroliferi.
Nonostante ciò, fino agli anni ’80, le formazioni islamiste furono sconfitte dalle leadership
laiche, spesso grazie all’intervento dei militari. Tuttavia, la crisi dei regimi secolari e l’aggravarsi
delle disuguaglianze facilitarono la crescita del radicalismo islamico, che si impose come
reazione alla modernizzazione e all’occidentalizzazione. Il radicalismo islamico, lungi
dall’essere una continuazione della religiosità tradizionale, si configura piuttosto come un
fenomeno politico, che trasforma l’Islam in un’ideologia militante, opponendosi non tanto
all’Occidente in sé, quanto ai governi nazionali moderni.
Di fronte a questa avanzata, i regimi laici hanno seguito due strategie: repressione o
compromesso. In molti paesi, per evitare conflitti interni, i governi hanno concesso maggiore
spazio alla religione nella vita pubblica, come l’incremento dell’insegnamento religioso e
l’adozione di norme islamiche nel diritto. Tuttavia, parallelamente, si sono registrati anche
progressi in senso secolare, come la riforma del Codice della Famiglia in Marocco nel 2004.
Oggi, il radicalismo islamico sembra aver superato la fase di opposizione irriducibile allo Stato
moderno e, in molti casi, ha scelto la strada della normalizzazione politica. Un esempio è la
Turchia, dove il governo di Erdogan, di tendenza islamica, è stato eletto democraticamente
mantenendo il principio di laicità. Tuttavia, l’alternativa al compromesso è il terrorismo
globalizzato. Il conflitto tra islamismo e laicità, quindi, non è realmente di natura religiosa o
teologica, ma strettamente politica.

Gli Stati nazionali moderni


Nel mondo musulmano, l’idea di nazione come unità territoriale e politica si affermò solo nel
Novecento. Prima di allora, l’appartenenza identitaria era basata sulla religione, attraverso
concetti come l’umma o il millet, che accomunavano i musulmani indipendentemente dalle
frontiere. Con la costruzione degli Stati nazionali, questa appartenenza fu sostituita dalla
cittadinanza, un processo che portò alla secolarizzazione delle istituzioni e all’adozione di
modelli giuridici ispirati all’Occidente. Tuttavia, il rapporto tra Stato e religione rimase
ambivalente, con approcci diversi a seconda del contesto politico e storico di ogni paese.
Turchia: il modello laicista di Atatürk
La Turchia fu il primo paese musulmano a trasformarsi in uno Stato nazionale laico. Dopo la
caduta dell’Impero Ottomano, il movimento dei Giovani Turchi avviò una serie di riforme
modernizzatrici culminate nella nascita della Repubblica Turca nel 1923, sotto la guida di
Mustafa Kemal Atatürk. Il sultanato fu abolito nel 1922 e, nel 1924, anche il califfato venne
soppresso, segnando la separazione definitiva tra potere politico e religioso. Seguì un’ondata
di riforme in senso laicista: il codice civile fu modellato su quello svizzero, il codice penale su
quello italiano, e nel 1930 fu introdotto il suffragio femminile. La Costituzione del 1937 sancì
esplicitamente la laicità dello Stato, relegando la religione alla sfera privata e ponendo sotto
stretto controllo le istituzioni islamiche. Tuttavia, il radicalismo laicista iniziò a stemperarsi
dopo la morte di Atatürk, e nel 1982 la Costituzione reintrodusse la libertà di culto. Sebbene la
Turchia sia formalmente laica, il governo mantiene il controllo sulla sfera religiosa attraverso
l’Ufficio per gli Affari Religiosi, dimostrando un equilibrio instabile tra secolarismo e influenze
islamiche.
Albania: dalla laicizzazione forzata allo Stato ateo
L’Albania, conquistata dagli Ottomani nel XV secolo, conobbe un’islamizzazione diffusa, ma il
nazionalismo albanese si sviluppò all’inizio del Novecento, portando all’indipendenza nel 1912.
Dopo un periodo di instabilità politica, il leader Ahmet Zogu instaurò una monarchia autoritaria,
introducendo alcune riforme modernizzatrici come il divieto della poligamia e la facoltatività
del velo. Tuttavia, il cambiamento più radicale avvenne con l’avvento del comunismo nel 1944.
