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Come sapere se una cura funziona"
Imogen Evans
  Hazel Thornton
    Iain Chalmers
                       COME SAPERE
                       SE UNA CURA
     Presentazione
e cura dell’edizione
         italiana di
Alessandro Liberati
                       FUNZIONA
      Traduzione di
                       Una migliore ricerca per
      Silvia Pregno    un’assistenza migliore




                       Il Pensiero Scientifico Editore
Dedichiamo questo libro a William Silverman (1917-2004),
che ci ha ripetutamente incoraggiati a mettere in dubbio l’autorità.




Prima edizione: ottobre 2007
© 2006 in original English edition,
Imogen Evans, Hazel Thornton and Iain Chalmers
© 2007 in first Italian edition, Il Pensiero Scientifico Editore
in association with The British Library

Il Pensiero Scientifico Editore
Via Bradano, 37c – 00199 Roma
Tel. 06 862821 – fax 06 86282250
pensiero@pensiero.it
www.pensiero.it
www.vapensiero.info

Tutti i diritti sono riservati.
Stampato in Italia dalle Arti Grafiche Tris srl
Via delle Case Rosse 23, 00131 Roma
Progetto grafico di copertina: Studio Rosa Pantone, Roma
Composizione e impaginazione: www.ikona.it
Illustrazione di copertina: © Images.com/Dave Cutler,
Moon and star in scale

ISBN 978-88-490-0208-9
INDICE




    NOTIZIE SUGLI AUTORI                                     VI

    RINGRAZIAMENTI                                           VI

    PRESENTAZIONE DELL’EDIZIONE ITALIANA                    VII
    Far partecipare i pazienti alle scelte di ricerca
    Alessandro Liberati

    PREMESSA ALL’EDIZIONE ITALIANA                          XIII

    PREFAZIONE                                               XV
    Un libro che fa bene alla salute
    Nick Ross

    INTRODUZIONE                                            XIX

1 • NUOVO – MA NON NECESSARIAMENTE MIGLIORE O MAGARI
    ANCHE PEGGIORE                                            1
2 • UTILIZZATI SENZA ADEGUATA SPERIMENTAZIONE                17

3 • I CONCETTI CHIAVE PER SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA        35

4 • AFFRONTARE L’INCERTEZZA SUGLI EFFETTI DEI TRATTAMENTI    55

5 • LA RICERCA CLINICA: LA BUONA, LA CATTIVA E L’INUTILE     77

6 • MENO RICERCA, METODOLOGIE RIGOROSE
    E QUESITI RILEVANTI                                      85

7 • MIGLIORARE QUALITÀ E RILEVANZA DELLE SPERIMENTAZIONI
    CLINICHE È INTERESSE DI TUTTI                            99

8 • IL MANIFESTO PER UNA RIVOLUZIONE                        121

    BIBLIOGRAFIA                                            129

    RISORSE ADDIZIONALI                                     139

    INDICE ANALITICO                                        143
NOTIZIE SUGLI AUTORI
  Imogen Evans, prima di diventare giornalista scientifica per The
Lancet, ha esercitato ed insegnato medicina in Canada ed in Gran
Bretagna. Dal 1996 al 2005 ha lavorato per il Medical Research
Council e ultimamente si occupa di etica della ricerca, rappresentan-
do il governo inglese al Comitato Etico del Consiglio Europeo.

   Hazel Thornton, dopo una mammografia di routine fu invitata a
partecipare ad uno studio clinico, ma le inadeguate informazioni
disponibili per i pazienti la indussero a rifiutare. Questo la incoraggiò
a impegnarsi per coinvolgere il pubblico nella ricerca al fine di rag-
giungere risultati utili per i pazienti. Ha scritto e tenuto molte confe-
renze su questo argomento.

   Iain Chalmers, ha esercitato la professione medica in Gran
Bretagna ed in Palestina prima di diventare ricercatore nel campo dei
servizi sanitari e dirigere l’Unità Nazionale di Epidemiologia
Perinatale di Oxford. Ha avuto poi un ruolo fondamentale nella nasci-
ta della Cochrane Collaboration ed ha diretto per molti anni il Centro
Cochrane inglese. Dal 2002 coordina la James Lind Initiative, che
promuove il miglioramento delle sperimentazioni cliniche per
migliorare l’assistenza sanitaria, puntando soprattutto al più ampio
coinvolgimento del pubblico.

RINGRAZIAMENTI
   Ringraziamo Tony Warshaw per averci incoraggiato a scrivere
questo libro. Siamo debitori verso Richard Ashcroft, Patricia
Atkinson, Hilda Bastian, Michael Baum, Joan Box, Noreen Caine,
Harry Cayton, Jan Chalmers, Alison Chapple, Mike Clarke, John
Critchlow, Ben Djulbegovic, Gorge Ebers, Robin Fox, Jo Garcia,
Paul Glasziou, Bec Hanley, Elina Hemminki, Andrei Herxheimer,
Tony Hope, Les Irwig, Debbie Kennet, Richard Lindley, Margaret
McCartney, Wilson Ng, Ann Oakley, Michael Parker, Sophie Petit-
Zeman, Uccio Querci della Rovere, Nick Ross, Eileen and David
Ruxton, Harvey Schipper, Lara Speicer e Blinda Wilkinson per i loro
utili commenti sulle precedenti versioni del lavoro e a Theo Chalmers
per aver disegnato la copertina della edizione inglese del libro. Iain
Chalmers ringrazia il Medical Research Council e il NHS Research
and Development Programme per il sostegno dato all’iniziativa.
PRESENTAZIONE
                  DELL’EDIZIONE ITALIANA
                  Far partecipare i pazienti alle scelte di ricerca:
                  un passaggio necessario per sapere
                  se le cure funzionano davvero




   Nick Ross, nella sua Prefazione, scrive che Testing Treatments – che
abbiamo deciso di presentare in italiano col titolo di Come sapere se
una cura funziona – è un libro che “fa bene alla salute”. Condivido in
pieno questo giudizio e, anzi, rilancio. Dicendo che abbiamo di fronte
un libro non solo capace di indurre sane riflessioni, ma anche di indi-
care una via, non facile, per rendere operativo e fattibile il coinvolgi-
mento degli utenti e dei pazienti nella ricerca.
   Presentare questa edizione italiana che – in coerenza col proprio
impegno editoriale per l’indipendenza della ricerca scientifica – Il
Pensiero Scientifico Editore ha fortemente voluto, è per me anzitutto
un grande onore. L’amicizia e l’ammirazione che mi lega ai tre auto-
ri, e soprattutto a Iain Chalmers, la cui conoscenza ha profondamen-
te segnato il mio percorso personale e professionale, ha reso più dif-
ficile di quanto prevedessi mettere insieme, senza sentirsi eccessiva-
mente banale, le brevi riflessioni che vorrei suggerire ai lettori di que-
sto libro.
   Pagine che sono la testimonianza, ed in qualche modo il program-
ma operativo, di tre persone che con traiettorie e percorsi diversi
hanno dedicato molte delle loro energie a trasformare la medicina e
le conoscenze che la ricerca produce, in strumenti utili a migliorare
l’assistenza ai pazienti.
VIII                                COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   Iain Chalmers, attraverso lo sforzo pionieristico che lo ha portato
oltre dieci anni fa a fondare la Cochrane Collaboration, Hazel
Thornton che ha sperimentato in prima persona l’angoscia di diven-
tare paziente e trovarsi di fronte all’elusività delle informazioni anche
quando ti si chiede di entrare in uno studio clinico, e Imogen Evans
che dall’interno del mondo medico ha potuto conoscerne a fondo
pregi e difetti, ci danno con questo libro una testimonianza preziosa.
   Dobbiamo ringraziarli, credo, per aver messo insieme un testo che,
pur nella sua essenzialità e semplicità di linguaggio, al tempo stesso,
stimola riflessioni a tutto tondo sul rapporto tra medicina e potere
nella sua espressione economica (quella che influenza le priorità del-
l’industria della salute) ed in quella ideologica (quella di chi usa il
potere gerarchico e l’idea della superiorità dell’“esperto” per margi-
nalizzare l’emergere dei bisogni assistenziali reali).
   Una riflessione che in Inghilterra ha dato vita ad un progetto con-
creto, la James Lind Alliance (http://www.lindalliance.org), mirato a
praticare l’obbiettivo di far lavorare insieme operatori sanitari e
pazienti per rendere più pregnante e rilevante la ricerca clinica, indi-
rizzandola verso le aree di incertezza che davvero stanno a cuore a
chi cura, ed a chi è curato.

   La soddisfazione di presentare l’edizione italiana di questo libro ha
molte motivazioni, e suscita altrettanti auspici. Vorrei richiamarne
soprattutto tre.
   Il primo deriva dalla consapevolezza della relativa unicità dei con-
tenuti che questo libro propone nel panorama italiano. L’auspicio è
che muoversi attraverso i capitoli di Come sapere se una cura funzio-
na sia un salutare invito – per chi ha a cuore l’empowerment dei
pazienti e la loro partecipazione – ad addentrarsi nei difficili meandri
del fare concreto, sapendo che provocare cambiamenti è possibile.
   Il secondo è che la lettura dei diversi capitoli induca, chi ha respon-
sabilità decisionali nel mondo della ricerca e dell’assistenza nel
nostro paese, ad un profondo esame di coscienza. Pensare alla ricer-
ca, soprattutto quella epidemiologico-clinica, come terreno di esclu-
siva pertinenza degli “esperti” e dei ricercatori di professione non è
più scientificamente, prima ancora che socialmente, sostenibile. La
giusta e legittima richiesta che maggiori disponibilità finanziarie
siano destinate alla ricerca non può non accompagnarsi a una grande
operazione di trasparenza. Sul come le priorità vengono decise, su chi
partecipa a queste decisioni, su come i finanziamenti vengono asse-
Presentazione                                                          IX

gnati in funzione della rilevanza e del merito scientifico, su quali
sono i doveri verso i pazienti e la società di chi riceve risorse per pro-
durre nuove conoscenze, su come la giusta enfasi verso una sana
competizione scientifica basata sulla qualità dei progetti non si con-
fonda con l’idea che la conoscenza è un bene privatizzabile, attraver-
so cui fare profitti.
   Terzo auspicio è quello di saper mantenere l’abitudine a scandaliz-
zarsi dello status quo. Chi oggi difende e si schiera a favore dell’in-
tegrità ed indipendenza della ricerca troverà in questo libro molte
buone ragioni per continuare a farlo, ma soprattutto molti buoni argo-
menti per evitare che lo scandalizzarsi diventi l’anticamera di cini-
smo e rassegnazione.
   Scorrendo le pagine di Come sapere se una cura funziona trovia-
mo diverse cose che è bene che il pubblico sappia, per passare da
un’infantile e aprioristica fiducia nel progresso scientifico ad un
maturo atteggiamento di vigilanza critica. È bene, anzitutto, che il
pubblico abbia una visione d’insieme sui temi della medicina e della
scienza, e che possa farsi un’idea bilanciata ed il meno possibile solo
emotiva. Il fatto che quasi ogni settimana si sia investiti di “cattive
notizie” su effetti collaterali inattesi di trattamenti e farmaci, sull’in-
sorgenza di infezioni gravi e poco aggredibili all’interno degli ospe-
dali, su incidenti che avrebbero potuto essere prevenuti, non deve
farci perdere di vista che la medicina moderna – come dicono
Chalmers, Evans e Thornton nel Capitolo 1 – ha portato molti pro-
gressi. È proprio perché le metodologie di valutazione dei trattamen-
ti sono tutt’altro che perfette, errori o effetti non previsti fanno parte
del possibile e possono essere ridotti solo puntando ad una ricerca di
migliore qualità e ad una maggiore capacità critica anche dei pazien-
ti sui limiti della medicina e sulla necessità continua di monitorarne i
possibili effetti avversi.
   È bene anche che il pubblico sappia che l’incertezza è parte inte-
grante del progresso scientifico ed è ineliminabile dalla pratica della
medicina. Anche per molti interventi largamente diffusi nella pratica
medica esistono poche prove scientifiche di efficacia e sicurezza. Se
questo è in parte giustificabile per tanti interventi che sono entrati
nella pratica della medicina prima che si affermasse la moderna
metodologia della ricerca, assai meno lo è per le più recenti innova-
zioni (pensiamo ai nuovi e sempre più “invadenti” test diagnostici) la
cui utilizzazione è determinata molto più da consumismo sanitario e
interessi commerciali che non da affidabili prove di efficacia e sicu-
X                                    COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


rezza. La lettura del Capitolo 4 dà molti utili indicazioni per farsi
carico, in positivo, dell’incertezza e indica proprio nella ricerca di
buona qualità la strada maestra per poter fornire ai pazienti la miglior
assistenza possibile. Anche chi lavora nei Comitati Etici potrà trova-
re nei Capitoli 4 e 5 un’utile ispirazione per la propria attività di vigi-
lanza e controllo.
   È bene, anche, che il pubblico sappia che ritardi nella ricerca di
cure migliori non sono una fatalità, e che una parte importante dello
sbilanciamento nell’agenda di ricerca ha responsabilità che vengono
anche dall’interno del mondo della ricerca. Sia per mancanza di un
adeguato supporto alla ricerca pubblica e indipendente da parte dei
sistemi sanitari, sia per un progressivo “scivolamento etico” che ha
caratterizzato il comportamento della professione medica e delle sue
rappresentanze scientifiche.
   La ricerca intesa come “la caccia al quesito innovativo”, “l’occa-
sione per l’acquisizione di visibilità e ruolo sociale/mondano” se
umanamente comprensibile, non è per questo meno grave e distorsi-
va. Partecipare alla ricerca, soprattutto quella commerciale, significa
oggi, per molti ricercatori, essere à la page e ben dentro l’establi-
shment. Pubblicare su riviste prestigiose, girare il mondo partecipan-
do a congressi scientifici, avere spazio sulla stampa laica presentan-
dosi come i grandi ricercatori, è una spinta troppo forte per sapergli
resistere. E, infatti, molti non resistono. Partecipano alla ricerca così
come viene loro proposta, hanno di fatto perso la speranza che debba
essere la rilevanza del quesito (soprattutto per i pazienti) la stella
polare da seguire. Non si spiegherebbe altrimenti la corsa per parte-
cipare a tanti studi la cui non esecuzione non farebbe certo male a
nessuno (tranne che magari agli interessi di marketing di chi li finan-
zia). Le informazioni e le riflessioni che troviamo nei Capitoli 5 e 6
danno buoni argomenti su necessità e urgenza di una responsabilità
sociale collettiva per la ricerca.
   È bene, infine, che la partecipazione dei pazienti non diventi un
mito o un feticcio, immaginando che di per sé essa sia garanzia di
ricerca migliore e più indipendente. Da questo punto di vista
Chalmers, Thornton e Evans non si nascondono anche i possibili
effetti collaterali di un partecipazione non informata e della sua pos-
sibile manipolazione.
   Nel Capitolo 7 gli autori discutono anche dei rischi che una parte-
cipazione non adeguatamente informata dei pazienti, e delle loro
associazioni, può comportare. In termini, per esempio, di ostacolare
Presentazione                                                          XI

la ricerca che sarebbe necessario fare, o di portare a fare ricerca lad-
dove essa non dovrebbe essere prioritariamente fatta. Senza andare a
riaprire le ancora non completamente chiuse cicatrici della terapia Di
Bella, Come sapere se una cura funziona, appunto nel Capitolo 7,
discute il caso dell’interferone nel trattamento della sclerosi multipla
e della fortissima pressione esercitata dalle associazioni di pazienti
per rendere a tutti disponibile un trattamento la cui reale efficacia era
molto dubbia a fronte di costi molto pesanti per il servizio sanitario
nazionale. Altro caso che gli autori discutono è quello della ricerca
sui farmaci anti HIV, un settore nel quale le associazioni dei pazienti
hanno giocato un ruolo molto importante non sempre privo tuttavia
di risvolti non unicamente positivi (si veda il Capitolo 7 per un mag-
giore approfondimento).
   In conclusione di questa presentazione vorrei fare a Come sapere
se una cura funziona, e a tutti noi che dei suoi contenuti vogliamo
essere razionali e appassionati sostenitori, un ultimo augurio. Quello
di raggiungere davvero i pazienti e le loro associazioni. Proprio qual-
che giorno fa, mentre stavo concludendo questo testo ho incontrato
Iain Chalmers che mi chiedeva, con interesse e curiosità, sui tempi di
comparsa di Testing Treatments nelle librerie italiane. A mia volta gli
ho chiesto se si riteneva soddisfatto di come era stata accolta l’edizio-
ne inglese. “We could have done better” (“avremmo potuto fare di
più”) – ha detto sorridendo Iain – riferendosi al fatto che ci sarebbe
voluto uno sforzo maggiore di diffusione, …uno sforzo militante,
verrebbe da dire, usando un termine di moda in un recente passato.
   È proprio questo augurio mi sento di fare a questo libro al momen-
to della sua apparizione italiana. Raggiungere davvero i pazienti, le
loro associazioni, le rappresentanze nei Comitati Etici, oltre, natural-
mente anche molti ricercatori clinici e molti responsabili delle politi-
che della ricerca nel nostro Paese.
   Un esempio di come promuovere attivamente questo percorso di
coinvolgimento lo si può trovare in Partecipasalute (www.partecipa-
salute.it) un progetto per molti versi “pilota” che, da circa tre anni, sta
cercando di aprire canali sostanziali di comunicazione tra associazio-
ni di pazienti e rappresentanti del mondo scientifico e professionale.
Canali che dovrebbero portare a esperienze di collaborazione sin dal-
l’inizio nell’identificazione delle priorità di ricerca e del modo
migliore per realizzare gli studi necessari. È realistico pensare che,
insieme alle molte altre esperienze che in Italia esistono, e che sono
purtroppo molto frammentate e disperse, si possa arrivare a far diven-
XII                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


tare la partecipazione dei pazienti una realtà riconosciuta, anche a
livello istituzionale. La decisione assunta dalla Agenzia Italiana del
Farmaco (AIFA) di aprire – nel proprio sito – uno spazio accessibile
al pubblico per la formulazione di suggerimenti di società scientifi-
che ed anche di pazienti e cittadini prima della preparazione del pro-
prio bando di ricerca è un primo piccolo ma significativo passo avan-
ti nella realtà italiana. Più in generale oggi è necessario impegnarsi
perché la ricerca sostenuta dal Servizio sanitario nazionale dia rispo-
ste utili e rilevanti per migliorare l’assistenza ai cittadini ed ai pazien-
ti e la strada da fare in questo senso è molto lunga. Una ricerca in
grado di produrre risposte rilevanti non può evidentemente prescin-
dere da una crescente partecipazione, e la diffusione capillare dei
principi e dei concetti contenuti in Come sapere se una cura funzio-
ne è una condizione necessaria per richiamare la comunità scientifi-
ca ai propri doveri.