Il regime di Enver Hoxha, dichiaratamente ateo, portò avanti una politica di secolarizzazione
estrema: nel 1967, l’Albania fu proclamata ufficialmente “Stato ateo”, con la chiusura di
moschee e chiese, la proibizione del culto e la criminalizzazione della propaganda religiosa.
Con la caduta del regime comunista nel 1990, la libertà religiosa fu ristabilita e oggi l’Albania è
una democrazia emergente, la cui Costituzione del 1998 dichiara la neutralità dello Stato in
materia di religione.
I Paesi arabi: tra istituzioni secolari e islam come riferimento identitario
Siria, Iraq, Libano, Egitto, Algeria e Tunisia adottarono l’ordinamento repubblicano, mentre
Marocco e Giordania mantennero la monarchia. La Libia sperimentò un modello originale di
governo popolare sotto Gheddafi. Indipendentemente dalla forma di governo, quasi tutti i paesi
arabi mantennero istituzioni modellate sulle strutture amministrative coloniali, dando vita a
“democrazie di facciata”, dove i presidenti esercitano un potere quasi assoluto, restando in
carica fino alla loro rimozione con atti di forza. L’Islam è un elemento fondamentale
dell’identità nazionale, ma nei fatti rimane subordinato al potere politico. Anche la Libia di
Gheddafi, pur facendo riferimento al Corano come fonte costituzionale, basò la propria
dottrina sul socialismo e la democrazia diretta, ispirandosi a principi occidentali più che
islamici.
Arabia Saudita: il wahhabismo e la fusione tra Stato e religione
L’Arabia Saudita si distingue per la sua architettura costituzionale interamente basata sul
Corano e sulla Sunna. La nascita del regno nel 1932 fu legata all’alleanza tra la dinastia Saud e
il wahhabismo, un’interpretazione rigorista dell’Islam che rifiuta qualsiasi innovazione
religiosa successiva ai primi secoli dell’Islam. Dopo la scoperta del petrolio nel 1938, il paese
si modernizzò economicamente, ma mantenne strutture sociali e politiche arcaiche basate su
legami tribali e conservatorismo religioso. La Costituzione del 1992 sancisce che il Corano è la
legge fondamentale dello Stato, ma il potere rimane saldamente nelle mani della monarchia
assoluta. L’Islam è dunque centrale nella retorica ufficiale, ma le istituzioni religiose sono
strettamente controllate dal regime, e l’influenza della casa reale è assoluta. Inoltre, l’Arabia
Saudita finanzia la diffusione del wahhabismo nel mondo musulmano, esercitando
un’influenza ideologica globale.

I musulmani e l’altro: minoranze, nemici e alleati


La rapidissima espansione araba tra il 633 e il 750 portò alla creazione di un vasto impero che
inglobava una straordinaria varietà di culture, etnie e religioni. Sebbene l’unità politica si
frammentasse in diversi regni, l’Islam rimase il comune denominatore, fornendo un quadro di
riferimento che regolava i rapporti tra musulmani e non musulmani. A differenza di quanto
accadde nell’Occidente cristiano, dove le minoranze religiose furono spesso perseguitate, il
mondo islamico sviluppò un sistema giuridico, basato sulla dhimma, che garantiva ai cristiani
e agli ebrei, definiti “gente del libro”, protezione e libertà di culto in cambio di un’imposta
speciale e della sottomissione al potere islamico. Pur con alcune restrizioni—come il divieto di
portare armi o sposare donne musulmane—le comunità non musulmane contribuirono
attivamente alla vita economica, amministrativa e culturale degli imperi islamici, spesso
raggiungendo posizioni di rilievo.
Tuttavia, il rapporto con i non musulmani non era uniforme: mentre ai monoteisti era concessa
una protezione regolata dalla legge, i politeisti erano generalmente considerati nemici da
convertire o combattere. Nella pratica, il pragmatismo politico ed economico portò a
un’applicazione flessibile della legge islamica: anche induisti e buddisti, non inclusi nella
dhimma, spesso godevano di un trattamento di favore per evitare conflitti inutili. L’impero
islamico si caratterizzò dunque per una tolleranza relativa, basata più sulla convenienza
politica ed economica che su un principio di uguaglianza universale.
Le divisioni interne: sunniti e sciiti
All’interno dell’Islam, una delle fratture più profonde è quella tra sunniti e sciiti, nata da una
disputa politica sulla successione a Maometto. Gli sciiti, che sostenevano la legittimità di Alì e
della sua discendenza, furono sconfitti nella battaglia di Kerbela (680), ma continuarono a
esistere come minoranza, sviluppando dottrine peculiari, come l’imamato, che attribuisce agli
imam una guida spirituale e politica. La principale corrente sciita è quella duodecimana,
dominante in Iran e presente in altre aree del Golfo Persico, ma esistono anche gruppi minori
con credenze sincretiche, come gli alauiti in Siria, che ammettono la reincarnazione e influenze
cristiane. Nonostante la rivalità storica, sunniti e sciiti hanno convissuto per secoli in una
relativa stabilità, salvo momenti di tensione politica e conflitti settari.
L’impatto del colonialismo: il tramonto della convivenza
L’arrivo delle potenze coloniali europee nel Medio Oriente e nel Maghreb alterò profondamente
gli equilibri intercomunitari. Il principio islamico di sudditanza religiosa fu progressivamente
sostituito dal concetto occidentale di cittadinanza laica, che garantiva a cristiani ed ebrei gli
stessi diritti dei musulmani. Tuttavia, questa trasformazione creò risentimenti: le minoranze
religiose, sostenute dalle potenze occidentali, spesso ottennero privilegi economici e sociali,
suscitando l’ostilità delle popolazioni musulmane, che le percepivano come complici
dell’occupazione. Questa frattura fu particolarmente evidente in Libano, dove le rivalità tra
maroniti cristiani (appoggiati dalla Francia) e drusi (sostenuti dagli inglesi) portarono a violenti
conflitti interetnici già nel 1860. L’ideologia nazionalista, introdotta dall’Occidente, accentuò
le divisioni, poiché legava l’identità alla lingua e alla storia piuttosto che alla religione,
generando tensioni sia tra musulmani e non musulmani, sia tra comunità islamiche diverse.
Le minoranze religiose oggi: diritti e discriminazioni
Ad eccezione della Turchia e dell’Albania, che hanno abolito la sharia, e dell’Arabia Saudita,
che non riconosce alcuna minoranza religiosa, la maggior parte dei paesi musulmani continua
a regolare i diritti personali delle minoranze attraverso la legislazione religiosa. In Siria,
Giordania, Libano ed Egitto, le principali festività cristiane sono riconosciute a livello nazionale,
e in teoria le minoranze non subiscono discriminazioni formali. Tuttavia, esistono limitazioni,
come il divieto per una donna musulmana di sposare un non musulmano (a meno che lui si
converta all’Islam) e l’ostracismo nei confronti di chi abbandona la fede islamica (reato di
apostasia). Inoltre, chi non appartiene a una comunità religiosa riconosciuta si trova spesso
senza un riferimento giuridico.
Negli ultimi trent’anni, la situazione delle minoranze religiose nel mondo musulmano è
peggiorata a causa della diffusione del radicalismo islamico. Gruppi estremisti, come il
jihadismo armato, hanno preso di mira le comunità cristiane, ebraiche e anche musulmane
non allineate alla loro visione. I copti in Egitto, ad esempio, hanno subito attacchi violenti,
mentre molte comunità ebraiche sono scomparse o emigrate, soprattutto dopo la fondazione
di Israele nel 1948, che ha innescato una nuova ostilità nei confronti degli ebrei residenti nei
paesi arabi.
Jihad e radicalismo islamico: una nuova visione del conflitto
Il concetto di jihad ha sempre avuto un significato complesso: nella tradizione islamica, indica
uno sforzo per conformarsi ai principi religiosi, che può manifestarsi in diversi modi, dalla
crescita spirituale alla difesa armata della comunità. Il jihad armato è considerato legittimo
solo in caso di aggressione esterna e non è obbligatorio per tutti i musulmani. Tuttavia, i gruppi
estremisti moderni hanno reinterpretato questo principio, dichiarando apostati tutti i
musulmani che non aderiscono alla loro visione e giustificando il terrorismo come strumento
di lotta.