  Alessandro Liberati
  Cochrane Collaboration
  Vice Presidente Commissione Nazionale Ricerca Sanitaria
PREMESSA
                  ALL’EDIZIONE ITALIANA




   Quando lo stavamo scrivendo, il nostro editore inglese ci chiese
quale sarebbe stato il pubblico di questo libro. Senza esitazioni,
rispondemmo che pazienti e cittadini erano i nostri interlocutori prio-
ritari, sebbene sperassimo che le operatrici e gli operatori sanitari
sarebbero anch’essi stati interessati. Il nostro scopo era incoraggiare
la valutazione critica delle informazioni sugli effetti delle terapie e
spingere il personale sanitario a dialogare per migliorare la ricerca in
questo settore. Desideravamo mostrare che il coinvolgimento dei cit-
tadini è una cosa realmente possibile e che può davvero fare la diffe-
renza: è il modo per garantire che la ricerca messa in atto sia finaliz-
zata a rispondere ad interrogativi che riguardano i malati.
   Per questo, siamo stati comunque molto contenti dei commenti
assai positivi letti sulla stampa specialistica, ma ci hanno ancor più
emozionato quelli ricevuti da cittadini, pazienti e loro familiari.
Sapere che “è il libro da cui più ho imparato e che più mi ha dato
forza tra quelli che ho letto” o che “incoraggia soprattutto leggere che
la ricerca deve rispondere a priorità dettate da noi malati e non dai
ricercatori o dall’industria, e che dobbiamo farci coinvolgere nel pro-
gramma della ricerca medica” è stato veramente gratificante.
   Speriamo che i lettori dell’edizione italiana ricevano stimoli analoghi
e che possano lavorare insieme agli operatori della Sanità per migliora-
re i modi attraverso i quali sapere veramente se una cura funziona.

  Imogen Evans, Hazel Thornton, Iain Chalmers
Come sapere se una cura funziona"
PREFAZIONE
                  Un libro che fa bene alla salute




    Questo è un libro che fa bene alla salute. Cerca soprattutto di chia-
rire alcuni misteri su come vengano prese decisioni che riguardano la
vita e la morte. Ci mostra come spesso queste decisioni si fondino su
valutazioni gravemente errate e fornisce ai medici di tutto il mondo
un’occasione per comportarsi meglio.
    E lo fa senza inutili allarmismi, esprimendo ammirazione per i tra-
guardi raggiunti dalla medicina moderna. Il suo scopo ultimo è quel-
lo di migliorare l’attività medica e non di screditarla.
    Ebbi le mie prime esperienze della ormai consolidata trascuratez-
za medica negli anni ’80, quando fui invitato a partecipare, come
membro laico, ad una conferenza di consenso con il compito di giu-
dicare quali fossero le migliori pratiche nella cura del cancro alla
mammella. Rimasi scioccato (e potreste esserlo anche voi leggendo
di più a questo proposito nel Capitolo 2). Raccogliemmo le prove dai
più importanti ricercatori e clinici e scoprimmo che alcuni dei più
eminenti medici lavoravano sulla base di impressioni o di veri e pro-
pri preconcetti, e che la possibilità di sopravvivenza di una donna, o
il fatto di rimanere mutilata dalla chirurgia, dipendeva largamente da
chi l’avrebbe curata e dalle sue convinzioni personali. Un chirurgo
preferiva interventi molto demolitivi, un altro preferiva la rimozione
del solo tumore, un terzo optava per l’aggiunta di una radioterapia
aggressiva e così via. Sembrava che l’era della valutazione scientifi-
ca fosse scivolata loro addosso.
    Questo è accaduto spesso e per molti medici è ancora vero.
Sebbene le cose siano migliorate, molti medici talentuosi, sinceri e
XVI                                 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


competenti sono sorprendentemente ignoranti su ciò che è una buona
prova scientifica. Esercitano la professione in un certo modo perché
così è stato loro insegnato alla facoltà di medicina o perché lo fanno
gli altri medici o perché nella loro esperienza funziona. Ma l’espe-
rienza personale, benché seducente, è spesso terribilmente fuorviante
– come questo libro mostra con una chiarezza brutale.
   Alcuni medici dicono che sia ingenuo applicare il rigore scienti-
fico alla cura di ogni singolo paziente. La medicina, asseriscono, è
scienza ed arte. Ma per quanto ciò suoni bene, è una contraddizio-
ne in termini. Ovviamente la conoscenza medica è finita mentre la
complessità di ciascun individuo è pressoché infinita, e da qui nasce
l’incertezza. Una buona pratica medica richiede quotidianamente di
fare delle ipotesi. Ma troppo spesso, nel passato, molti professioni-
sti medici non hanno distinto fra ipotesi e buone prove di efficacia.
Talvolta essi proclamano certezze anche laddove i dubbi sono con-
siderevoli. Essi ignorano i dati affidabili perché non sanno come
interpretarli.
   Questo libro spiega qual è la differenza fra l’esperienza personale
ed i più complessi, ma migliori, modi di distinguere ciò che funziona
da ciò che non funziona, ciò che è sicuro da ciò che non lo è. Per
quanto può, questo libro, evita i termini tecnici e promuove espres-
sioni tipicamente inglesi come ‘fair test’ (che in italiano abbiamo
deciso di tradurre con valutazione appropriata, ndt). Ci ricorda che la
scienza, così come tutto ciò che è umano, è incline ad errori e pregiu-
dizi (a causa di errori, vanità o – specialmente pericoloso in medici-
na – interessi commerciali); ma ci ricorda anche che è l’approccio
meticoloso della scienza ad aver favorito la maggior parte dei pro-
gressi nelle conoscenze umane. I medici (e gli operatori dei media
come me) dovrebbero smettere di screditare la ricerca clinica bollan-
dola come ‘sperimentazione condotta su cavie umane’. Al contrario
per i medici dovrebbe essere un imperativo morale promuovere valu-
tazioni appropriate nei loro pazienti e per i pazienti parteciparvi.
   Questo è un libro importante per tutti coloro che hanno a cuore la
propria salute o quella della propria famiglia o le politiche per la salu-
te. I pazienti vengono spesso visti come destinatari dell’assistenza
sanitaria piuttosto che come partecipanti. Abbiamo un compito arduo
da affrontare, che dobbiamo svolgere per coloro nel cui nome si pra-
tica la medicina e da cui gli stessi medici vengono pagati sia come cli-
nici, sia come ricercatori. Restando consumatori passivi di farmaci
non miglioreremo mai la situazione. Se preferiamo risposte semplici-
Prefazione                                                        XVII

stiche, avremo una pseudoscienza. Se non promuoviamo una speri-
mentazione rigorosa dei trattamenti, insieme alle sostanze che real-
mente funzionano avremo trattamenti inutili e alcune volte dannosi.
   Questo libro contiene un manifesto per migliorare le cose ed i
pazienti ne sono al centro. Ma è un libro importante anche per i medi-
ci, gli studenti ed i ricercatori; tutti possono trarne beneficio. In un
mondo ideale la lettura di questo libro sarebbe obbligatoria per ogni
giornalista, ma dovrebbe anche essere reso disponibile ad ogni
paziente, poiché, se i medici non sono in grado di soppesare le prove
scientifiche, in generale noi staremo peggio. La nostra vita dipende
da questo.
   Una cosa vi assicuro: se il tema della sperimentazione dei tratta-
menti è per voi nuovo, quando avrete letto questo libro non giudiche-
rete più allo stesso modo i consigli che vi darà il vostro medico.

  Nick Ross
  Giornalista e presentatore radio e TV
Come sapere se una cura funziona"
INTRODUZIONE




     Non c’è modo di sapere se le nostre osservazioni sugli eventi
  complessi in natura siano complete. La nostra conoscenza è
  finita, come sottolineato da Karl Popper, ma la nostra ignoran-
  za è infinita. In medicina, non possiamo mai essere certi delle
  conseguenze dei nostri interventi, possiamo solo ridurre l’area
  d’incertezza. Questa ammissione non è pessimistica come sem-
  bra: le affermazioni che resistono a sfide energiche e ripetute
  spesso risultano essere abbastanza affidabili. Queste “verità
  che si mantengono attive” costituiscono gli elementi fondamen-
  tali per la costruzione di strutture ragionevolmente solide, capa-
  ci di supportare ogni giorno le nostre azioni al letto del malato.
                                                                          1
                       William A. Silverman. Where’s the evidence? 1998


   Siamo stati colleghi per molti anni, condividendo non soltanto la
vicinanza professionale, ma anche la profonda convinzione che le
cure mediche, nuove o vecchie, dovessero fondarsi su buone prove di
efficacia. La nostra esperienza condivisa suggerisce che spesso ciò
non avviene. Ed è proprio questa consapevolezza che ci ha spinto a
scrivere questo libro.
   La curiosità di IE sulle prove di efficacia a sostegno dei trattamen-
ti che prescriveva ai pazienti è cresciuta durante la sua carriera nella
ricerca medica. Quando divenne giornalista scientifica di The Lancet
venne a conoscenza di palesi tentativi da parte delle industrie farma-
ceutiche e dei ricercatori di fare profitti con la verità, distorcendo o
abbellendo i risultati delle loro ricerche.
XX                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   L’invito inaspettato che HT ricevette ad essere inclusa in uno stu-
dio clinico di dubbia qualità le fece capire che avrebbe dovuto parte-
cipare attivamente ai progressi del trattamento della sua malattia e
non più rimanere un recettore passivo delle cure. Intraprese quindi
una vigorosa campagna per la collaborazione tra gli operatori sanita-
ri ed i pazienti, per assicurare una ricerca valida accompagnata da
un’informazione di buona qualità per i malati. L’ossessione di IC per
la valutazione rigorosa degli effetti di ciò che i medici fanno ai loro
pazienti iniziò quando lavorava in un campo profughi in Palestina:
ebbe allora l’impressione che alcuni dei malati che aveva assistito
fossero morti poiché lui praticava la medicina così come gli era stata
insegnata all’Università. Da allora, ha strenuamente promosso l’idea
che le decisioni nell’assistenza sanitaria debbano essere prese sulla
base di prove non inficiate da errori sistematici, derivanti dalle ricer-
che rilevanti ed in particolare dai risultati di revisioni sistematiche di
studi controllati.
   Ogni anno le ricerche sugli effetti delle cure producono una mon-
tagna di risultati. Sfortunatamente, molte di esse non offrono infor-
mazioni rilevanti per i bisogni dei pazienti e anche quando ciò avvie-
ne le prove sono spesso inaffidabili. Speriamo che il nostro libro
possa indicare il modo per giungere ad una comprensione più ampia
di come le cure debbano essere sperimentate in modo appropriato.
Questo libro non è un prontuario delle migliori terapie per specifiche
malattie. Piuttosto, qui illustriamo gli elementi essenziali per assicu-
rare che la ricerca sia solidamente fondata e disegnata per rispondere
ai quesiti d’interesse per i pazienti e per gli operatori sanitari a cui
essi chiedono aiuto.
   Nel Capitolo 1 descriviamo come alcuni nuovi trattamenti abbiano
avuto effetti avversi inattesi, come non si siano concretizzati gli effet-
ti positivi sperati di altri e come alcune “profezie” su cure che non
avrebbero funzionato si siano poi dimostrate errate. Infine, come
alcuni risultati utili della ricerca non vengano applicati nella pratica
clinica. Nel Capitolo 2 spieghiamo che molte delle cure e dei test di
screening più comunemente utilizzati non sono stati sperimentati in
modo adeguato. Il Capitolo 3 fornisce alcuni “dettagli tecnici” – dà le
basi per una sperimentazione corretta delle terapie, enfatizzando
l’importanza dell’essere attenti alla riduzione dei potenziali errori
sistematici e di come tener conto del ruolo del caso; introduce, inol-
tre, le nozioni di studio clinico randomizzato e di placebo; sottolinea
la necessità di condurre revisioni sistematiche delle prove di efficacia
Introduzione                                                        XXI

rilevanti. Nel Capitolo 4 descriviamo alcune delle numerose incertez-
ze che pervadono pressoché ogni aspetto dell’assistenza sanitaria e
come affrontarle. Il Capitolo 5 mette a confronto le differenze fonda-
mentali tra la buona ricerca, quella cattiva e quella inutile. Nel
Capitolo 6 mettiamo in luce quanto la ricerca possa essere distorta da
interessi commerciali ed accademici e sia spesso incapace di rivol-
gersi a quei quesiti che potrebbero fare una reale differenza per il
benessere dei pazienti. Il Capitolo 7 offre una mappa delle azioni che
i pazienti possono compiere per garantire che le terapie vengano
meglio sperimentate. E nel Capitolo 8, infine, presentiamo il nostro
manifesto per la rivoluzione nella sperimentazione delle cure – misu-
re pratiche da intraprendere immediatamente per realizzarla.
   Il volume è corredato da un’ampia bibliografia; altre fonti d’infor-
mazioni sono contenute nella sezione Risorse addizionali alla fine del
libro. Per coloro che vogliono approfondire ulteriormente gli argo-
menti, un buon punto di partenza è la James Lind Library disponibi-
le sul sito www.jameslindlibrary.org. Questo sito ospita altresì un
contatto di posta elettronica per i lettori di questo libro – potete man-
dare i vostri commenti all’indirizzo testingtreatments@jameslindli-
brary.org.
   Nonostante la descrizione degli effetti negativi causati da tratta-
menti sperimentati in modo inadeguato, non è certamente nostra
intenzione minare la fiducia dei pazienti nei loro medici e nel perso-
nale sanitario più in generale. Il nostro scopo è quello di migliorare
la comunicazione e rinforzare la fiducia. Ma ciò si realizzerà se i
pazienti potranno aiutare i loro medici a valutare criticamente le
opzioni tra i trattamenti. Noi speriamo che tu, lettore, quando avrai
finito di leggere questo libro, condividerai alcune delle nostre passio-
ni e che continuerai a fare domande scomode sulle cure, che riuscirai
a capire quali sono i vuoti della conoscenza medica e verrai coinvol-
to in ricerche che forniranno risposte utili al bene comune.
Come sapere se una cura funziona"
1• NUOVO     – MA NON
                 NECESSARIAMENTE MIGLIORE
                 O MAGARI ANCHE PEGGIORE




   Praticamente ogni settimana c’è una notizia che getta luce sull’ef-
fetto collaterale imprevisto di un farmaco, su un errore chirurgico, su
un’infezione dilagante o su una gravidanza non appropriatamente
gestita. Alcuni critici vanno oltre: descrivono l’attuale medicina
scientifica come disumanizzata, quasi che la macelleria che ha prece-
duto la chirurgia moderna o i veleni che in passato venivano usati
come farmaci fossero qualcosa di più umano.2
   La medicina moderna ha oggi raggiunto importanti traguardi.3 Lo
sviluppo di farmaci efficaci ha rivoluzionato il trattamento dell’infar-
to e dell’ipertensione ed ha permesso a molte persone ammalate di
schizofrenia di uscire dagli ospedali psichiatrici e di vivere a casa.
L’efficacia dei farmaci per l’ulcera gastrica ha consentito di evitare
molti interventi chirurgici destruenti e sono ormai passati alla storia
trattamenti inutili come le diete a base di latte. Le vaccinazioni nel-
l’infanzia hanno reso la poliomielite e la difterite un ricordo del pas-
sato. Oggi è facile dimenticarsi che la leucemia ed altri tipi di cancro
erano un tempo malattie invariabilmente fatali e oggi anche con altri
tumori la norma è la sopravvivenza piuttosto che la morte. Una volta
una malattia molto diffusa in Africa occidentale ed equatoriale, nota
come “cecità dei fiumi”, causata dalla larva di un tipo di mosca, por-
tava molte persone a questa condizione. Ora è stata praticamente era-
dicata dalla terapia farmacologica.
   Anche le moderne tecniche di diagnostica per immagine hanno
apportato miglioramenti significativi. L’ecografia, la tomografia com-
puterizzata, la risonanza magnetica per immagini, sono state d’aiuto
nell’assicurare una maggior accuratezza diagnostica e di conseguenza
2                                    COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


un trattamento più appropriato. Ad esempio, la risonanza magnetica è
in grado di rivelare il tipo di ictus da cui un paziente è stato colpito.
Se l’ictus è causato da un sanguinamento cerebrale (ictus emorragi-
co) l’aspirina, utile in altre varianti della malattia, potrebbe essere
dannosa. Anche le tecniche chirurgiche e anestesiologiche hanno
fatto notevoli passi in avanti. Le protesi articolari ed il trapianto d’or-
gano sono diventati di uso comune. Ovviamente molti miglioramen-
ti nel campo della salute sono conseguenti a quelli raggiunti in ambi-
to sociale e di sanità pubblica, come la distribuzione di acqua potabi-
le, le procedure di disinfezione e le migliori condizioni abitative ed
alimentari. Nonostante ciò alcuni scettici vorrebbero negare l’im-
menso impatto della medicina moderna. Buona parte dell’aumento
della nostra aspettativa di vita può essere attribuita, dalla metà del
secolo scorso, al miglioramento delle cure sanitarie e lo stesso si può
dire del miglioramento della qualità della vita di chi soffre di malat-
tie croniche.4
   Ma, ancora adesso, troppe scelte fatte in medicina sono basate su
prove di efficacia mediocri. Inoltre ci sono ancora troppe terapie
mediche che provocano danni ai pazienti e trattamenti validi che
invece non sono sufficientemente utilizzati (vedi dopo e Capitolo 5).
   L’ideazione di nuovi trattamenti si accompagna quasi invariabil-
mente ad incertezze relative ai loro effetti e alla loro efficacia – è
molto raro che gli effetti dei trattamenti siano chiaramente e indubi-
tabilmente evidenti. Ne discende la necessità di utilizzare sperimen-
tazioni corrette ed accurate per identificare quali risultati siano affi-
dabili (vedi Capitolo 3). Senza una valutazione corretta – priva ossia
di errori sistematici – si rischia di considerare utili trattamenti inutili
o addirittura dannosi e, per converso, trattamenti utili rischiano di
essere abbandonati come privi di efficacia. Non è sufficiente che una
teoria sull’efficacia di un trattamento suoni convincente, deve essere
provata. Infatti, alcune teorie che avevano predetto l’efficacia di un
trattamento sono state smentite da prove successive, così com’è acca-
duto anche il contrario.
   In tutto ciò non vi è nulla di nuovo: nel 18° secolo James Lind uti-
lizzò un esperimento adeguato per confrontare i trattamenti utilizzati
nel combattere lo scorbuto, malattia mortale per un gran numero di
marinai durante i lunghi viaggi. Egli dimostrò che arance e limoni
(poiché contengono vitamina C) costituivano la cura più efficace. In
sostanza Lind condusse quel che oggi chiamiamo “studio controllato”.
Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore                            3

   Nel 1747, mentre prestava servizio in qualità di medico di bordo
sul vascello Salisbury della IV flotta di Sua Maestà, James Lind
reclutò 12 dei suoi pazienti, del tutto simili tra loro rispetto allo sta-
dio della malattia, li alloggiò nella stessa parte della nave e assicurò
loro la stessa dieta di base. Questo permise di realizzare una situazio-
ne fondamentale per assicurare la validità di qualsiasi studio, ossia la
creazione di un gruppo con le stesse caratteristiche di base (vedi
Capitolo 3 e Capitolo 4, riquadro a pagina 72). Poi Lind costituì sei
gruppi di due marinai, assegnando ad ogni gruppo uno dei sei tratta-
menti che erano allora in uso per lo scorbuto – sidro, acido solforico
diluito, aceto, acqua di mare, noce moscata oppure due arance ed un
limone. Gli agrumi conseguirono una vittoria schiacciante e più tardi

  LA MORTE DI RE CARLO II

  Sir Raymond Crawfurd (1865-1938) ha scritto un vivido racconto della morte di
  Re Carlo II avvenuta nel 1685. Il Re era stato colpito da un ictus. I suoi medici
  avevano prontamente intrapreso delle terapie crudeli:

     “Furono rimosse sedici once di sangue da una vena del braccio destro del
     Re con immediato beneficio. Seguendo la procedura terapeutica dell’epo-
     ca, il Re fu lasciato seduto sulla poltrona dove lo colpirono le convulsioni.
     I suoi denti vennero mantenuti forzatamente aperti per evitare che si mor-
     desse la lingua. Questo regime terapeutico fu mantenuto dapprima per
     risvegliarlo e poi per impedirgli di addormentarsi, secondo quanto minuzio-
     samente descritto da Roger North. Furono inviati dispacci urgenti ai nume-
     rosi medici personali del Re, che accorsero per prestare assistenza; furono
     convocati indipendentemente dal credo religioso o politico. Questi ordina-
     rono che fossero applicate alle spalle del Re delle coppette di vetro e che
     gli fossero praticate delle scarificazioni profonde da cui rimuovere altre
     otto once di sangue. Gli fu somministrato un forte emetico antimoniale [un
     farmaco che causa il vomito], ma dal momento che il Re era in grado di
     deglutirne solo una minima parte, per essere doppiamente sicuri delle cure
     prestate, i medici gli somministrarono una dose piena di solfato di zinco.
     Gli furono somministrati dei forti purganti, completati poi da clisteri. Gli
     furono rasati i capelli e gli furono conficcati aghi su tutta la testa. E dal
     momento che tutto ciò non sembrava sufficiente, gli fu anche imposto un
     cauterio incandescente. Il Re fu grato di essere stato incosciente fino alla
     morte”.