I principali bersagli del jihadismo non sono solo le potenze occidentali, ma anche i governi
musulmani, considerati corrotti e troppo vicini all’Occidente. Le organizzazioni terroristiche,
come Al-Qaeda, non basano la loro ostilità su dispute teologiche tra Islam e Cristianesimo, ma
su questioni politiche, come il sostegno degli Stati Uniti a Israele o l’intervento occidentale nei
paesi arabi. Mentre le principali autorità religiose islamiche condannano il terrorismo, una
parte dell’opinione pubblica lo percepisce come una risposta all’ingiustizia e all’impotenza
politica.

Individuo e istituzioni nell’Islam: tra conformismo e norme religiose


L’Umma, la comunità religiosa islamica, rappresenta il cuore dell’identità sociale nell’Islam.
Al suo interno, la dimensione religiosa e quella familiare si sovrappongono, rendendo
l’appartenenza non solo una questione di fede, ma anche di status sociale e culturale.
L’abbandono dell’Islam non è dunque solo un atto spirituale, ma una vera e propria rottura con
la comunità di origine, con conseguenze legali, psicologiche e affettive spesso drammatiche.
Mentre nei paesi musulmani le minoranze religiose godono, almeno formalmente, di una certa
tolleranza, per chi rinuncia all’Islam è spesso previsto l’ostracismo sociale, quando non
addirittura sanzioni penali. In Arabia Saudita, l’apostasia è punita con la pena di morte, mentre
in molti altri paesi rimane un reato. Tuttavia, anche in assenza di conseguenze legali, chi si
allontana dall’Islam è frequentemente costretto alla dissimulazione, mantenendo le proprie
convinzioni religiose nel privato per evitare l’emarginazione.
La sovrapposizione tra Islam e consuetudini sociali
Nell’Umma, la religione e le norme consuetudinarie si intrecciano, generando spesso pratiche
non previste dalla legge islamica, ma percepite come autenticamente islamiche. Un esempio
emblematico è la circoncisione maschile, non prescritta dal Corano, ma consolidata come
pratica religiosa in virtù della sua origine preislamica. La circoncisione femminile
(infibulazione), anch’essa di origine pre-islamica, è ancora più controversa: pur non essendo
sancita dalla legge islamica, continua a essere praticata in alcune aree con la giustificazione
della tradizione. Le autorità religiose hanno emesso pareri contrastanti sul tema, dimostrando
come spesso il costume sociale prevalga sulla norma religiosa.
Un fenomeno analogo riguarda il diritto di famiglia. Sebbene il Corano preveda per le donne
diritti progressisti rispetto all’epoca della sua rivelazione—come il diritto al mantenimento,
all’eredità e al divorzio—le consuetudini patriarcali hanno portato a una reinterpretazione
restrittiva della legge islamica. In alcune regioni, le donne vengono escluse dall’asse
ereditario, nonostante il Corano stabilisca con precisione le quote spettanti a ciascun parente.
Questo dimostra come la resistenza alle riforme progressiste non derivi tanto da un’aderenza
rigorosa alla legge religiosa, quanto dalla difesa di strutture sociali consolidate, che si
autodefiniscono islamiche pur contraddicendo la Sharia.
Il conformismo sociale e il controllo della morale pubblica
Uno degli aspetti più caratteristici delle società islamiche è il peso del conformismo. Il
controllo sociale non si esercita solo attraverso le leggi, ma soprattutto tramite la pressione
della comunità. Ne consegue che i comportamenti ritenuti immorali vengono sanzionati più
dalla società che dalla religione.
Un esempio significativo riguarda la percezione della sessualità. Sebbene atti come la
sodomia siano considerati illeciti dal Corano, essi vengono tollerati se permettono di
salvaguardare la reputazione pubblica. In molti paesi musulmani, la ricostruzione dell’imene
(imenoplastica) prima del matrimonio è una pratica diffusa per garantire il rispetto delle
convenzioni sociali. La condanna sociale per una donna non vergine è infatti molto più temuta
della collera divina. Allo stesso modo, il consumo di alcolici, proibito dalla Sharia e dalla legge
di molti Stati, è largamente praticato in privato o in contesti nascosti, dimostrando come la vera
preoccupazione non sia il peccato in sé, ma la violazione della morale pubblica.
In generale, la società musulmana tende a salvaguardare l’apparenza di conformità alla
religione più che la pratica effettiva. Questo atteggiamento si riflette nel blando controllo
legale su certi comportamenti: gli arresti per consumo di alcolici, ad esempio, sono rari e
spesso sfruttati più per scopi politici che per reale applicazione della legge. La repressione
riguarda più la violazione dell’ordine sociale che l’infrazione della norma religiosa.
Il contrasto tra riforme e conservatorismo sociale
Le riforme secolari nei paesi musulmani si scontrano spesso con un conservatorismo che non
è tanto religioso quanto socio-culturale. Le resistenze non provengono sempre dagli ulema (i
dotti religiosi), ma dalla popolazione stessa, che percepisce le riforme come una minaccia
all’ordine tradizionale.
Un caso esemplare fu la riforma del diritto matrimoniale proposta da Gheddafi in Libia nel
1981. Il progetto prevedeva la piena parità tra i coniugi, il libero consenso della donna al
matrimonio e l’abolizione della poligamia. Tuttavia, la proposta incontrò un’opposizione
popolare così forte da essere ritirata, dimostrando che le barriere al progresso non sono
necessariamente imposte dalla religione, ma piuttosto da un sistema sociale che si auto-
perpetua sotto l’etichetta dell’Islam.
Conclusione: l’ideale dell’Umma e la realtà sociale
In teoria, l’Umma islamica rappresenta una comunità unificata dai valori religiosi, ma nella
pratica è plasmata dalle specificità locali e dai modelli socio-culturali. Il risultato è una
sovrapposizione tra religione e costume, che porta a interpretazioni selettive delle norme
religiose.
Il controllo sociale si basa più sul conformismo formale che sulla reale osservanza della fede:
ciò che conta è salvaguardare l’integrità dell’ordine collettivo, anche a costo di tollerare
pratiche che contraddicono la Sharia o di reprimere riforme che mirano all’uguaglianza.
L’individuo, più che essere un credente autonomo, è un membro della comunità, e la sua
identità dipende dall’adesione alle sue regole, indipendentemente dalle convinzioni personali.
In questo contesto, l’Islam non è solo una religione, ma una cornice culturale dentro la quale
si definiscono le dinamiche sociali. Le sfide alla modernizzazione non derivano tanto da una
rigidità dottrinale, quanto dalla difficoltà a scindere l’identità collettiva dalla religione,
rendendo complesso ogni tentativo di riforma senza minare la coesione sociale.

L’esportazione della laicità e dei modelli occidentali in ambito islamico


Nei paesi musulmani, la secolarizzazione è un fenomeno ampiamente diffuso in diversi ambiti,
dal sistema politico e giuridico all’istruzione, fino alle manifestazioni culturali e alla vita
quotidiana. La cultura popolare, fortemente influenzata dalla globalizzazione e dalla società
dei consumi, riflette questa trasformazione: i canali televisivi arabi, ad esempio, dedicano
ampio spazio a sport, musica, fiction e informazione, relegando gli argomenti religiosi a una
posizione marginale. Tuttavia, la laicità non è un modello univoco, ma si declina in forme
diverse a seconda della storia e del contesto locale.
L’Albania ha vissuto un processo di laicizzazione radicale sotto il regime comunista, per poi
aprirsi alla democrazia. La Turchia, con la rivoluzione di Atatürk, ha inizialmente scelto di
emanciparsi dal retaggio islamico, considerandolo responsabile del declino dell’Impero
Ottomano, per poi reintegrare alcuni elementi religiosi in un contesto laico. L’Arabia Saudita,
invece, si è strutturata come uno Stato fondato sul wahhabismo, mantenendo una stretta
fusione tra potere politico e religioso. Nella maggior parte degli altri paesi arabi, si è affermato
un compromesso ambiguo tra elementi secolari e istanze religiose, con sistemi politici che
utilizzano l’Islam come strumento di legittimazione, pur mantenendo un forte controllo sulla
sfera religiosa.