                  Crawfurd R. Last days of Charles II. Oxford: The Clarendon Press, 1909
4                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


l’Ammiragliato ordinò che fosse fornito succo di limone a tutte le
navi, con il risultato che, verso la fine del 18° secolo, la malattia mor-
tale fu debellata tra le fila della Reale Marina Britannica. Tra i tratta-
menti che Lind aveva messo a confronto, il Royal College of
Physicians preferiva l’acido solforico, mentre l’Ammiragliato prefe-
riva l’aceto – Lind con una sperimentazione adeguata mostrò che
entrambe le autorità si sbagliavano. E non di rado le autorità mediche
si sbagliano (vedi dopo e Capitoli 2, 5 e 6).
   Incertezze simili sugli effetti dei trattamenti vengono oggi spesso
messe in luce quando medici diversi scelgono differenti approcci
terapeutici per una stessa malattia (vedi Capitolo 4). Nel chiarire tali
incertezze sia i pazienti sia i medici giocano un ruolo importante. È
indubitabile che sia nell’interesse tanto dei pazienti, quanto dei medi-
ci, che la ricerca nel campo dei trattamenti venga condotta in modo
rigoroso. Tanto i medici quanto i pazienti dovrebbero assicurarsi che
le raccomandazioni di trattamento si basino su prove di efficacia.
Solo se si creerà questa alleanza, il pubblico potrà avere fiducia in
tutto ciò che la medicina moderna può offrirgli (vedi Capitolo 7).


EFFETTI INDESIDERATI INATTESI

   C’è stata un’epoca in cui i medici erano incerti sull’utilità di som-
ministrare a donne gravide, con storia di precedenti aborti o di bam-
bini nati morti, un estrogeno di sintesi (non naturale), il dietilstilbe-
strolo (DES). Alcuni medici lo prescrivevano, altri no. Il DES diven-
ne popolare agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso e venne utiliz-
zato per il trattamento delle disfunzioni placentari, allora considerate
all’origine dei suddetti esiti negativi della gravidanza. Tale utilizzo fu
incoraggiato dalle storie di donne che, avendo avuto precedenti
aborti o nati morti, avevano condotto a termine felicemente la gravi-
danza dopo il trattamento con DES.
   Ad esempio, un ostetrico inglese prescrisse il DES fin dall’inizio
di una nuova gravidanza ad una donna che nelle due precedenti
aveva partorito bambini nati morti. Questa nuova gestazione termi-
nò con la nascita di un figlio vivo. Durante la quarta gravidanza
l’ostetrico non prescrisse il DES, pensando che nel periodo intercor-
so fossero migliorate le “naturali” capacità della donna di portare a
termine la gravidanza con successo; il bambino morì in utero per
Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore         5

“insufficienza placentare”. Quindi durante la quinta e la sesta gravi-
danza né l’ostetrico, né la donna ebbero dubbi sull’utilità di assume-
re il DES ed entrambe le gravidanze terminarono con la nascita di
due bambini vivi. Sia il medico che la donna giunsero alla conclu-
sione che il farmaco era utile.
   Sfortunatamente questa conclusione non fu mai suffragata da
prove di efficacia derivate dagli studi privi di errori sistematici che,
invero, furono condotti e descritti negli anni in cui alle donne è stato
somministrato il DES.5
   Ma ciò che è ancor peggio, circa vent’anni dopo, la madre di una
giovane donna colpita da una rara forma di neoplasia vaginale sugge-
rì che il cancro della figlia potesse essere attribuibile al DES, che le
era stato prescritto durante la gravidanza da cui la ragazza era venu-
ta alla luce.6 Da allora numerosi studi hanno evidenziato un’ampia
gamma di effetti collaterali del DES, anche gravi, sia in uomini sia in
donne esposti in utero al farmaco e che includono non solo un aumen-
to della frequenza di forme rare di neoplasia, ma anche anomalie del
sistema riproduttivo. Durante il periodo di tempo occorso per dichia-
rare ufficialmente che il DES non avrebbe dovuto essere sommini-
strato in gravidanza, diversi milioni di uomini e di donne sono stati
esposti a questo farmaco durante la vita intrauterina. Alla luce delle
attuali conoscenze, se i medici avessero saputo identificare gli studi
più affidabili sul DES, già disponibili negli anni ’50, lo avrebbero
prescritto molto meno. Inoltre non è mai stato dimostrato che il DES
fosse effettivamente efficace nelle condizioni per cui inizialmente
veniva prescritto. Tragicamente, questa scarsità di prove sui benefici
è stata ampiamente trascurata.7
   Un altro esempio agghiacciante di terapia medica che ha prodotto
più danni che benefici è quello della talidomide.8 Questa pillola per
dormire fu introdotta negli ultimi anni ’50 come un’alternativa sicu-
ra ai barbiturici, all’epoca prescritti regolarmente; al contrario dei
barbiturici un’overdose di talidomide non induceva il coma. La pre-
scrizione della talidomide venne raccomandata nelle donne gravide e
fu anche utilizzata per alleviare le nausee mattutine.
   Poi, nei primi anni ’60, gli ostetrici cominciarono a rilevare nei neo-
nati numerosi casi di malformazioni degli arti. Questa condizione,
considerata prima rara, si manifestava con arti talmente corti che le
mani e i piedi sembravano nascere direttamente dal corpo. Alcuni
medici, in Germania e in Australia, associarono questa malformazione
6                                             COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




    UNA TRAGICA EPIDEMIA DI CECITÀ NEI BAMBINI

    Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale furono introdotti numerosi nuovi tratta-
    menti per migliorare le prospettive di vita dei bambini nati prematuri. Pochi anni
    dopo divenne dolorosamente chiaro che un certo numero di innovazioni terapeuti-
    che avevano prodotto effetti dannosi totalmente inattesi. La più evidente di queste
    tragiche esperienze di cura fu un’epidemia di cecità, causata dalla fibrodisplasia
    retrolenticolare, negli anni compresi tra il 1942 e il 1954. Si scoprì che la malattia
    era associata al modo in cui veniva somministrato l’ossigeno necessario alla cura
    dei neonati non completamente sviluppati. I dodici anni impiegati nella lotta per
    fermare l’epidemia dimostrarono chiaramente la necessità di pianificare la valuta-
    zione di ogni innovazione medica prima di accettarla nella pratica generale.

                    Silverman WA. Human experimentation: a guided step into the unknown.
                                          Oxford: Oxford University Press, 1985: vii-viii



dei bambini con l’assunzione materna della talidomide nelle prime fasi
della gravidanza. La mamma di uno dei bimbi tedeschi malati ebbe un
ruolo cruciale in questa scoperta – raccontò di aver provato un senso
di debolezza associato a parestesie delle mani e dei piedi quando assu-
meva il farmaco – inducendo così i medici a riflettere.
   Alla fine del 1961, l’industria farmaceutica ritirò la talidomide dal
commercio. Molti anni più tardi, dopo campagne pubbliche e azioni
legali, le vittime cominciarono a ricevere risarcimenti. L’impatto di
queste devastanti anomalie fu immenso – in oltre 46 paesi dove la
talidomide fu prescritta (ed in alcuni paesi venduta anche senza pre-
scrizione medica), migliaia di bambini si ammalarono. La tragedia
della talidomide scioccò i medici, l’industria farmaceutica ed i
pazienti e portò ad una revisione del processo di sviluppo e di regi-
strazione dei farmaci a livello mondiale.9
   Il caso del practololo non è famoso come quello della talidomide,
ma ha provocato dei danni immensi. Il practololo appartiene ad un
gruppo di farmaci detti betabloccanti, usati sia nel trattamento delle
patologie cardiache causate da un insufficiente afflusso di sangue al
cuore, sia nel controllo delle irregolarità del ritmo cardiaco. Quando
il primo betabloccante venne introdotto in commercio, furono nume-
rose le avvertenze affinché non venisse usato in pazienti asmatici per-
ché peggiorava le difficoltà respiratorie. I betabloccanti possono inol-
tre indurre depressione nei pazienti – “depressione da betabloccanti”.
Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore                            7

Quando il practololo venne commercializzato, fu prescritto dopo spe-
rimentazioni su animali e brevi studi clinici su pazienti e venne pub-
blicizzato come dotato di una maggior specificità d’azione sul cuore
rispetto ai farmaci precedenti e insieme di maggior sicurezza nei
pazienti asmatici. Inoltre, causava meno depressione. Alla luce di
tutto ciò sembrava essere estremamente promettente.
   Ma dopo quattro anni venne alla luce una costellazione di effetti
collaterali, noti come sindrome da practololo, in alcuni dei pazienti
che avevano ricevuto il farmaco.10 Questi comprendevano complican-
ze oculari, come secchezza oculare per riduzione della secrezione
lacrimale, congiuntiviti e danni corneali che portavano ad una dimi-
nuzione della capacità visiva. Furono descritte anche reazioni cuta-
nee, sordità e una condizione molto grave nota come peritonite scle-
rotizzante, in cui la membrana peritoneale (quella sottile membrana
che riveste la cavità interna dell’addome) si organizza in masse di tes-
suto fibroso che strozzano l’intestino e gli altri organi addominali.
   Con il senno di poi, ci si avvide che fin dal primo utilizzo clinico
del practololo, i pazienti avevano riferito sintomi oculari ai loro medi-
ci di medicina generale, ma questi non li associarono al farmaco.

  IL PROGETTO YELLOW CARD

  Il progetto Yellow Card fu lanciato in Gran Bretagna nel 1964, dopo che le mal-
  formazioni prodotte dalla talidomide nei neonati dimostrarono quanto fosse
  importante monitorare i danni indotti da un farmaco, anche dopo la sua registra-
  zione. Da allora, 400.000 segnalazioni sono state registrate dal Comitato per la
  Sicurezza dei Medicinali (Committee on Safety of Medicine), un’unità del
  Ministero della Salute che riceve ed analizza i risultati. Inizialmente, solo i medi-
  ci pratici potevano redigere i rapporti, ma in seguito anche infermieri, farmacisti,
  medici legali, dentisti, radiologi e oculisti sono stati incoraggiati a registrare e
  spedire i moduli. E, in seguito ad una revisione del progetto avvenuta lo scorso
  anno, anche i pazienti e chi presta loro assistenza sono ora invitati a registrare le
  reazioni avverse sospette nell’ambito di un progetto pilota che ha preso il via il
  mese scorso sul sito www.yellowcard.gov.uk. Non solo è possibile compilare
  online il modulo, ma è anche possibile visionare quelli stilati da altre persone. Ciò
  fornisce la possibilità di avere un quadro generale di quel che accade con l’utiliz-
  zo di un particolare farmaco, pur ricordando che gli eventi registrati sono solo
  sospetti.

                   McCartney M. Doctor’s notes, The Guardian: Health, 2005, Feb 8, p. 9.
8                                    COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


Questo ritardo nel riconoscimento fu pagato a caro prezzo – quando
l’industria ritirò il farmaco nel 1975, aveva fatto almeno 7 mila vitti-
me nella sola Gran Bretagna.
   Trent’anni dopo, le regole per la sperimentazione farmacologica
sono diventate considerevolmente più restrittive, quindi com’è possi-
bile che questo accada ancora? Le probabilità sono sicuramente infe-
riori, ma anche applicando le migliori procedure per le sperimentazio-
ni sui farmaci non ci possono essere garanzie assolute sulla sicurezza.
La storia del practololo ci fornisce un esempio che rimane valido
anche oggi – le osservazioni dei pazienti e gli avvisi dei clinici riman-
gono di vitale importanza nell’identificazione delle reazioni avverse
sui farmaci.11


EFFETTI SPERATI, CHE POI NON SI REALIZZANO

   Non pensiate che solo i farmaci possano provocare danni – anche i
consigli possono essere letali. Molte persone hanno sentito parlare del
pediatra statunitense Benjamin Spock – il suo libro campione di ven-
dite, Baby and Child Care, divenne una bibbia sia per i professionisti
sia per le famiglie. Nell’offrire una delle sue pillole di saggezza il dot-
tor Spock fece un grosso errore. Con una logica apparentemente irre-
futabile – e certamente associata ad un certo grado di autorevolezza –
nel suo libro, a partire dall’edizione del 1956 in poi, arguiva: “Ci sono
due svantaggi nel far dormire il bambino sulla schiena. In caso di
vomito è più probabile che ne venga soffocato. Inoltre il bambino
tende a tenere il capo girato sempre dallo stesso lato … e ciò potreb-
be schiacciare quel lato della testa… io penso che sia preferibile porre
il bambino a dormire sulla pancia fin dall’inizio.”
   Divenne pratica comune in tutti gli ospedali mettere i bambini a
dormire sulla pancia e questo consiglio fu rispettosamente seguito
anche a casa da milioni di genitori. Ma sappiamo che tale pratica –
mai valutata in modo rigoroso – è stata la causa di migliaia di morti
in culla che potevano essere evitate.12 Benché non tutte queste morti
siano da attribuirsi a quello sfortunato consiglio, quando tale pratica
fu abbandonata e fu promosso il suggerimento contrario, ci fu un
radicale declino della mortalità per questa causa. Quando negli anni
’80 emersero delle prove chiare sugli effetti dannosi del far dormire
il bimbo sulla pancia, i medici ed i media iniziarono a mettere in
Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore          9

guardia i genitori su tale pericolo ed il numero delle morti cominciò
a calare drasticamente. Il messaggio venne poi rinforzato attraverso
la campagna “Dormire sulla schiena” mirata a rimuovere una volta
per tutte la cattiva influenza esercitata dal deplorevole suggerimento
del dottor Spock.
   Il consiglio del dottor Spock poteva sembrare logico, ma era basa-
to su una teoria non sperimentata. Non è difficile trovare altri esem-
pi dei pericoli cui espone un simile modo di pensare. Dopo aver avuto
un infarto cardiaco alcune persone possono sviluppare alterazioni del
ritmo cardiaco – aritmie. Alcune di queste possono portare rapida-
mente a morte, mentre altre no. Poiché ci sono farmaci capaci di fer-
mare queste aritmie, sembrerebbe logico supporre che essi siano
anche in grado di ridurre la mortalità precoce in seguito ad infarto
cardiaco. In realtà tali farmaci hanno l’effetto opposto. Questi farma-
ci furono sperimentati in studi clinici controllati, ma solo per verifi-
carne la capacità di ridurre le aritmie. Quando le prove accumulate
attraverso diversi studi furono riviste in modo sistematico nel 1983,
non emersero prove che tali farmaci riducessero la mortalità.13
Nonostante ciò essi continuarono ad essere utilizzati – e ad uccidere
persone – per circa un decennio. Al momento del picco del loro uti-
lizzo, alla fine degli anni ’80, si stima che avessero causato decine di
migliaia di morti premature ogni anno negli USA. Questi farmaci
avevano ucciso ogni anno più Americani di quanti ne fossero stati
uccisi in azione durante la guerra del Vietnam.14 Più tardi emerse che,
per motivi commerciali, non erano mai stati resi noti i risultati di
alcuni studi che suggerivano la letalità del farmaco.15
   Se esistesse la possibilità di limitare l’entità del danno cerebrale nei
pazienti colpiti da ictus, si potrebbe ridurre la disabilità che ne conse-
gue. Negli anni ’80, un farmaco chiamato nimodipina, appartenente
ai cosiddetti calcioantagonisti, fu sperimentato per questo fine in
pazienti colpiti da ictus; alcuni esperimenti sugli animali avevano
dato risultati incoraggianti. Quando uno studio clinico, pubblicato nel
1988, suggerì degli effetti positivi sembrò prospettarsi un futuro ful-
gido per la nimodipina. Altri studi clinici fornivano tuttavia risultati
in contrasto fra loro. Una possibile spiegazione poteva essere legata
al maggior beneficio tratto dalla somministrazione precoce del farma-
co dopo l’avvenuto ictus e una revisione degli studi sembrò confer-
mare tale ipotesi. Ma quando le prove derivate dalle ricerche giunse-
ro a coinvolgere circa 8.000 pazienti, non furono rilevati effetti posi-
10                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


tivi del farmaco, anche se somministrato precocemente.16 Com’è
potuto accadere che l’uso della nimodipina si sia basato su prove soli-
de solo in apparenza? Quando, alla luce degli studi condotti sui
pazienti, sono stati rivisti per la prima volta sistematicamente i risul-
tati di quelli condotti su animali17 divenne chiaro che essi erano dubbi
fin dall’inizio. Quindi già da allora non ci sarebbero state buone
ragioni per intraprendere studi su pazienti affetti da ictus (vedi
Capitolo 5).
   Nelle donne che stanno per entrare in menopausa, la terapia ormo-
nale sostitutiva (TOS) è molto efficace nel ridurre lo stress dovuto
alle vampate, esperienza comune a molte donne, e ci sono prove che
potrebbe essere efficace nel prevenire l’osteoporosi. Gradualmente
sono stati annunciati sempre più numerosi effetti positivi della TOS,
inclusa la protezione dall’infarto cardiaco e dall’ictus. E milioni di
donne, consigliate dai loro medici, hanno cominciato ad utilizzare la

  UNA RACCOMANDAZIONE BASATA SU UNA TEORIA
  NON VALIDATA PUÒ UCCIDERE

  La raccomandazione di mettere a dormire i bambini sull’addome prese slancio
  negli USA con l’edizione del 1956 di A Baby’s First Year del dottor Spock. Una
  raccomandazione simile fu formulata in Europa ed in Australasia circa dieci anni
  più tardi e fu seguito da un costante incremento nell’incidenza di SIDS [Sudden
  Infanth Death Sindrome; morte improvvisa in culla] durante gli anni ’70 e ’80,
  proporzionale al numero di bambini posizionati sulla pancia. Nel 1970 le prove di
  efficacia furono riviste in maniera sistematica, dimostrando un rischio di SIDS tre
  volte più elevato nei bambini messi a dormire sulla pancia rispetto a quelli in qua-
  lunque altra posizione. Per altro, pochi ricercatori sarebbero potuti venire a cono-
  scenza di questi risultati perché un primo resoconto fu reso disponibile solo nel
  1988. Ma soltanto dai primi anni ’90 fu lanciata la campagna “Dormire sulla
  schiena”, dopo che l’incidenza della SIDS diminuì di circa il 70% nelle aree in cui
  i ricercatori avevano fornito il consiglio opposto a quello del dottor Spock. In
  Gran Bretagna questo avveniva 21 anni dopo la prima prova chiara di danno, al
  costo di almeno 11 mila morti evitabili tra i bambini. Negli USA, dove dormire
  sulla pancia è stato comune per più lungo tempo, le morti potrebbero essere state
  molte di più.