La laicità come modello contestato
Un elemento comune ai diversi contesti è che non è l’Islam a determinare i sistemi politici,
ma piuttosto è il potere politico a stabilire la funzione e i limiti dell’Islam nella società.
L’opposizione alla laicità, più che da motivazioni religiose, deriva dalle esperienze storiche
vissute. Nei paesi che hanno subito la colonizzazione, l’Islam ha rappresentato un forte
catalizzatore per le lotte indipendentiste, diventando un simbolo di identità nazionale. In
paesi come l’Algeria, ad esempio, la laicità è stata percepita come un’imposizione coloniale,
in netta opposizione alla costruzione dell’identità post-indipendenza. Questo contrasta con
l’esperienza della Francia repubblicana, dove la laicità si è affermata come un principio di
emancipazione dall’autorità ecclesiastica.
Di conseguenza, l’Islam non si oppone alla laicità in senso teorico, ma in quanto esperienza
storica vissuta come strumento di dominio coloniale o come negazione dell’identità locale.
Anche nei contesti post-indipendenza, la religione è rimasta un punto di riferimento per le
aspirazioni alla giustizia sociale e alla coesione nazionale, ridimensionando il ruolo della laicità
come modello universale.
La laicità e la democratizzazione: un rapporto complesso
Se la laicità è spesso considerata una condizione necessaria per la democrazia, le esperienze
storiche dimostrano che non è sufficiente. La Turchia kemalista, ad esempio, pur imponendo
un severo laicismo, non ha garantito automaticamente la democratizzazione del paese.
L’Albania comunista, pur essendo uno degli Stati più ateizzati del mondo musulmano, ha
sperimentato un lungo periodo di repressione autoritaria prima di aprirsi a processi
democratici. Questo dimostra che la democratizzazione non dipende esclusivamente dalla
separazione tra Stato e religione, ma da un insieme di fattori storici, politici ed economici.
L’ambiguità nell’adozione dei modelli occidentali si riflette anche nella relazione con le potenze
internazionali. Durante il colonialismo, gli Stati europei imponevano modelli laici mentre
esercitavano il dominio sulla popolazione locale, generando un rifiuto della modernità
occidentale o una sua distorsione. Questa contraddizione si è protratta fino ai giorni nostri: gli
Stati Uniti e l’Occidente, pur proclamando la lotta contro il radicalismo islamico, sostengono
paesi come l’Arabia Saudita e il Pakistan, alleati strategici, mentre hanno combattuto e
destabilizzato regimi più laici come quello di Saddam Hussein in Iraq o quello siriano.
Un ulteriore elemento di ambiguità è il sostegno occidentale a Israele, uno Stato
confessionale, pur criticando la fusione tra religione e politica nei paesi musulmani. Questo
doppio standard ha contribuito ad alimentare sentimenti di ostilità verso l’Occidente,
rafforzando l’idea che la laicità sia un modello imposto più che un’opzione liberatoria.
Islam e politica: una relazione da ridefinire
Le problematiche politiche e sociali del mondo musulmano non possono essere ridotte a una
questione di religione. L’Islam, più che un ostacolo ai processi di democratizzazione, è stato
strumentalizzato dai governi, che ne hanno fatto un mezzo di coesione e di controllo sociale.
Tuttavia, il crescente abuso del referente religioso da parte dei governi si sta trasformando in
una trappola politica.
Le nuove generazioni musulmane, pur conservando l’Islam come riferimento identitario,
vivono in un contesto sempre più secolarizzato, dove la religione convive con valori moderni e
consumistici. Il futuro dell’Islam, dunque, non è scritto nella dottrina religiosa, ma dipenderà
dalle scelte politiche e sociali delle comunità musulmane stesse. L’Islam sarà, nel futuro,
ciò che i musulmani ne faranno, e la sfida principale sarà quella di conciliare identità religiosa,
modernità e democrazia senza ripetere le contraddizioni del passato.

Mancano da rivedere capitoli: 4-6-8-9

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