                                       Adattato da Gilbert R, Salanti G, Harden M, See S.
                           Infant sleeping position and the sudden infant death syndrome:
                          systematic review of observational studies and historical review
                                         of clinicians’ recommendations from 1940-2000.
Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore      11

TOS per periodi prolungati proprio per i benefici che si diceva potes-
se offrire. Tuttavia le basi di queste affermazioni erano davvero pre-
carie.
   Consideriamo anche solo l’infarto miocardico. Per più di 20 anni
è stato detto alle donne che la TOS avrebbe ridotto il rischio di que-
sta malattia – però questa raccomandazione era basata sui risultati di
studi viziati da errori (vedi sopra e il Capitolo 3, box a pagina 36).
Poi nel 1997 fu lanciato un allarme sulla possibilità che questo pare-
re potesse essere sbagliato: ricercatori finlandesi ed inglesi rividero
sistematicamente i risultati degli studi di buona qualità. Essi trovaro-
no che, invece di ridurre la malattia cardiaca, la TOS avrebbe potuto
aumentarla. Alcuni commentatori importanti contestarono queste
conclusioni, ma quei risultati, allora preliminari, sono stati ora con-
fermati da due studi privi di errori sistematici e di grandi dimensio-
ni. Se gli effetti della TOS fossero stati valutati in modo appropriato
quando venne introdotta la prima volta, le donne non sarebbero state
malinformate e molte di esse non sarebbero morte prematuramente.
A peggiorare le cose, le prove di buona qualità mostrano ora che la
TOS aumenta il rischio di ictus e di sviluppo di cancro della mam-
mella.19
   In generale, la TOS continua ad essere un trattamento utile per i
sintomi della menopausa. Tuttavia, è tragico che sia stata intensamen-
te pubblicizzata per il fine specifico di ridurre infarto e ictus.
Nonostante che il rischio del verificarsi di queste condizioni perico-
lose sia modesto, il numero totale di donne affette è veramente molto
grande, in quanto la TOS è stata prescritta diffusamente.
   Anche quando le terapie non adeguatamente sperimentate non
uccidono o non provocano danni, possono far sprecare denaro.
L’eczema è un problema della pelle fastidioso che colpisce sia i bam-
bini sia gli adulti. Le lesioni della pelle sono sgradevoli alla vista e
molto pruriginose. Benché l’uso delle creme a base di steroidi sia
efficace in questa condizione, il loro uso non è scevro di preoccupa-
zioni sugli effetti collaterali. Nei primi anni ’80, un olio naturale
estratto da una pianta – olio di enotera (evening primrose oil) – emer-
se come possibile alternativa gravata da minori effetti collaterali.20
L’olio di enotera contiene un acido grasso, detto acido gamma linole-
nico (AGL), che potrebbe costituire una ragionevole base per il suo
utilizzo. Un’ipotesi sulle cause della malattia era che nell’eczema la
via di metabolizzazione dell’AGL fosse alterata.
12                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




 NON C’È DA STUPIRSI CHE FOSSE CONFUSA

 Nel Gennaio 2004 una paziente che era stata sottoposta ad isterectomia scrisse
 questa lettera al Lancet:

     ‘Nel 1986 ho subito un intervento di isterectomia a causa di un fibroma. Il
     chirurgo mi tolse anche le ovaie e mi diagnosticò l’endometriosi. Poiché
     avevo solo 45 anni e la menopausa avrebbe avuto inizio immediatamente,
     mi fu prescritta la terapia ormonale sostitutiva (TOS). Per il primo anno
     assunsi estrogeni coniugati (Premarin), ma dal 1988 fino al 2001 mi furo-
     no applicati impianti contenenti estrogeni ogni 6 mesi, da parte del chirur-
     go che mi aveva operato. Ero sempre un po’ in dubbio su questo trattamen-
     to, perchè sentivo di non aver controllo su quello che mi sarebbe successo
     una volta che mi fosse stato fatto l’impianto e anche molti anni dopo soffrii
     di diversi episodi di cefalea. A parte questo mi sentivo bene.
     Tuttavia, il mio chirurgo mi assicurò che la TOS aveva così tanti vantaggi
     e che mi faceva così bene, che accettai. Con il passar del tempo, la TOS
     veniva descritta come capace di dare sempre più benefici e non era solo il
     farmaco ad uso sintomatico così come era stato prescritto nei primi anni di
     utilizzo. Faceva bene al cuore, per l’osteoporosi e difendeva dagli ictus.
     Ogni volta che mi recavo dal mio chirurgo, sembrava avesse sempre più
     prove sui vantaggi della TOS.
     Il mio chirurgo andò in pensione nel 2001 e andai dal mio medico del
     Servizio Sanitario Nazionale. Che shock! Mi disse l’esatto opposto del mio
     medico privato – che era una buona idea sospendere la TOS: poteva aumen-
     tare il rischio di malattia cardiaca, di ictus e cancro della mammella ed esse-
     re la causa della cefalea. Avevo ancora un impianto e poi passai al Premarin
     per un breve periodo, ma dopo ciò non ho assunto la TOS per circa 8 mesi.
     Il mio medico mi disse che era una mia decisione se assumerla o meno. Ero
     così confusa…
     Non riesco a capire come la TOS e tutti i suoi fantastici vantaggi possano
     essere stati capovolti in così poco tempo. Come può un profano come me
     essere in grado di fare una scelta pienamente consapevole? Ho passato
     molto tempo a discutere e a chiedermi se avrei dovuto continuare ad assu-
     mere la TOS, sebbene sinora non abbia sofferto di molti effetti negativi.
     Sono molto confusa da tutto ciò e sono sicura che altre donne stiano pro-
     vando la stessa sensazione.’

                                               Huntingford CA. Confusion over benefits
                                  of hormone replacement therapy. Lancet 2004; 363: 332
Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore        13

   Così, in teoria, sarebbe stato utile fornire un supplemento di AGL.
L’olio di borragine, conosciuto anche come starflower oil, contiene
AGL in quantità anche maggiori e anche questo era raccomandato per
l’eczema.
   L’AGL era sicuro, ma era efficace? Furono condotti numerosi studi
per scoprirlo, ottenendo risultati contrastanti. Le prove pubblicate
furono fortemente influenzate dagli studi sponsorizzati dalle aziende
produttrici degli integratori. Nel 1995 il Ministero della Salute ingle-
se chiese a ricercatori non legati ai produttori dell’olio di enotera di
rivedere 20 studi pubblicati e non pubblicati. Non fu trovata alcuna
prova di benefici. Il Ministero non rese mai pubblico il rapporto in
quanto i produttori si opposero. Ma, cinque anni dopo, un’altra revi-
sione sia dell’olio di enotera, sia dell’olio di borragine, condotta dagli
stessi autori e questa volta pubblicata, mostrò che negli studi più
ampi e più completi non c’erano prove convincenti del funzionamen-
to di questo trattamento.21
   C’era ancora un problema da rimuovere – forse l’AGL funzionava
solo in dosi molto alte. Nel 2003, anche questi risultati furono risolti
da uno studio attentamente condotto.22 Ironicamente, in contempora-
nea alla pubblicazione dei risultati, l’Agenzia inglese per il Controllo
dei Medicinali (Medicines Control Agency) ritirò nell’ottobre 2002 la
autorizzazione al commercio dell’olio di enotera – un farmaco costo-
so – in quanto non c’erano prove sulla sua utilità.
   È altrettanto importante non venire accecati dai clamori legati al
successo per l’ultimo ritrovato tecnologico per una malattia poten-
zialmente letale. Le gravi infezioni causate da certi batteri possono
portare a complicanze molto gravi note come shock settico. Questo
generalmente accade in persone con una malattia sottostante o in
coloro il cui sistema immunitario non funziona correttamente. Nei
pazienti con shock settico la pressione del sangue si abbassa a livelli
molto pericolosi e gli organi più importanti ne risentono. Nonostante
i trattamenti intensivi per l’infezione, quattro pazienti su cinque pos-
sono morire.23
   Sebbene non sia ancora noto quale batterio causi lo shock settico,
lavori scientifici iniziati negli anni ’80 condussero ad una teoria che
lo associava al malfunzionamento del sistema immunitario. Le infe-
zioni batteriche più gravi sono causate da batteri gram-negativi
(secondo il metodo standard di classificazione dei batteri). I batteri
gram-negativi sono più frequentemente causa di shock settico, ma a
14                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


volte lo sono anche quelli gram-positivi. I batteri gram-negativi cau-
sano lo shock settico attraverso il rilascio nel sangue di sostanze tos-
siche chiamate endotossine e queste stimolano altre cellule a rilascia-
re a loro volta delle sostanze chiamate citochine. Queste danneggia-
no le pareti dei capillari, i piccoli vasi sanguigni che formano un reti-
colo in tutto il corpo, causando in essi una falla, giungendo così allo
shock e al calo della pressione.
   Sulla base del fatto che l’effetto dello shock settico sarebbe dimi-
nuito, liberando il sangue dalle dannose endotossine e citochine, gli
scienziati usarono gli ultimi ritrovati biotecnologici per creare gli
anticorpi specifici al fine di neutralizzare in modo specifico gli effet-
ti delle endotossine. Questi anticorpi furono prima testati negli ani-
mali, con risultati incoraggianti: si sarebbe potuto prevenire lo shock
da gram-negativi fornendo molto precocemente gli anticorpi nel
corso dell’infezione. Tuttavia, i medici di fronte ad un paziente con
shock settico si trovano nell’impossibilità di stabilire immediatamen-
te se siano coinvolti batteri gram-negativi o gram-positivi. Possono
essere infatti necessarie anche 72 ore per avere i risultati dei test.

  FACCIAMO LE COSE PERCHÉ…

  Noi [medici] facciamo le cose, perché gli altri medici le fanno e non vogliamo
  essere diversi, così le facciamo; o perché ci hanno insegnato a fare così [insegnan-
  ti, assistenti e giovani medici (residents)*]; o perché siamo stati costretti a farlo
  [da insegnanti, amministratori, regolatori, sviluppatori di linee guida] e pensiamo
  di doverlo fare; o perché i pazienti lo vogliono e noi pensiamo che dovremmo
  farlo; o a causa di ulteriori incentivi [test inutili (in particolare per le procedure
  spinte dai medici) e visite] e noi pensiamo che dovremmo farlo; o per paura [del
  sistema legale, degli audit] e noi pensiamo che dovremmo farlo [il cosiddetto cau-
  telarsi]; o perché abbiamo bisogno di tempo [per lasciare che la natura faccia il
  suo corso] e così lo facciamo; infine, e più comunemente, non applicando il buon
  senso, facciamo le cose perché qualcosa dobbiamo fare [giustificazione] e così lo
  facciamo.

  *Questo pezzo si riferisce al Nord America, dove un ‘resident’ è equivalente ad
  un giovane medico ospedaliero britannico.



                                                       Parmar MS. We do thing because.
                                  British Medical Journal Rapid Response, 2004, March 1
Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore                           15

Tuttavia, i risultati del primo studio privo di errori sistematici e ben
condotto su pazienti fu descritto come un successo.24
   Ma ben presto cominciarono ad emergere dei dubbi. Ad un’analisi
più approfondita fu chiaro che i risultati non erano stati interpretati
correttamente. Studi clinici successivi su anticorpi specifici non
mostrarono alcun beneficio ed anzi alcune volte misero in luce anche
un lieve effetto dannoso. Questi risultati negativi che andavano tutti
nella stessa direzione in studi ben condotti misero in dubbio la teoria
scientifica sul sistema immunitario nello shock settico, mostrando che
la relazione fra endotossine, citochine e shock settico era molto più
complessa rispetto a quanto originariamente immaginato. Non stupi-
sce quindi che svanì l’entusiamo iniziale per l’uso degli anticorpi.




  MESSAGGI CHIAVE

  • Gli studi affetti da errori sistematici (scorretti) possono provocare malattie
    evitabili e morti premature
  • Né la teoria, né l’opinione professionale da sole costituiscono una guida
    affidabile per trattamenti sicuri ed efficaci
  • Le revisioni sistematiche degli studi sono essenziali per disegnare e
    comprendere le sperimentazioni sia umane che animali
  • I pazienti possono attirare l’attenzione sugli effetti inaspettati dei trattamenti.
Come sapere se una cura funziona"
2• UTILIZZATI   SENZA
                  ADEGUATA SPERIMENTAZIONE




   Nel Capitolo 1 abbiamo visto come alcune nuove terapie abbiano
presentato inattesi effetti avversi; come in altre gli effetti sperati non
si siano verificati e come fossero errate le previsioni sull’inefficacia
di altri trattamenti. Questo capitolo descrive come i trattamenti comu-
nemente usati possono non essere stati adeguatamente sperimentati.
Come può accadere questo? Le cure per il tumore alla mammella – di
cui parlano i media – ci danno alcune importanti lezioni.


QUANDO DI PIÙ NON SIGNIFICA
NECESSARIAMENTE MEGLIO

   Per tutto il 20° secolo e anche nel 21°, le donne con il tumore alla
mammella hanno dovuto sopportare terapie estremamente brutali e
dolorose. Queste terapie – sia chirurgiche sia mediche – andavano
ben al di là di quanto fosse necessario per combattere la malattia. Ma
erano anche indiscutibilmente popolari fra alcune pazienti e fra alcu-
ni loro medici. Le pazienti erano convinte che quanto più la terapia
fosse stata radicale o tossica, tanto più probabilmente la malattia
sarebbe stata sconfitta. Dopo molti anni spettò a medici coraggiosi e
a rappresentanti dei pazienti dare inizio ad un mutamento di corso in
questa falsa convinzione. Loro dovettero non solo produrre prove
attendibili per bandire il mito che “di più è meglio”, ma dovettero
anche sopportare, oltre alla resistenza di eminenti colleghi, anche
l’essere ridicolizzati dai loro pari. Ancora oggi sono la paura e la con-
vinzione che fare di più corrisponda ad ottenere migliori risultati a
18                                            COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


guidare la scelta dei trattamenti. Questo spinge alcune pazienti ed i
loro medici ad adottare trattamenti “tradizionali” mutilanti e doloro-
si, per i quali non ci sono prove di benefici maggiori rispetto ad
approcci più semplici. Come può succedere tutto ciò?
    Fino alla metà del 20° secolo, la chirurgia costituì il trattamento
principale per il tumore alla mammella. Questa si basava sull’assun-
to che il tumore progredisse in modo lento e ordinato, partendo dal
sito all’interno della mammella verso i linfonodi locali ascellari. Di
conseguenza si pensò che, tanto più radicale e tempestiva fosse stata
la chirurgia, tanto maggiori sarebbero state le probabilità di fermare
la diffusione del tumore. Il trattamento era basato essenzialmente su
di una chirurgia “locale” estensiva – ossia della mammella o delle
aree vicino ad essa. Anche se era stata chiamata locale, la mastecto-
mia radicale era tutt’altra cosa – infatti comportava la rimozione di
ampie aree del muscolo pettorale e di molti dei linfonodi ascellari.
    Alcuni specialisti del cancro alla mammella attenti e scrupolosi nota-
rono che questi interventi sempre più mutilanti non sembravano avere
un impatto sulla mortalità per questa malattia. Nacque così una teoria
diversa – che il cancro alla mammella, più che propagarsi ordinatamen-
te attraverso i linfonodi più vicini, fosse sin dall’inizio una malattia
sistemica. In altre parole, essi pensarono che le cellule tumorali, nel
momento in cui la massa veniva scoperta, dovevano essere già presen-
ti anche in altre parti nel corpo. Suggerirono che la rimozione del tumo-
re con l’asportazione di un adeguato margine di tessuto sano, associa-
to ad un ciclo di radioterapia, avrebbe avuto la stessa efficacia del trat-
tamento radicale e sarebbe stata meno aggressiva per la donna. A quel

  IL TRATTAMENTO PIÙ AGGRESSIVO NON SEMPRE È IL MIGLIORE

  È molto facile, per chi di noi cura il cancro, immaginare che i migliori risultati
  siano conseguenti alle terapie più drastiche. Gli studi randomizzati che confron-
  tano i trattamenti più aggressivi con quelli che lo sono meno, sono vitali al fine di
  proteggere i pazienti da inutili rischi e dagli effetti collaterali, sia iniziali sia tar-
  divi, di inutili terapie aggressive. Il confronto è etico in quanto coloro cui vengo-
  no negati i possibili benefici, sono anche protetti dai possibili inutili danni – e alla
  fine nessuno sa quale di questi si verificherà.

                Rees G, ed. The friendly professional: selected writings of Thurstan Brewin.
                                                       Bognor Regis: Eurocommunica, 1996
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                                                 19

tempo l’introduzione delle “terapie sistemiche” – ossia terapie per
combattere lo sviluppo delle cellule tumorali in un’altra parte nel corpo
– fu basata anche su questa nuova teoria della diffusione della malattia.
   Come diretto risultato di questo nuovo modo di pensare, i medici
sostennero una chirurgia più limitata detta mastectomia parziale –
ossia la rimozione del tumore e di un margine circostante di tessuto
sano – seguita da radioterapia e in alcune donne da chemioterapia.
Ma incontrarono un’enorme resistenza per confrontare il nuovo
approccio con la chirurgia radicale.
   Alcuni medici credevano fermamente nell’uno o nell’altro approc-
cio e i pazienti reclamavano l’uno o l’altro trattamento. Il risultato fu
un forte ritardo nella produzione della prova decisiva sui vantaggi e
svantaggi del nuovo trattamento proposto rispetto a quello vecchio.

  LA MASTECTOMIA RADICALE CLASSICA (HALSTED)

  La mastectomia radicale, inventata nel tardo 19° secolo da Sir William Halsted,
  fu il più comune intervento per il cancro della mammella fino a metà degli anni
  ’70. Insieme alla rimozione di tutta la mammella, il chirurgo toglieva anche il
  muscolo grande pettorale che copre la gabbia toracica. I più piccoli fra i muscoli
  pettorali minori venivano anch’essi rimossi per permettere al chirurgo un più faci-
  le accesso all’ascella al fine di svuotarla dei linfonodi e del grasso circostante.


  MASTECTOMIA RADICALE ESTESA

  In quel periodo, l’idea che ‘di più è meglio’ portò i chirurghi più estremi ad effet-
  tuare interventi ancora più estesi, nei quali venivano rimosse anche le catene dei
  linfonodi al di sotto della clavicola e i linfonodi della catena mammaria interna
  sotto lo sterno. Per arrivare ai linfonodi mammari interni venivano rimosse diver-
  se costole e lo sterno veniva spaccato con uno scalpello. Non soddisfatti, alcuni
  arrivarono ad eliminare il braccio della parte affetta e rimossero diverse ghiando-
  le nel corpo (le surrenali, l’ipofisi e le ovaie) al fine di sopprimere la produzione
  di ormoni che si pensava alimentassero la diffusione del tumore.
  Se una donna sopravviveva a questi interventi rimaneva con la gabbia toracica
  gravemente mutilata, difficilmente occultabile sotto qualunque tipo di vestito. Se
  l’intervento veniva fatto sul lato sinistro a coprire il cuore rimaneva solo un pic-
  colo lembo di pelle.

                  Adattato da Lerner BH, The breast cancer wars: hope, fear and the pursuit
          of a cure in twentieth-century America. New York: Oxford University Press, 2003
20                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   Tuttavia, nonostante queste difficoltà, questi eccessi della chirurgia
sarebbero stati comunque messi in dubbio sia dai medici, che non
volevano continuare con questi interventi dai benefici dubbi per le
loro pazienti, sia dalle donne che non erano più disponibili a sottopor-
si a queste mutilazioni.
   A metà degli anni ’50, George Crile, un chirurgo statunitense, aprì
questa via rendendo pubblici i suoi dubbi sull’approccio “di più è
meglio”. Credendo che non ci fosse un’altra via per spingere i medi-
ci a pensare criticamente, Crile fece loro appello in un articolo sulla
rivista Life.25 Ebbe ragione: il dibattito interno alla professione medi-
ca si aprì all’opinione pubblica. Poi un altro chirurgo statunitense,
Bernard Fisher, lavorando insieme a colleghi di altre specialità, dise-
gnò una serie di rigorosi esperimenti per studiare la biologia del can-
cro. I loro risultati suggerirono che le cellule tumorali potevano anche
liberamente viaggiare attraverso il flusso plasmatico, molto prima
della scoperta del cancro primario. Così, aveva poco senso far ricor-
so ad una chirurgia sempre più aggressiva se il cancro era già presen-
te altrove nel corpo.
   Mentre Crile usò il suo giudizio clinico per sostenere e adottare
una terapia locale meno radicale, Fisher insieme ad un gruppo di
ricercatori sempre più nutrito collaborò alla formulazione di un
approccio più formale e rigoroso. Cercarono di provare o di negare il
valore della chirurgia radicale attraverso il più noto metodo privo di
errori sistematici (corretto) – gli studi clinici randomizzati e control-
lati (vedi il Capitolo 3). Pensarono che conducendo questo tipo di
studi la comunità scientifica e il pubblico si sarebbero convinti per
l’uno o l’altro approccio. Nel 1971, Fisher dichiarò che i medici ave-
vano una responsabilità morale ed etica nel sperimentare le loro teo-
rie attraverso questi studi. E certamente a distanza di 20 anni il fol-
low-up degli studi di Fisher mostrò, in termini di rischio di mortalità
prematura, come il cancro alla mammella potesse essere trattato con
la mastectomia parziale seguita dalla terapia radiante con la stessa
efficacia della mastectomia radicale.26
   Nel frattempo in Gran Bretagna, all’inizio degli anni ’60, venne
condotto da Hedley Atkins e dai suoi colleghi del Guy’s Hospital il
primo studio controllato e randomizzato (vedi il Capitolo 3 e il
Capitolo 4, box a pagina 72) che confrontava la terapia che conserva-
va la mammella con la mastectomia radicale classica. In modo simi-
le agli americani, questo studio, nei 20 anni successivi alla diagnosi,
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                                             21

mostrò che c’erano solo piccole differenze negli esiti fra i due tratta-
menti. Altri studi randomizzati furono condotti in Svezia e in Italia,
come in Gran Bretagna e Stati Uniti, per confrontare molte altre
forme di trattamento – per esempio, la terapia radiante dopo la chi-
rurgia rispetto alla sola chirurgia e la chemioterapia di breve periodo
rispetto a quella di lungo periodo.
   Dal 1985, l’enorme mole di studi sul cancro alla mammella rese
difficile per i medici rimanere aggiornati su tutti i risultati raggiunti.
Per risolvere questo problema, Richard Peto e i suoi colleghi a
Oxford condussero la prima revisione sistematica (vedi Capitolo 3)
analizzando gli esiti di tutte le donne che avevano partecipato agli
studi fino ad allora condotti.27 Tutti gli specialisti che curano il can-
cro ed i cittadini hanno così la possibilità di accedere alla sintesi più
recente delle prove prodotte a livello mondiale. Le revisioni sistema-
tiche del trattamento per il cancro alla mammella vengono ora
aggiornate e pubblicate regolarmente.
   Tuttavia, la fine di questa chirurgia mutilante non comportò la fine
del pensiero “di più è meglio”. Negli ultimi due decenni del 20° seco-
lo, ebbe un considerevole impatto un tipo di trattamento costituito da
chemioterapia ad alte dosi seguita dal trapianto del midollo osseo o
‘terapia di salvataggio con cellule staminali’. Un rapporto speciale
apparso sul New York Times nel 1999 riassunse le ragioni alla base di
questo approccio:

         ‘I medici tolgono al paziente un po’ di midollo osseo o dei globuli rossi,
     poi li sottopongono a forti quantità di farmaci tossici, che distruggono il
     midollo. La speranza è che le alte dosi di farmaco eliminino il cancro e che
     il midollo salvato, una volta reimmesso nel corpo, si ricostituirà abbastanza
     velocemente da impedire che il paziente muoia per le infezioni. Una versio-
     ne di questa procedura, attraverso le donazioni di midollo osseo, si è dimo-
     strata da tempo efficace nei tumori del sangue, ma solo perché il cancro era
     nel midollo che veniva sostituito. L’uso di questo trattamento per il cancro
     alla mammella comporta un ragionamento completamente diverso e non
     provato.’28

   In particolare negli Stati Uniti, migliaia di donne disperate fanno
richiesta di questa terapia molto sgradevole a medici e ospedali che
non aspettano altro che questo. Cinque pazienti su 100 muoiono in
seguito a questo trattamento. Vengono spesi migliaia di dollari e parte
22                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


di questi soldi arrivano direttamente dalle tasche delle pazienti.
Nonostante l’assenza di prove, alla fine alcune malate vengono rim-
borsate dalle compagnie assicurative, che cedono alle loro pressioni.
Molti ospedali e cliniche hanno fatto fortuna con questi soldi. Nel
1998, un ente ospedaliero ricavò 128 milioni di dollari, in gran parte
derivanti dai suoi centri per la cura del cancro che facevano trapianti
del midollo osseo. Per i medici statunitensi questa era una proficua
fonte di reddito e prestigio e forniva anche un terreno molto ricco per
le pubblicazioni scientifiche. La domanda insistente dei pazienti ali-
mentò il mercato. La competizione fra gli ospedali privati per fornire
questo trattamento fu intensa, anche attraverso la pubblicità di offer-
te di trattamento a basso prezzo. Negli anni ’90, perfino i centri acca-
demici statunitensi, che cercavano di reclutare i pazienti per le speri-
mentazioni cliniche, offrivano questi trattamenti. Questi discutibili
programmi divennero prodotti ad alta redditività per i centri per la
cura del cancro.
   L’accesso indiscriminato a queste terapie non supportate da prove
comportò un altro serio problema: non vi erano abbastanza pazienti
disponibili a partecipare alle sperimentazioni per il confronto di que-
sti trattamenti con le terapie standard. Ne risultò che per avere rispo-
ste affidabili fu necessario aspettare più a lungo.


  LA DIFFICILE LOTTA PER OTTENERE PROVE DI EFFICACIA AFFIDABILI

  I ricercatori si aspettavano che si sarebbero impiegati circa tre anni per arruolare
  1.000 donne nei due studi. Invece ci impiegarono sette anni… Questa non fu una
  sorpresa… Le pazienti arruolate negli studi clinici devono firmare un modulo di
  consenso in cui viene descritto che sono portatrici di una malattia con prognosi
  infausta e in cui si dice che non ci sono prove che i trapianti di midollo osseo
  diano risultati migliori rispetto alle terapie standard. Per entrare nello studio biso-
  gna affrontare questa realtà che non è mai facile. Ma se la paziente è sottoposta al
  trapianto al di fuori di uno studio con un gruppo di controllo, noto come studio
  randomizzato, medici entusiasti potrebbero dirle che il trapianto è in grado di sal-
  varle la vita. Benché queste pazienti abbiano il diritto a sapere la verità, è com-
  prensibile che non vadano dai medici che tolgono loro questa speranza.

       Adattato da Kolata G, Eichenwald K. Health business thrives on unproven treatment,
                    leaving science behind. New York Time Special Report, 2 Ottobre 1999
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                               23

   Nonostante la difficoltà nell’ottenere prove prive di errori sistema-
tici in mezzo a simili pressioni, furono condotti alcuni studi clinici e
altre prove furono riviste criticamente. Nel 2004, una revisione siste-
matica dei risultati sino ad allora accumulati sulla chemioterapia ad
alte dosi, seguita dal trapianto del midollo osseo, utilizzata come trat-
tamento generale del cancro alla mammella, rilevò che non c’erano
prove convincenti della sua utilità.29, 30


FARE UNO SCREENING PER SCOPRIRE UNA MALATTIA
IN FASE INIZIALE IN PERSONE EVIDENTEMENTE SANE

   Lo screening rivolto a persone evidentemente sane per individuare
i primi segni di una malattia sembra essere una cosa sensata – cosa
potrebbe esserci di meglio per evitare le gravi conseguenze di una
malattia e rimanere così in salute? Già molte patologie, specialmente
i tumori, sono l’obiettivo di programmi di screening nazionali e
numerose cliniche private promuovono controlli sulla salute – gene-
ralmente una batteria di test di screening – sostenendo che questi aiu-
teranno i loro clienti a stare bene. Così come alcuni screening sono
utili – ad esempio, misurare la pressione del sangue – altri possono
essere dannosi.
   Così, prima di buttarsi a capofitto in screening ad ampio raggio, è
utile fermarsi un momento a considerare qual è il loro obiettivo. Il prin-
cipale obiettivo degli screening individuali o di popolazione è quello di
ridurre il rischio di morte o di serie disabilità legate ad una patologia,
attraverso l’offerta di un test teso a identificare le persone che potran-
no beneficiare di un trattamento.31 I criteri basilari per valutare il valo-
re di un test di screening furono delineati nel 1968 in un documento
della Organizzazione Mondiale della Sanità che è utile ricordare:

  • La malattia ricercata dovrebbe essere legata ad un problema
    di salute importante
  • Dovrebbe essere disponibile un trattamento efficace ed
    accettabile
  • Ci dovrebbero essere adeguate possibilità per la diagnosi e il
    trattamento delle anomalie identificate
  • Dovrebbe esserci uno stadio iniziale identificabile della
    malattia
24                                         COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


  • Ci dovrebbe essere un test valido
  • Il test dovrebbe essere accettabile per la popolazione
  • La storia naturale della malattia dovrebbe essere
    adeguatamente conosciuta
  • La probabilità di danni fisici o psicologici per i pazienti
    sottoposti allo screening dovrebbe essere inferiore alla
    probabilità dei benefici che ne derivano
  • Lo screening dovrebbe essere un processo continuo e
    disegnato in modo specifico per ogni progetto
  • Il programma di screening dovrebbe essere costo-efficace.32

   Oggi, con il senno di poi si possono identificare tre importanti que-
stioni contenute in questi principi. Primo, gli effetti negativi dello
screening non vengono sufficientemente enfatizzati. Pochi test, se
non nessuno, sono privi di rischi – nel senso che sono imperfetti nella
loro capacità di identificare con certezza la malattia in esame. Per
esempio, possono non identificare tutte o la maggior parte delle per-
sone con la malattia e allora non sono abbastanza sensibili. O posso-
no sovra-diagnosticare la malattia e allora non sono abbastanza spe-
cifici. E quando una persona viene etichettata come portatrice di una
certa malattia si trova spesso travolta in un vortice di altre indagini,
ansie e a volte discriminazioni non giustificate, ad esempio da parte
delle assicurazioni. Secondo, questi criteri sottolineano che dovrebbe
essere disponibile un trattamento efficace e accettabile per la malat-
tia – ancora molti trattamenti che sono accettati sono di valore non

  DA PERSONA A PAZIENTE

  Lo screening inevitabilmente trasformerà le persone positive al test in pazienti –
  una cosa da non prendere alla leggera. “Se un paziente chiede aiuto ad un medi-
  co, egli deve fare il massimo possibile e non sarà responsabile per i difetti nella
  conoscenza medica. Se, tuttavia, il medico avvia delle procedure di screening, si
  pone in una situazione molto diversa. Il medico, secondo noi, dovrebbe avere
  prove conclusive che lo screening può modificare la storia naturale della malattia
  in una quota significativa dei pazienti ad esso sottoposti”.


                          Cochrane AL, Holland WW. Validation of screening procedures.
                                                British Medical Bulletin 1971; 27: 3-8
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                                                  25

provato. I trattamenti raccomandati che si basano sui risultati di que-
sti screening imperfetti, inevitabilmente espongono a dei rischi.
Terzo, questi criteri non enfatizzano il fatto che la decisione di intro-
durre un programma di screening dovrebbe essere basata su prove di
buona qualità.33
   Quali lezioni si possono trarre dagli attuali programmi di scree-
ning? L’esperienza dello screening per il neuroblastoma è istruttiva –
un raro tumore maligno che colpisce prevalentemente i bambini.
Questa malattia fu un allettante bersaglio per lo screening per quattro
ragioni: (1) i bambini cui viene fatta diagnosi prima di un anno di vita
hanno migliori prospettive di quelli diagnosticati più tardi; (2) i bam-
bini con malattia avanzata stanno molto peggio rispetto a quelli con
la malattia iniziale; (3) esiste un test di screening semplice e poco
costoso che può essere effettuato misurando una sostanza nelle urine
ricavata dai pannolini dei bambini e (4) il test identifica 9 bambini su
10 con il neuroblastoma.34
   Lo screening di massa per il neuroblastoma venne introdotto per la
prima volta in Giappone negli anni ’80, ma 20 anni più tardi non
c’erano prove che esso riducesse la probabilità di morire per questo
tumore. In Giappone lo screening venne iniziato senza il supporto di
prove derivanti da studi clinici ben condotti e privi di errori. Al con-
trario, studi clinici condotti in Canada e in Germania, che hanno
coinvolto in tutto circa tre milioni di bambini, suggerirono che gli
screening non offrivano benefici certi, mentre procuravano sicura-
mente dei danni.35 I danni includevano trattamenti chirurgici e che-

  IL VERDETTO DELLA RIVISTA WHICH? SUGLI SCREENING

  Gli screening sanitari privati sono un affare enorme: spendiamo circa 65 milioni
  di sterline ogni anno per test che promettono di scoprire malattie nascoste. Molti
  di noi non capiscono esattamente cosa fa il test ma si fidano comunque. “È come
  portare la tua auto per un controllo periodico”, spiega il Dr Muir Gray, Direttore
  del Comitato Screening del Servizio Sanitario britannico (NHS). “Potresti non
  aver ben chiara l’utilità di tutti questi controlli, ma sai che ti potranno aiutare ad
  evitare un incidente”. Ma, in questo caso, così come per le cliniche private che ti
  farebbero credere che pagare per una montagna di controlli sanitari sia la chiave
  per mantenerti in salute, ci sono poche prove che ciò sia vero.

       Consumers’ Association. Health screens fail our tests. Which? Agosto 2004, pag. 10-12
26                                         COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


mioterapia ingiustificati, entrambi gravati da importanti effetti avver-
si non desiderati. Uno specialista, commentando i risultati canadesi e
tedeschi, disse chiaramente:

     “Lo screening per il neuroblastoma mostra quanto facilmente si possa cade-
     re nella trappola di pensare che, poiché una malattia può essere identificata
     precocemente, lo screening debba necessariamente essere utile … I due
     studi dimostrano quanto lo screening per il neuroblastoma non solo fosse
     privo di valore, ma come portasse alla “sovra-diagnosi”, andando a identi-
     ficare tumori che sarebbero spontaneamente regrediti. Entrambi gli studi
     hanno mostrato come i bambini del gruppo sottoposto allo screening hanno
     sofferto di importanti complicanze legate al trattamento … La speranza è
     che questa esperienza sia di lezione, quando si considererà l’implementazio-
     ne di altri programmi di screening, come per esempio lo screening del can-
     cro alla prostata.”36

   Il cancro della prostata è molto diverso dal neuroblastoma – è un
cancro comune che colpisce gli uomini adulti (in Inghilterra e in
Galles è il secondo cancro più comune fra gli uomini).37 Anche qui
dovrebbero essere applicati gli stessi principi dello screening. Così
che valore ha lo screening per il cancro alla prostata? Un aumento nel
sangue del livello di una sostanza detta antigene prostatico specifico
(PSA) è associato ad un aumento del rischio di morte per questo
tumore. Ma non ci sono studi pubblicati privi di errore e ben condot-
ti che mostrino che l’identificazione precoce migliori gli esiti.38
Tuttavia, è chiaro che il test del PSA può causare dei danni. Alcuni
uomini saranno sottoposti a cure inutili, quando i loro tumori sono
troppo avanzati; altri saranno trattati inutilmente, in caso di cancro
della prostata che non avrebbe rappresentato per loro un pericolo per
la salute o per la vita. In entrambi i casi, la terapia effettuata come
risultato di un aumento del PSA può causare dolorosi effetti collate-
rali come incontinenza e impotenza.
   Negli Stati Uniti e in Italia, ad esempio, è stato misurato il PSA ad
almeno un terzo degli uomini sani con più di 50 anni. Negli Stati
Uniti la lobby a favore del PSA– che include il pubblico, i pazienti ed
i medici – è particolarmente potente. Nel 2001, il San Francisco
Chronicle pubblicò un articolo sul manager della squadra locale di
baseball. Era stato da poco sottoposto al trattamento chirurgico per il
cancro della prostata dopo che i risultati del test PSA erano risultati
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                                                     27


  COME LE PERSONE VALUTANO I BENEFICI E I DANNI DEGLI SCREENING

  Le persone valuteranno in modo diverso i benefici e i danni degli screening. Ad
  esempio, una donna incinta che sta considerando lo screening per la sindrome di
  Down, può fare scelte diverse sulla base del valore che dà al rischio di avere un
  bambino con sindrome di Down rispetto al rischio di avere un aborto iatrogeno
  (causato inavvertitamente dal medico) in seguito all’amniocentesi.
  Gli individui che scelgono di partecipare ai programmi di screening traggono
  beneficio (secondo il loro punto di vista) dal parteciparvi, mentre altri individui
  traggono beneficio (secondo il loro punto di vista) dal non parteciparvi. Gli indi-
  vidui possono fare la scelta giusta solo se hanno accesso ad una informazione di
  qualità elevata sui rischi e sui danni dello screening e se sono in grado di valuta-
  re questa informazione.

          Barratt A, Irwig L, Glasziou P, et al. Users’ guides to the medical literature. XVII.
                              How to use guidelines and recommendations about screening.
                           Journal of the American Medical Association 1999; 281: 2029-33




‘positivi’. L’articolo presentava lo screening per il PSA sotto una luce
molto positiva, mentre gli svantaggi non venivano citati. Cercando di
correggere l’opinione eccessivamente ottimistica di questo screening
che i lettori avrebbero potuto farsi dalla lettura dell’articolo, due
medici contattarono la rivista sostenendo che esso non rifletteva la
forte controversia intorno a questo screening. Così furono invitati a
scrivere un articolo che discutesse le ragioni per cui gli uomini non
dovevano sottoporsi allo screening.
   Questo articolo provocò una levata di studi. In poche ore dalla pub-
blicazione risposero in massa le associazioni per il cancro della pro-
stata, i gruppi di supporto ai pazienti e gli urologi. I medici che ave-
vano scritto l’articolo furono sommersi da messaggi di posta elettro-
nica ingiuriosi, che li comparavano al medico nazista Mengele, accu-
sandoli della responsabilità della morte di centinaia di migliaia di
uomini. Si stupirono per aver provocato questa feroce reazione e
scrissero: ‘Un motivo è che i gruppi a sostegno del PSA sono ferma-
mente convinti che il test di routine sia positivo per la salute degli
uomini. Vorrebbero pensare che lo screening faccia realmente molta
differenza. Abbiamo irritato questo gruppo perché abbiamo messo in
dubbio la loro convinzione. Abbiamo pestato i piedi ad una ricca e
potente lobby a favore degli screening, che fa soldi invitando gli
28                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


uomini a sottoporsi al test. Anche alcuni dei gruppi di supporto dei
pazienti hanno un conflitto di interesse, poiché contano sul supporto
dell’industria farmaceutica.’39

  LA MEDICINA BASATA SULLE PROVE SOTTO ACCUSA

  Nel 1999, uno specializzando in medicina generale negli USA sottopose un
  53enne ad un esame obiettivo. Discusse con lui, come documentò nella sua car-
  tella clinica, l’importanza dello screening per il cancro del colon retto, dell’uso
  delle cinture di sicurezza, delle cure dentarie, dell’esercizio fisico, della dieta e
  dell’uso degli occhiali da sole. Descrisse anche i rischi e i benefici dello screening
  del cancro alla prostata. Poi non lo rivide mai più.
  Il paziente andò da un secondo medico, che gli ordinò il test per il PSA senza
  discutere con lui i possibili benefici e rischi dello screening. Il livello di PSA
  risultò molto elevato e all’uomo fu riscontrato successivamente un cancro avan-
  zato della prostata non curabile. Sebbene non ci siano prove che la scoperta pre-
  coce avrebbe cambiato l’esito di questo paziente, egli citò in giudizio il primo
  medico e tutto il programma di formazione dei medici in medicina generale.
  Le parole del medico ci raccontano il resto della storia: “Sebbene disponessimo
  di raccomandazioni da parte di diversi gruppi a livello nazionale che supportano
  il mio approccio, e la letteratura fosse chiara sulle controversie rispetto allo scree-
  ning della prostata, l’avvocato di parte civile la pensò diversamente…Il problema
  posto dal querelante era che non avevo applicato gli standard assistenziali prati-
  cati nello Stato della Virginia. Quattro medici testimoniarono che quando visita-
  no un paziente con più di 50 anni, non discutono con lui sullo screening della pro-
  stata: semplicemente prescrivono il test. Questa fu un’argomentazione convincen-
  te, in quanto con tutta probabilità più del 50% dei medici si comporta in questo
  modo. Si sarebbe potuto sostenere che essi stavano operando al di sotto gli stan-
  dard assistenziali, ma non c’erano precedenti legali per tale argomentazione…
  sette giorni dopo l’inizio del processo, fui prosciolto. Il programma di formazio-
  ne fu indicato responsabile per 1 milione di dollari... Per come la vedo io, l’unica
  via per praticare la medicina è utilizzare le migliori prove disponibili e fornirle ai
  miei pazienti. Per come la vedo io, l’unica via per rapportarsi ai pazienti è attra-
  verso l’uso del modello decisionale condiviso. Per come la vedo io, l’unica via
  per stare dentro uno studio medico è quello di vedere il paziente nella sua interez-
  za e non come ad un potenziale querelante. Per come la vedo io, non sono sicuro
  di voler fare ancora il medico in futuro.”


                                                      Merenstein D. Winners and losers.
                            Journal of the American Medical Association 2004; 291: 15-16
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                                                 29

   Cosa dire dello screening per la fibrosi cistica dei neonati? Questa
malattia che mette a rischio la vita generalmente produce sintomi
dalla prima infanzia. Fra le altre complicanze, porta a infezioni pol-
monari croniche e debilitanti con possibili danni permanenti ai pol-
moni, incapacità di assorbire il cibo, arresto della crescita e insuffi-
cienza epatica. La fibrosi cistica è una malattia genetica, che si mani-
festa generalmente quando il bambino ha due mutazioni geniche che
codificano per la malattia. Chi ha una sola mutazione è detto portato-
re ma non ha sintomi. In realtà non è così semplice – quanto più si
scopre sulle basi genetiche della fibrosi cistica, tanto più se ne rivela
la complessità. Attualmente si conoscono numerosi varianti ‘atipi-
che’ di fibrosi cistica.40
   Negli anni, l’aspettativa di vita delle persone affette da fibrosi
cistica è indubbiamente aumentata in modo sostanziale, grazie

  LO SCREENING DELLA FIBROSI CISTICA NEI NEONATI

  Benefici
  • Fornire ad ogni famiglia con un bambino affetto da fibrosi cistica
    l’opportunità di un’assistenza specialistica
  • Ridurre le preoccupazioni associate alla diagnosi ritardata
  • Offrire la possibilità a tutti i casi di fibrosi cistica di essere inclusi
    in un registro nazionale
  • Offrire l’opportunità di condurre studi clinici randomizzati e
    controllati di ampie dimensioni sui trattamenti

  Rischi
  • Non esiste uno screening perfetto per la fibrosi cistica nei neonati – i casi
     possono essere non identificati e i medici dovranno porre attenzione alle
     possibili diagnosi negli adulti
  • L’identificazione di uno status di portatore può causare preoccupazione
  • I famigliari possono essere ancora più turbati se i risultati dello screening
     non vengono comunicati in un modo premuroso ed empatico
  • I parenti di bambini clinicamente ‘sani’ con fibrosi cistica troveranno
     la situazione stressante (in un certo modo è più difficile vivere sapendo
     che in futuro la malattia peggiorerà)

            Southern KW. Newborn screening for cystic fibrosis: the practical implications.
                      Journal of the Royal Society of Medicine 2004; 97 (suppl 44): 57-9
30                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


all’uso più intenso della fisioterapia, degli antibiotici e dei supple-
menti nutrizionali. In teoria, la diagnosi precoce attraverso lo scree-
ning dovrebbe avere molto da offrire, specialmente prima che i pol-
moni siano seriamente danneggiati. Sebbene non ci sia un consenso
universale sulla migliore combinazione dei test di screening, parec-
chie nazioni lo hanno già introdotto per i neonati.
   Dal punto di vista dei benefici, i bambini diagnosticati precoce-
mente dallo screening hanno più possibilità di raggiungere un’altez-
za e un peso normali rispetto a quelli diagnosticati tardi quando pre-
sentano già i sintomi.41 Tuttavia, l’effetto sulla prevenzione del danno
polmonare sono molto meno certi. E non devono essere sottostimati
i problemi derivanti nell’identificazione dei bambini portatori di
fibrosi cistica. Ci saranno implicazioni nel corso della loro vita se
questi portatori decideranno di avere figli propri e più immediata-
mente ci sono implicazioni per i parenti che possono essere anche
loro affetti. Così come due ricercatori hanno detto: ‘Lo screening for-
nisce un’opportunità per raggiungere buoni risultati, ma non fornisce
automaticamente la garanzia di buoni esiti’.42

  I LIMITI CHE SI INCONTRANO QUANDO SI CERCA DI IDENTIFICARE I
  PORTATORI DEI GENI DELLA FIBROSI CISTICA

  La famiglia può essere sollevata nell’apprendere che il bambino non è affetto da
  fibrosi cistica; tuttavia la diagnosi di essere un portatore può indurre reazioni
  ansiose e angosciate che espongono la famiglia a rischio di sviluppare un inade-
  guato legame genitore-bambino, problemi di personalità, relazioni spezzate o
  alcune varianti della sindrome del bambino vulnerabile. Altri potenziali problemi
  dell’identificazione dello status di portatore sono il riconoscimento della non-
  paternità (e la conseguente disgregazione della famiglia), lo stigma del bambino,
  la difficoltà di stipulare assicurazioni sulla salute o sulla vita e le discriminazioni
  sul lavoro (dovute ad un fraintendimento dei potenziali danni dello stato di porta-
  tore) e la svalutazione del bambino rispetto all’essere un potenziale partner matri-
  moniale. Infine, se la mutazione genetica della fibrosi cistica non è inclusa nello
  screening standard per la fibrosi cistica, esiste il rischio che un risultato negativo
  possa essere falsamente rassicurante.

                                           David TJ. Newborn screening for cystic fibrosis.
                                Journal of the Royal Society of Medicine 2004; 97: 209-10
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                            31

È SAGGIO FARE LO SCREENING PER IL DENTE DEL
GIUDIZIO OCCLUSO?

   Uno dei programmi di screening più diffusi è la visita di routine dal
dentista. Già da diversi anni c’erano prove che esso poteva causare
più danni che benefici. Questo screening procura danni quando porta
alla rimozione del dente del giudizio. Questi sono gli ultimi denti per-
manenti ad apparire, generalmente fra i 18 e i 24 anni. Alcune volte,
tuttavia, essi rimangono occlusi, ossia per diverse ragioni non emer-
gono dalle gengive. In molti casi i denti del giudizio ritenuti non cau-
sano alcun problema, mentre in alcune persone provocano compli-
canze come l’infiammazione della gengiva circostante e la distruzio-
ne dei denti e dell’osso circostante. Benché non ci siano dubbi sulla
rimozione di questi denti quando causano problemi, altra cosa è
rimuoverli quando sono sani. E la loro rimozione è dolorosa e costo-
sa – solo in Inghilterra e Galles, il NHS ha speso milioni di sterline
per questo tipo di chirurgia dentale. Così, è stato chiesto al National
Institute for Health and Clinical Excellence (NICE), che è incaricato
di valutare imparzialmente le prove di efficacia, di studiare il proble-
ma e fornire un parere al NHS. Dopo la revisione delle prove, le con-
clusioni pubblicate nel 2000 furono categoriche: i denti del giudizio
occlusi che sono sani non devono essere rimossi. Il NICE fornì due
ragioni a sostegno delle proprie conclusioni: (a) non ci sono ricerche
affidabili che suggeriscano che questa pratica sia di beneficio per i
pazienti; (b) i pazienti ai quali vengono rimossi i denti del giudizio
sani sono esposti ai rischi dell’intervento. Questi possono includere
danni ai nervi e agli altri denti, infezioni, sanguinamenti e, raramen-
te, la morte. Inoltre, a questa chirurgia potrebbe far seguito edema,
dolore ed incapacità di aprire completamente la bocca.43
32                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


E ADESSO A LETTO

   Abbiamo visto come eccedere nell’uso di terapie o di screening
può causare più danni che benefici, ma anche il raccomandare qual-
cosa di apparentemente innocuo come il restare a letto può essere
controproducente. Si suppone che il rimanere a letto faccia bene nella
maggior parte delle malattie. Tuttavia, se è prescritto come un tratta-
mento per accelerare la guarigione – ed è stato così per un ampio
numero di malattie e dopo gli interventi chirurgici – i benefici e i
danni dovrebbero essere valutati come per qualunque altra terapia. I
dubbi sul valore del restare a letto emersero la prima volta negli anni
’40, quando studi condotti in pazienti sottoposti a interventi chirurgi-
ci non mostrarono che un assoluto riposo a letto portasse vantaggi,
suggerendo invece potenziali danni come la formazione di trombi
negli arti inferiori e piaghe da decubito.
   Così quali sono le prove prive di errori, se esistono, che mostrano
i benefici e i danni del restare a letto inteso come trattamento? Nel
1999, alcuni ricercatori australiani decisero di rivedere sistematica-
mente le valutazioni prive di errori (corrette) al riguardo.44 Trovarono
un totale di 39 studi clinici condotti in 15 diverse condizioni, che
coinvolgevano in tutto circa 6.000 pazienti e cercarono i possibili
effetti del trattamento – positivi e negativi.
    Il riposo a letto era inteso come trattamento secondo due modali-
tà principali. Nella prima come misura preventiva dopo una procedu-
ra medica o chirurgica e nella seconda come trattamento di prima
linea. In 24 studi controllati in cui il riposo a letto seguiva un tratta-
mento non fu identificato alcun chiaro beneficio. In nove studi il

  I PERICOLI DELL’ANDARE A LETTO

  Insegnaci a vivere con la paura di trascorrere
  del tempo inutile a letto.
  Fai alzare la persone, così potremo salvare
  i nostri pazienti da una fine prematura.



              Asher R. The dangers of going to bed. British Medical Journal 1947; 14 Dec.
                                Riprodotto in: Jones FA. Ed. Richard Asher talking sense.
                                                            London: Pitman Medical, 1972
Utilizzati senza adeguata sperimentazione                                           33

restare a letto mostrò risultati peggiori dopo alcune procedure, anche
dopo la puntura lombare e l’anestesia spinale. In 15 studi in cui veni-
va usato come terapia di prima linea per varie patologie, ancora una
volta non si evidenziavano chiari benefici. E in nove studi sono emer-
se prove di effetti avversi soprattutto in chi era affetto da mal di schie-
na, nel parto e nell’attacco di cuore. Complessivamente, le prove
sugli effetti del restare a letto, nelle condizioni in cui è stato studiato,
suggeriscono che questo intervento potrebbe effettivamente ritardare
la guarigione e anche essere dannoso.




  MESSAGGI CHIAVE

  • I trattamenti più intensivi non presentano necessariamente più benefici
  • Cercare le malattie nelle persone apparentemente sane può provocare più danni
    che benefici.
Come sapere se una cura funziona"
3• I CONCETTI CHIAVE PER SAPERE SE UNA
                 CURA FUNZIONA




   Nei primi due capitoli abbiamo visto come non sperimentare cor-
rettamente i trattamenti possa provocare seri danni. È ovviamente
vitale che la sperimentazione sia rigorosa per poter decidere se una
cura possa essere offerta ai pazienti.
   Dal momento che le affermazioni ingannevoli sui trattamenti sono
frequenti, è necessario per tutti noi avere le competenze per decidere
se tali affermazioni siano valide. Senza queste conoscenze, rischiamo
di pensare che trattamenti inutili sono invece utili e viceversa. Per
valutare correttamente gli interventi sanitari e per ottenere la reale
informazione sulla loro efficacia devono essere presi degli accorgi-
menti. Fra i più importanti, l’assoluta necessità di ridurre gli errori
sistematici e l’effetto del caso. Come ottenerlo?
36                                              COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




  RIMUOVERE LE SCIOCCHEZZE DALLA STRADA DELLA CONOSCENZA

  Quando James Lind (vedi il Capitolo 1) iniziò a leggere la letteratura sullo scor-
  buto, si rese conto che l’unica descrizione esistente della malattia era stata data da
  marinai non competenti in medicina e da medici che non erano mai stati per mare.
  ‘Nessun medico che si fosse impratichito in mare su questa malattia ha fatto chia-
  rezza su di essa’. Lind pensò che questa fosse una delle ragioni di tanta confusio-
  ne su diagnosi, prevenzione e cura della malattia. Come scrisse in modo chiaro,
  ‘Ancora prima di porre questo problema in una luce chiara e appropriata, è neces-
  sario rimuovere una gran quantità di sciocchezze.’

        Lind J. A treatise of the scurvy. In three parts. Containing an inquiry into the nature,
                                   causes and cure of that disease. Together with a critical and
                                chronological view of what has been published on the subject.
                                           Edinburgo: Printed by Sands, Murray and Cochran
                                                 for A Kincald and A Donaldson, 1753, p. viii.




  COMPRENDERE LA NATURA DEGLI ERRORI SISTEMATICI

  Gli errori sistematici nella sperimentazione dei trattamenti sono quelle influenze
  e quei fattori che possono indurre a trarre conclusioni sistematicamente errate
  sugli effetti di una cura e non soltanto per l’effetto del caso. Benché siano molti i
  tipi di errore che possono distorcere i risultati della ricerca medica, quelli che
  devono essere assolutamente minimizzati per valutare correttamente i trattamenti
  sono:

  • errori sistematici legati alle differenze nelle popolazioni confrontate
  • errori sistematici dovuti a differenti modalità di valutazione dell’efficacia
  • descrizioni errate delle prove di efficacia disponibili
  • selezioni errate dalle evidenze disponibili




   I temi di cui ora ci occuperemo alla maggior parte di voi non sono
familiari e alcuni lettori troveranno questo capitolo il più interessan-
te di tutto il libro. Le informazioni complete e le illustrazioni relati-
ve ai punti chiave sono contenute nella James Lind Library
(www.jameslindlibrary.org) e ci auguriamo troverete utile questo
materiale integrativo.
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                                           37

LE SPERIMENTAZIONI CORRETTE
DEI TRATTAMENTI MEDICI

   I confronti sono la chiave di ogni corretta sperimentazione terapeu-
tica e sono essenziali per verificare se un trattamento causi o meno un
certo effetto. A volte sono confrontate due o più terapie, oppure un
trattamento viene confrontato con un altro non attivo. Qualunque sia
il confronto, esso dovrebbe rispondere ad una reale incertezza sull’ef-
ficacia del trattamento, ossia affrontare un problema che fino a quel
momento la ricerca non è stata in grado di risolvere con prove con-
vincenti (abbiamo introdotto il concetto di incertezza sull’effetto di
un trattamento nel Capitolo 1 e nel Capitolo 4 discuteremo di come
affrontarla). Perché i confronti siano corretti essi devono essere il più
possibile privi di errori sistematici.


Perché i confronti sono essenziali

   Se ci si sofferma a pensare per un momento diventa facile capire
perché è necessario confrontare fra loro i trattamenti. Il vecchio detto
che la Natura è una grande guaritrice è vero a volte – le persone spes-
so guariscono dalle malattie senza terapie specifiche. Così, quando si
valutano i trattamenti si dovrebbero sempre tenere in considerazione
sia il progresso ‘naturale’ sia il modo in cui evolve una malattia senza
cure specifiche. Il trattamento potrebbe migliorare, o peggiorare,
l’esito che si avrebbe avuto naturalmente; ma potrebbe anche non
avere alcun effetto.

  NIENTE A CHE VEDERE CON ME

  L’eccellente risultato ottenuto non ha naturalmente niente a che fare con la tera-
  pia ricevuta o con le mie capacità cliniche. Semplicemente dimostra molto chia-
  ramente la relativa irrilevanza della terapia rispetto alla autonoma capacità di
  recupero del corpo umano.




       Cochrane A. Sickness in Salonica: my first, worst, and most successful clinical trial.
                                               British Medical Journal 1984; 289: 1726-7
38                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


    Le persone, sia medici sia pazienti, a volte confrontano mentalmen-
te gli effetti di un trattamento. Si fanno l’idea che loro o altri stiano
rispondendo diversamente ad una nuova terapia rispetto alle preceden-
ti. A queste impressioni devono far seguito indagini formali, ad esem-
pio inizialmente attraverso l’esame dei dati clinici. Da queste analisi
possono poi scaturire accurati confronti fra nuovi e vecchi trattamenti.
    Il pericolo sta nell’utilizzo delle sole impressioni per guidare le
raccomandazioni al trattamento (vedi Capitolo 1, pag. 4). I confronti
dei trattamenti basati su impressioni o analisi parziali sono raramen-
te affidabili. Potrebbero esserlo solo se gli effetti del trattamento fos-
sero davvero marcati – come ad esempio nell’uso dei farmaci oppia-
cei per il controllo del dolore, dell’insulina nel diabete o la sostituzio-
ne dell’anca nell’osteoartrite (vedi Capitolo 4). Nella maggior parte
dei casi, tuttavia, gli effetti del trattamento sono più modesti e biso-
gna quindi essere molto prudenti per evitare confronti errati e conclu-
sioni sbagliate.
    Paragonare somministrazioni avvenute oggi rispetto a quelle avve-
nute nel passato è spesso inaffidabile perché nel frattempo possono
essere mutati altri fattori rilevanti. Uno degli esempi che abbiamo
citato nel Capitolo 1 – l’uso dell’ormone dietilstilbestrolo (DES) per
la prevenzione della natimortalità ricorrente – illustra bene questo
punto. La ricorrenza di natimortalità è più frequente nelle prime gra-
vidanze rispetto a quelle successive. Così il confronto dei tassi di
natimortalità nella seconda e nelle successive gravidanze in cui era
stato prescritto il DES, con i tassi di natimortalità nelle prime gravi-
danze in cui il farmaco non era stato prescritto, fornì risultati forte-
mente confondenti, che suggerivano come il DES riducesse il rischio
di natimortalità. E in questo caso le conseguenze per alcuni dei bam-
bini alle cui madri era stato dato il farmaco furono gravi. Quando
possibile, quindi, il confronto dovrebbe essere fra diversi trattamenti
somministrati all’incirca nello stesso momento.


Quali sono i motivi per cui i confronti devono rispondere ad una
vera incertezza

  Prima di imbarcarsi in nuove sperimentazioni di un trattamento è
essenziale stabilire quanto si sa già. Sebbene sembri ovvio, molte
incertezze sull’effetto di una cura derivano dal fatto che si è ignoran-
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                       39

ti su quali siano le conoscenze già disponibili. Per essere sicuri che la
nuova valutazione proposta del trattamento risponda ad una attuale e
reale incertezza, è necessario che le prove di efficacia vengano rivi-
ste in modo sistematico e critico. Se vengono saltati questi primi pas-
saggi chiave, le conseguenze possono essere gravi – i pazienti soffri-
ranno inutilmente e verranno dissipate preziose risorse per la cura e
per la ricerca. Come mai questo accade?
   Nei primi anni ’90, un gruppo di ricercatori statunitensi cercò le rac-
comandazioni riguardo il trattamento dell’infarto cardiaco espresse in
un periodo di 30 anni sui testi di medicina e sulle riviste scientifiche.45
Poi confrontarono queste raccomandazioni con le prove che avrebbe-
ro potuto essere disponibili se fossero state condotte revisioni sistema-
tiche di sperimentazioni ben condotte. I ricercatori osservarono conse-
guenze gravi per i pazienti; erano dovute al fatto che gli autori dei testi
non si erano preoccupati, nel rivedere la letteratura, di ridurre l’effet-
to confondente degli errori sistematici e dell’effetto del caso. In alcu-
ni casi ai pazienti è stato negato l’accesso alle informazioni su farma-
ci salva vita (per esempio, i farmaci fibrinolitici per l’infarto miocar-
dico), alcune volte per più di un decennio; in altri casi, i medici hanno
continuato a raccomandare trattamenti anche dopo che valutazioni
corrette ne avevano mostrato la nocività (ad esempio, i farmaci antia-
ritmici nell’infarto cardiaco – vedi Capitolo 1).
   I ricercatori che non effettuano una revisione critica dei preceden-
ti studi su di un trattamento prima di iniziare quelli nuovi, possono
non rendersi conto che esistono già risposte convincenti alle incertez-
ze sugli effetti di una cura. Questo significa che alcuni pazienti stan-
no prendendo parte a ricerche inutili e che a loro vengono negati trat-
tamenti che potrebbero aiutarli. Ad esempio, i ricercatori continuaro-
no a condurre sperimentazioni di confronto, negando gli antibiotici a
metà dei pazienti partecipanti allo studio, anche dopo la dimostrazio-
ne affidabile che gli antibiotici somministrati ai pazienti sottoposti a
chirurgia intestinale riducevano la mortalità per le complicanze del-
l’intervento (vedi Capitolo 5). Al contrario, nuovi studi sono indub-
biamente necessari quando la revisione degli studi esistenti mostra
chiaramente che mancano ancora prove affidabili.
   I pazienti possono subire conseguenze negative anche quando i
ricercatori non intraprendono una revisione sistematica delle prove
derivanti dalla ricerca animale prima di avviare una sperimentazione
di un trattamento sull’uomo (vedi Capitolo 1 – pag. 9). Nell’esempio
40                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


della nimodipina, se i risultati della sperimentazione animale fossero
stati passati in rassegna, gli studi clinici nei pazienti con ictus non
sarebbero mai stati neppure iniziati.
   L’idea di rivedere le prove disponibili in modo sistematico è ben
lungi dall’essere nuova. Il sottotitolo mostra che nel Treatise of the
scurvy di James Lind del 1753, in cui riportò la sua corretta sperimen-
tazione dei rimedi allora in uso (vedi Capitolo 1), il testo contiene
‘Una critica e cronologica visione di quanto era stato pubblicato sul-
l’argomento.’


EVITARE I CONFRONTI ERRATI

   Per assicurarsi che i confronti siano corretti, devono essere identi-
ficate e minimizzate le diverse fonti di errori sistematici; se non lo si
fa, il nuovo trattamento potrebbe apparire migliore rispetto a quello
esistente, anche quando nella realtà non lo è.
   Nel giudicare i singoli studi questo errore di valutazione potrebbe
derivare dal:
   • confrontare il decorso di pazienti in condizioni di salute
     relativamente buone a cui viene somministrato un nuovo
     trattamento, con il decorso di pazienti che stanno peggio e ai
     quali viene somministrato il trattamento standard;
   • valutare in modo errato i risultati dei trattamenti – ad esempio
     confrontando le opinioni di pazienti e medici che sanno di aver
     fatto uso un nuovo costoso trattamento, e che pensano sia
     migliore, con le opinioni di quelli che sanno di aver invece
     ricevuto un trattamento standard già esistente.

   E nel fare una revisione di numerosi studi simili fra loro, il suddet-
to errore potrebbe derivare da:
   • considerare solo gli studi che mettono in luce positiva il nuovo
     trattamento, senza includerne altri ‘negativi’, che non mostrano
     i benefici o che ne suggeriscono la potenziale nocività (gli studi
     ‘negativi’ spesso non vengono riportati);
   • una errata selezione e interpretazione delle prove disponibili.

  Spesso, nel decidere quali trattamenti usare, non si riconosce che
questi errori possono portare a distorte sperimentazioni dei trattamenti.
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                                       41

Sfortunatamente, tuttavia, le persone con degli interessi in gioco
alcune volte sfruttano questi errori per dare l’impressione che certe
terapie siano migliori di quello che sono in realtà. Questo succede
quando i ricercatori, spesso ma non sempre per ragioni commerciali,
ignorano deliberatamente le prove esistenti. Disegnano, analizzano e
pubblicano gli studi per mostrare sotto una luce positiva i risultati di
un trattamento.

  SFRUTTARE GLI ERRORI SISTEMATICI

  È più probabile che la ricerca sponsorizzata dall’industria farmaceutica dia risul-
  tati favorevoli al farmaco dell’azienda che la sponsorizza, rispetto agli studi finan-
  ziati da altre fonti. Ciò è avvenuto per più di vent’anni in un ampio range di malat-
  tie, farmaci e classi di farmaci, indipendentemente dal tipo di ricerca valutata.

                     Lexchin J, Bero LA, Djulbegovic B, Clark O. Pharmaceutical industry
                         sponsorship and research outcome and quality: systematic review.
                                              British Medical Journal 2003; 326: 1167-70




Quando gli errori sono dovuti alle differenze tra i pazienti messi a
confronto

   Il confronto di due trattamenti non è corretto se pazienti in condizio-
ni di salute relativamente buone hanno ricevuto uno dei trattamenti e i
pazienti in condizioni di salute peggiori hanno ricevuto l’altro tratta-
mento. Talvolta si può far fronte a questo problema confrontando nello
stesso paziente trattamenti diversi, somministrati in tempi differenti –
uno studio cross-over. Ma ci sono molte circostanze in cui questo dise-
gno di studio non è applicabile. È, ad esempio, quasi sempre impossi-
bile confrontare in questo modo trattamenti chirurgici differenti.
   Le cure sono generalmente sperimentate confrontando gruppi di
pazienti che ricevono trattamenti diversi. Affinché questi siano cor-
retti, i gruppi dei pazienti devono essere simili, in modo da fare con-
fronti alla pari. Se i pazienti che ricevono il trattamento hanno più
probabilità di avere un esito positivo o negativo rispetto a coloro che
ricevono l’altra terapia, allora questo impedisce di poter attribuire le
differenze nei risultati ad un reale effetto del trattamento, piuttosto
che a qualcosa che comunque sarebbe successo. Il chirurgo del 18°
42                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


secolo William Chelseden era conscio di questo problema. A quel
tempo, i chirurghi confrontavano i tassi di mortalità nei loro pazienti
a seguito dell’intervento di rimozione di calcoli vescicali. Chelseden
notò che i pazienti più anziani avevano più probabilità di morire. È
quindi importante tener conto delle età dei pazienti nel confrontare la
mortalità tra gruppi di persone sottoposte da chirurghi differenti a
interventi di vario genere.
   Per valutare l’effetto del trattamento ancora oggi si usa confronta-
re esperienze ed esiti di pazienti che hanno ricevuto nel passato trat-
tamenti diversi (cosiddetti controlli storici, ndt). In questo caso il pro-
blema è sapere se i gruppi di confronto fossero sufficientemente simi-
li prima di ricevere i trattamenti. Ad esempio, i tentativi di valutare
gli effetti della terapia ormonale sostitutiva (TOS) confrontando le
frequenze di incidenza di specifiche patologie delle donne che ne
facevano uso, con quelle che non la assumevano, mostra quanto que-
sto approccio possa essere pericolosamente ingannevole. Mentre
questi confronti suggerivano che la TOS potesse ridurre il rischio di
infarto miocardico e di ictus, i successivi studi controllati e randomiz-
zati mostrarono che essa aveva esattamente l’effetto opposto (vedi
Capitolo 1). Questo dimostra come la ricerca può non solo essere inu-
tile ma anche dannosa.
   Il miglior approccio è quello di definire i confronti prima di comin-
ciare a trattare. Prima di intraprendere il confronto dei sei trattamen-
ti per lo scorbuto a bordo del HMS Salisbury, nel 1747, James Lind
selezionò attentamente i pazienti allo stesso stadio di questa malattia
spesso letale (vedi Capitolo 1). Egli si assicurò anche che essi seguis-
sero la stessa dieta e che fossero alloggiati nelle stesse condizioni.
Lind riconobbe chiaramente che fattori diversi dalla terapia potevano
influenzare la probabilità di guarigione dei marinai.
   La stessa attenzione dovrebbe essere oggi essere adottata per assi-
curare che i gruppi di malati assegnati ai diversi trattamenti siano
composti da soggetti con caratteristiche simili. E vi è un solo modo
per ottenerlo: per formare i gruppi bisogna utilizzare dei metodi di
assegnazione basati sul caso. Questa ‘assegnazione casuale’ è l’unica
caratteristica, di importanza cruciale, delle corrette sperimentazioni
note come ‘randomizzate’ (vedi Capitolo 4, box a pagina 72).
   La tecnica del tirare a sorte, usando per esempio i dadi, assicurerà
che i gruppi siano composti da pazienti simili, non solo in termini di
fattori importanti e misurabili come l’età, ma anche di fattori non
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                                          43

misurabili che possono influenzare la guarigione dalla malattia, come
la dieta, l’occupazione, altri fattori sociali, lo stato d’ansia provocato
dalla malattia e il trattamento proposto. Il miglior modo per evitare
errori nell’allocazione dei pazienti per il confronto tra gruppi è quel-
lo di assicurare che né i pazienti, né i loro medici sappiano a quali
gruppi i primi saranno assegnati.
   Dopo aver evitato il rischio di costituire gruppi di confronto dissi-
mili fra loro, è importante evitare di introdurre un altro errore siste-
matico non tenendo conto del decorso di tutti i pazienti che sono stati
originariamente inclusi nello studio. Questo significa che, per quanto
possibile, tutti i pazienti inclusi in un gruppo dovrebbero essere
seguiti e conteggiati nell’analisi principale del gruppo a cui erano
stati assegnati, indipendentemente da quale trattamento abbiano poi
realmente ricevuto – è questa la cosiddetta analisi ‘intention to treat’
(che si basa sul principio di analizzare il trattamento che si era deci-
so di utilizzare, piuttosto che quello effettivamente utilizzato, ndt).
   Questo approccio potrebbe sembrare illogico, ma è stato dimostra-
to che ignorarlo può portare a gravi errori. Prendete l’esempio dei
pazienti a rischio di ictus dovuto all’ostruzione di un vaso sanguigno
che irrora il cervello. I ricercatori conducono una sperimentazione per
sapere se un intervento chirurgico destinato a sbloccare il vaso sangui-
gno può ridurre gli ictus nei pazienti con attacchi di vertigine causati
dall’occlusione – confrontano le persone candidate ad avere l’inter-
vento con quelle non allocate ad averlo. Se registrassero la frequenza
di ictus solo fra i pazienti sopravviventi agli effetti immediati del-
l’operazione, la valutazione non permetterebbe di capire se sia la stes-
sa chirurgia causa di ictus e morte. Di conseguenza questa sarebbe una
sperimentazione scorretta degli effetti dell’operazione.

  PERCHÉ RANDOMIZZARE

  Un medico che contribuisce alla randomizzazione negli studi clinici non dovreb-
  be essere considerato un ricercatore, ma semplicemente come un clinico che
  assolve ad un dovere etico verso i suoi pazienti nel non somministrar loro terapie
  senza aver fatto il possibile per valutarne il vero valore.


         Rees G, a cura di. The friendly professional. Selected writings of Thurstan Brewin.
                                                       Bognor Regis: Eurocommunica, 1996
44                                            COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


Quando gli errori sono dovuti alla valutazione degli esiti
dei trattamenti

  La maggior parte dei pazienti e dei medici spera che i trattamenti
medici saranno utili. Questo ottimismo può avere un effetto molto
positivo sulla soddisfazione di tutti rispetto all’assistenza sanitaria,
come il medico britannico Richard Asher notò in uno dei suoi saggi:

     ‘Se riesci a credere ardentemente nella terapia che prescrivi, anche se dei
     test controllati mostrano che è del tutto inutile, i tuoi risultati saranno di gran
     lunga migliori, i tuoi pazienti staranno molto meglio e anche il tuo reddito
     aumenterà parecchio. Credo che questo spieghi il notevole successo di alcu-
     ni colleghi di minor talento e più convinti e spieghi anche la forte antipatia
     nei confronti della statistica e degli studi controllati spesso mostrata dai
     medici più alla moda e di successo.’ 46

   Anche quando i medici sanno di prescrivere una terapia che non ha
una specifica efficacia, lo fanno nella speranza che sarà di beneficio
ai pazienti attraverso l’effetto psicologico. In altre parole i pazienti
che pensano che la terapia li aiuterà a migliorare i loro sintomi, anche
quando si tratta di un farmaco finto (un placebo), potrebbero registra-
re dei miglioramenti nella loro malattia.
   Così, nella corretta sperimentazione dei trattamenti è essenziale
ridurre gli errori che si possono verificare quando i medici e i pazien-
ti stessi valutano i risultati. La tecnica generalmente usata a questo
scopo, conosciuta come ‘mascheramento’, ha una storia interessante.
Nel 18° secolo, Luigi XVI di Francia propose una valutazione sulle
dichiarazioni di Anton Mesmer circa i benefici effetti del cosiddetto
magnetismo animale (mesmerismo). Il Re voleva sapere se l’effetto
era dovuto ad una qualche forza ‘reale’ o ad una ‘illusione della
mente’. Ad alcune persone bendate fu detto che stavano ricevendo o
meno il mesmerismo, quando nello stesso tempo veniva fatto il con-
trario. Le persone rispondevano di sentire degli effetti solo quando
veniva detto loro che stavano ricevendo il trattamento.
   Per alcuni esiti, come ad esempio la morte, le valutazioni errate
sono molto improbabili in quanto non c’è molto margine di dubbio
riguardo la morte di una persona. Tuttavia nella valutazione della
maggior parte degli esiti, come per i sintomi del paziente, è corretto
tener conto della soggettività. Ad esempio, le persone possono prefe-
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                     45

rire un trattamento rispetto ad un altro: possono prestare più attenzio-
ne ai segni di possibili effetti positivi quando credono che un tratta-
mento faccia loro bene e sono anche più pronti ad ascrivergli possi-
bili effetti dannosi se ritengono di assumere una terapia di cui sono
preoccupati.
   Poiché queste situazioni sono frequenti, per condurre sperimenta-
zioni corrette è desiderabile mantenere una condizione di cecità. Ciò
significa che i due trattamenti messi a confronto devono apparire
identici. A volte uno di questi è il cosiddetto placebo – un trattamen-
to farmacologicamente inattivo (finto). Ad esempio, quando il
Medical Research Council testò negli anni ’40 e ’50 per la prima
volta le terapie per il raffreddore, sarebbe stato in grande difficoltà
nell’interpretare i risultati delle sperimentazioni se non fossero stati
usati dei placebo, perfettamente simili ai farmaci del trattamento atti-
vo, per evitare che sia i medici sia i pazienti, fossero a conoscenza di
chi stesse ricevendo il nuovo farmaco o il placebo. Questo tipo di stu-
dio è conosciuto come ‘doppiocieco’.
   Il doppiocieco è così importante che vale la pena di considerare un
altro esempio. I ricercatori hanno proprio voluto valutare l’impatto
degli effetti del mascheramento sui medici (il tenerli all’oscuro su
quali pazienti ricevevano il farmaco o il placebo) sui risultati di uno
studio clinico per il trattamento della sclerosi multipla. Durante lo
studio tutti i pazienti venivano visitati ad ogni valutazione sia da un
medico in cieco, sia da un collega non sottoposto a cecità: ognuno di
essi riportava i risultati. Solo i risultati del medico non cieco mostra-
vano dei benefici per uno dei due trattamenti. Fu l’uso dei dati del
medico sottoposto a cecità ad evitare di trarre conclusioni sbagliate
dallo studio.47 In generale, tanto maggiore è il livello di soggettività
nella valutazione degli esiti, tanto maggiore sarà la necessità di valu-
tare in cieco per avere sperimentazioni corrette.
   Alcune volte, tuttavia, è semplicemente impossibile mascherare i
pazienti e i medici rispetto alla natura dei trattamenti da confrontare:
ad esempio, è difficile mascherare la differenza fra un trattamento
chirurgico e una terapia farmacologica. Alcuni esiti poco ambigui,
come la morte, lasciano poco spazio a valutazioni errate. E tuttavia,
anche la valutazione delle cause di morte, che è passibile di errori, in
uno studio ben condotto dovrebbe essere fatta da persone ignare di
quale trattamento ciascun paziente abbia ricevuto.
46                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


COME INTERPRETARE CONFRONTI CORRETTAMENTE
ESEGUITI

Tener conto delle differenze fra i trattamenti designati
e i trattamenti ricevuti

   Avrete visto, per tutti i motivi che prima vi abbiamo spiegato, che
le sperimentazioni corrette necessitano di una pianificazione accura-
ta. I documenti che presentano questi esperimenti programmati sono
detti protocolli. Fra le altre cose, i protocolli specificano i dettagli dei
trattamenti da porre a confronto. Tuttavia, anche i migliori piani pos-
sono non funzionare bene come desiderato: alcune volte, ad esempio,
le terapie somministrate al paziente sono diverse da quelle che avreb-
be dovuto ricevere. Ad esempio, i pazienti possono non assumere le
terapie così come è stato pianificato o uno dei trattamenti potrebbe
diventare non disponibile. Se discrepanze simili vengono scoperte è
necessario capirne le implicazioni e porre attenzione all’analisi e
interpretazione dei risultati.


Tener conto del ruolo del caso

   Quando si confrontano due trattamenti ogni differenza nei risultati
può essere semplicemente dovuta al caso. Supponiamo che cinque
persone migliorino con il nuovo trattamento e sette migliorino con il
trattamento standard. Nessuno può essere certo che il nuovo tratta-
mento fosse peggiore rispetto a quello standard. Se il test venisse
ripetuto, il numero di pazienti che migliora potrebbe essere il contra-
rio (sette contro cinque), o essere lo stesso (sei contro sei) o in altri
modi.
   Tuttavia, se 50 persone migliorano con il nuovo trattamento e 70
migliorano con quello standard, è meno probabile che le differenze
siano spiegate dal caso. Se 500 persone migliorano con il nuovo trat-
tamento e 700 con quello standard, il nuovo trattamento è chiaramen-
te peggiore dell’altro (di circa la metà rispetto a quello nuovo).
   Nelle sperimentazioni corrette dei trattamenti il modo per rendere
meno probabile che i risultati siano dovuti al caso è quello di basare
le conclusioni su un numero sufficientemente ampio di pazienti che
migliorino, peggiorino o né l’uno, né l’altro.
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                       47

   Per valutare il ruolo del caso nei risultati delle sperimentazioni ben
condotte i ricercatori usano il ‘test di significatività statistica’. Questo
aiuta ad evitare di trarre conclusioni sbagliate, ossia di vedere diffe-
renze nei trattamenti quando non ci sono e, pericolo più comune, che
non ci siano differenze fra i trattamenti quando nella realtà esse esi-
stono. Quando ricercatori e statistici parlano di differenze significati-
ve fra i trattamenti, si riferiscono alla significatività statistica. È
importante ricordare che quest’ultima non è necessariamente ‘signi-
ficativa’ nell’uso comune del termine. Una differenza nei trattamenti
che è molto probabilmente non dovuta al caso – una differenza stati-
sticamente significativa – potrebbe non avere nessun significato pra-
tico. Ad esempio una revisione sistematica degli studi randomizzati
che confrontavano le esperienze di decine di migliaia di uomini sani
che assumevano giornalmente l’aspirina con quelle di decine di
migliaia di uomini che non assumevano il farmaco, trovò un tasso di
infarto cardiaco più basso nel primo gruppo. Questa differenza era
statisticamente significativa, ossia, difficilmente spiegabile dal caso.
Tuttavia questi risultati possono non avere significato pratico. Se il
rischio di un uomo sano di avere un infarto del miocardio è già molto
basso, potrebbe non apparire giustificato prendere un farmaco per
abbassare ulteriormente questo valore, tenendo conto degli effetti
collaterali dell’aspirina.48
   Un modo per ridurre la probabilità di essere ingannati per effetto
del caso è stimare quello che viene chiamato intervallo di confiden-
za. Esso fornisce l’intervallo all’interno del quale si pone il valore
vero dell’effetto del trattamento (che non è mai noto con esattezza)
con un certo livello di certezza (generalmente 95% o 99%). Questo è
simile a fare la domanda ‘Quanto ci impieghi per andare al lavoro?’
ed avere la risposta ‘da 20 minuti a un’ora, dipende dal traffico’.
   Così, i test statistici ci aiutano a tener conto del ruolo del caso e ad
evitare di concludere che si vedano differenze fra i trattamenti quan-
do non ci sono o viceversa.


SCOPRIRE E RICERCARE EFFETTI NON PREVISTI DEI
TRATTAMENTI

   Gli studi preliminari di un trattamento, come ad esempio quelli
richiesti per la registrazione di nuovi farmaci, includono al massimo
48                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


poche centinaia o poche migliaia di persone trattate per periodi di
tempo rapidi. Solo gli effetti che compaiono in tempi rapidi e quelli
non previsti ma frequenti, possono essere identificati in quel lasso di
tempo, mentre gli effetti rari e quelli che necessitano di tempo per
manifestarsi, non saranno scoperti fintanto che il trattamento non sarà
stato ampiamente utilizzato. Quando i medici prescrivono un farma-
co in modo routinario, i loro pazienti possono essere diversi da quel-
li inclusi negli studi clinici: possono essere più vecchi o più giovani,
di sesso diverso, più o meno malati o soffrire di altri problemi di salu-
te oltre a quelli della malattia cui la terapia è mirata. I primi a sospet-
tare gli effetti non previsti di una terapia, positivi o negativi, sono
spesso operatori sanitari o i pazienti. Ma quali di queste intuizioni
riflette il mondo reale?
    Medici e pazienti hanno l’immediata percezione che qualcosa non
funzioni quando dopo l’utilizzo della terapia l’effetto imprevisto è
molto insolito e frequente. Questo è ciò che accadde con la talidomi-
de (vedi Capitolo 1), in quanto non si era verificata prima la nascita
di bambini senza arti. Effetti positivi imprevisti vennero scoperti in
modo simile, per esempio quando si scoprì che un farmaco usato per
la schizofrenia abbassava anche il colesterolo. Quando vengono nota-
te delle relazioni così sorprendenti, vengono poi spesso confermate
come effetti non previsti del trattamento.
    Tuttavia, la maggior parte delle impressioni sugli effetti imprevisti
dei trattamenti è basata su prove poco convincenti. Così, come negli
studi disegnati per trovare gli effetti attesi dei trattamenti, la pianifi-
cazione delle sperimentazioni di conferma o meno del sospetto di
effetti inattesi meno evidenti, implica evitare i confronti inficiati da
errori sistematici. Anche queste valutazioni devono osservare il prin-
cipio del confrontare ‘simile con simile’.
    Talvolta i ricercatori possono condurre analisi successive (follow-
up) su soggetti che parteciparono ai primi studi in cui gruppi simili
erano stati generati attraverso una allocazione casuale (vedi sopra).
Ma di solito questo è molto difficile da fare. Mettere insieme nuovi
gruppi di confronto non distorti è molto più che una sfida. Il fatto che
questi effetti fossero realmente inattesi, in realtà aiuta a identificarli.
Questo effetto inatteso è generalmente rappresentato da una diversa
condizione o patologia rispetto a quella per cui il trattamento era
stato prescritto. Ad esempio, quando la terapia ormonale sostitutiva
(TOS) venne prescritta per la prima volta per ridurre i sintomi della
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                                     49


  INTERVALLI DI CONFIDENZA

  Supponete di avere una borsa (in cui non potete guardare) contenente 30 caramel-
  le che potrebbero essere sia arancioni che bianche e quindi il numero di caramel-
  le arancioni nella borsa all’inizio potrebbe essere compreso fra zero e 30.
  L’intervallo di confidenza (IC) per il numero di caramelle arancioni è 0-30.
  Se tirate fuori dalla borsa una manciata di caramelle ed in mano ne avete quattro
  arancioni e due bianche, sapete che all’inizio, di arancioni ce n’erano almeno
  quattro e non più di 28, ossia che all’inizio c’erano 30 caramelle e ora voi sapete
  che almeno due di quelle erano bianche. Così l’IC per il numero di caramelle
  arancioni che erano presenti all’inizio, è ora diventato 4-28.
  Se prendete un’altra manciata di caramelle (senza reintrodurre la prima mancia-
  ta) e ne tirate fuori tre arancioni e sei bianche, allora l’IC per le caramelle aran-
  cioni nella borsa all’inizio è 7-22. La manciata successiva contiene 3 caramelle
  arancioni e cinque caramelle bianche, dando luogo ad un IC di 10-17 per il nume-
  ro di caramelle arancioni iniziali. La manciata successiva contiene solo 4 caramel-
  le arancioni, con un IC di 14-17. Quando le ultime tre caramelle vengono tirate
  fuori, due sono arancioni e una bianca. Potete così concludere che all’inizio c’era-
  no 16 caramelle arancioni. Tanto più è ampio il numero di caramelle estratte, tanto
  più l’IC diventa piccolo. Questo esempio calcola gli IC assoluti e ad ogni passag-
  gio si può essere assolutamente certi che il numero di caramelle arancioni si col-
  lochi all’interno dei due estremi degli intervalli di confidenza.
  Il diagramma illustra questo esempio mostrando come gli IC si restringano ad
  ogni successivo passaggio.




  0                                                                                 30
            4                                                                  28
                     7                                        22
                            10
                                       14

                                             16




             Adattato da Critical Appraisal Skills Programme, Cochrane Consumer (UK)
      Consumers commenting on Cochrane Reviews. Post workshop pack, 2003-4, pag. 23.
50                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


menopausa, non era stato considerato che vi potesse essere un
aumento di rischio di cancro alla mammella. In altre parole, non
c’erano ovvie ragioni per attendersi che le donne che ricevevano la
TOS avessero un rischio maggiore di sviluppare il cancro alla mam-
mella rispetto a quelle che non l’assumevano. Questo costituì la base
per disegnare sperimentazioni ben condotte che hanno poi dimostra-
to come la TOS aumentasse il rischio di cancro alla mammella.49
   Quando l’effetto inatteso con un nuovo trattamento per una condi-
zione frequente come l’infarto non si verifica spesso, esso sarà iden-
tificabile soltanto indagando un grande numero di persone a cui il
nuovo trattamento venga somministrato. Ad esempio, sebbene alcuni
ricercatori pensassero che l’aspirina potesse ridurre il rischio di infar-
to cardiaco e a fine anni ’60 avessero cominciato a sperimentare in
modo corretto la loro teoria sui pazienti, la maggior parte dei medici
pensava che questo fosse altamente improbabile. Questi ultimi
cominciarono a cambiare idea quando uno studio disegnato per tro-
vare gli effetti avversi dei farmaci mostrò che nei pazienti ricoverati
con infarto era meno frequente l’assunzione recente di aspirina
rispetto a pazienti con le loro stesse caratteristiche che non avevano
assunto la medicina.
   Le regole di fondo per individuare e indagare gli effetti inattesi dei
trattamenti medici furono definite in modo chiaro alla fine degli anni
’70 sulla scia del disastro della talidomide. Con i moltissimi trattamen-
ti efficaci introdotti da allora, la necessità di sperimentazioni affidabi-
li sui trattamenti sanitari rimane ancora oggi una sfida importante.


TENER IN CONSIDERAZIONE TUTTE
LE PROVE RILEVANTI

   Uno dei pionieri della buona sperimentazione, lo statistico Austin
Bradford Hill, disse che chi legge i rapporti di ricerca cerca risposte
a quattro domande:

  • Perché hai cominciato?
  • Che cosa hai fatto?
  • Che cosa hai trovato?
  • Cosa significa?
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                                      51

   La risposta all’ultima domanda è particolarmente importante poi-
ché questo è quello che influenza le scelte reali, le decisioni sulla cura
e sulla futura ricerca. Una singola sperimentazione ben condotta
molto raramente produce da sola una prova sufficientemente forte da
poter essere considerata una risposta sicura. Un singolo studio rigo-
roso è soltanto uno dei tanti modi che sono necessari per dare una
risposta convincente ad un quesito. Quindi, per rispondere alla
domanda ‘cosa significa?’, i risultati di un singolo studio devono
essere interpretati alla luce delle prove degli altri buoni studi disegna-
ti per rispondere alla stessa o a domande simili.
   Più di un secolo fa, il presidente dell’Associazione Britannica per
il Progresso della Scienza, Lord Rayleigh, si espresse sulla necessità
di osservare questo principio:

  ‘Se, come a volte si suppone, la scienza consistesse in nient’altro che l’accumulo
  laborioso dei fatti, andrebbe rapidamente in stallo e si schianterebbe sotto il suo
  stesso peso. Due processi vanno di pari passo, l’accettazione del nuovo materiale
  e la digestione e l’assimilazione del vecchio; poiché entrambi sono essenziali ci
  possiamo risparmiare la discussione sulla loro relativa importanza. Un appunto va
  tuttavia fatto. Il lavoro che merita la maggior parte del credito, e che purtroppo non
  sempre lo riceve, è quello in cui le scoperte e le spiegazioni passano di mano in
  mano, in cui non solo sono presentati nuovi fatti, ma in cui viene sottolineata la
  relazione con quelli vecchi.’50

   Ancora oggi, tuttavia, il saggio consiglio di Rayleigh è normal-
mente ignorato. Di conseguenza, è spesso impossibile per i lettori di
una nuova ricerca ottenere una risposta affidabile alla domanda ‘che
significa?’. Riportare i risultati di nuove sperimentazioni di tratta-
mento senza che esse vengano interpretate alla luce delle prove rile-
vanti, riviste in modo sistematico, può ritardare l’identificazione sia
dei trattamenti utili che di quelli nocivi. Ad esempio, fra gli anni ’60
e i primi anni ’90, i ricercatori condussero più di 50 sperimentazioni
corrette su farmaci destinati a ridurre le anomalie del ritmo cardiaco
in pazienti che avevano avuto un infarto prima di riuscire a capire che
questi farmaci aumentavano la mortalità (vedi Capitolo 1). Se fosse-
ro stati valutati i risultati dei nuovi rapporti alla luce delle prove pre-
cedenti, si sarebbero potuti identificare gli effetti fatali di questi far-
maci una decina di anni prima.
52                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


Come comportarsi quando le prove non sono descritte
correttamente

   È facile sostenere che i risultati delle nuove ricerche dovrebbero
essere interpretati alla luce di una revisione sistematica di tutte le
altre prove attinenti e attendibili, ma in realtà questo è tutt’altro che
semplice, non ultimo in quanto alcuni studi non vengono pubblicati.
Gli studi con risultati ‘deludenti’ o ‘negativi’ hanno meno probabili-
tà di essere pubblicati rispetto agli altri. Questo errore sistematico di
pubblicazione è imputabile principalmente ai ricercatori che non scri-
vono o non sottomettono i risultati delle loro ricerche per la pubbli-
cazione quando giudicano i loro risultati “poco interessanti”. A volte
sono le riviste che sbagliano perché non accettano gli articoli che
vengono loro inviati (solo perché i risultati sono ritenuti poco interes-
santi perché negativi, ndt). C’è poi anche un altro problema quando i
ricercatori selettivamente eliminano i risultati che vanno contro la
loro convinzione sugli effetti dei trattamenti.
   Al fine di ridurre questi errori, tutte le sperimentazioni dei tratta-
menti ben condotte devono essere registrate al loro inizio (vedi
www.controlled-trials.com). Inoltre, tutti gli studi clinici dovrebbero
essere pubblicati, anche se risultano ‘deludenti’ per lo sponsor della
ricerca o per gli stessi ricercatori. L’errore sistematico del non rende-
re pubblici e disponibili i risultati della ricerca è non scientifico e non
etico. Casi recenti di eliminazione di prove sgradite sull’effetto di far-
maci hanno condotto ad enormi scandali pubblici e ad azioni legali
contro case farmaceutiche. Questi eventi hanno dato forza alla perdu-
rante domanda che gli studi clinici siano registrati pubblicamente fin
dall’inizio e che tutti i risultati vengano pubblicati. Prima dell’avven-
to dell’editoria elettronica era difficile costringere all’adesione a que-
sti principî, ma l’avvento delle riviste elettroniche open access, come
quelle pubblicate da BioMed Central (www.biomedcentral.com) e la
Public Library of Science (www.plos.org), ha fatto superare questo
ostacolo.


Evitare l’errata selezione delle prove disponibili

 Gli errori sistematici, oltre a creare distorsioni nelle singole speri-
mentazioni dei trattamenti e portarli a conclusioni errate, possono
I concetti chiave per sapere se una cura funziona                     53

anche distorcere le revisioni sistematiche della letteratura. Queste
ultime sono importanti in quanto molte persone vi fanno affidamen-
to, ma esse devono essere condotte in modo sistematico per evitare di
essere ingannevoli. Ad esempio, i revisori potrebbero usare solo gli
studi di cui sono a conoscenza; questo porterebbe molto probabil-
mente a conclusioni errate.
   Per evitare questi problemi, i metodi per condurre le revisioni
sistematiche devono essere definiti in protocolli, chiarendo quali
misure saranno adottate per ridurre gli errori sistematici. Queste
includeranno la specificazione di: a quali domande sul trattamento
risponderà la revisione; quali sono i criteri di eleggibilità degli studi
per l’inclusione nella revisione; in che modo gli studi potenzialmen-
te eleggibili saranno identificati e quali saranno le misure intraprese
per minimizzare gli errori di selezione degli studi per l’inclusione
nella revisione.
   Revisioni sistematiche su domande apparentemente simili spesso
giungono a conclusioni diverse. A volte perché la domanda è sottil-
mente diversa; a volte perché i revisori utilizzano metodologie diffe-
renti. In quest’ultima circostanza è importante giudicare quali revi-
sioni hanno ridotto l’effetto degli errori sistematici e del caso nel
modo migliore.
   Cosa succede se i revisori hanno degli interessi che possono
influenzare la conduzione o l’interpretazione del loro lavoro? Erano,
ad esempio, in rapporti con l’azienda che ha prodotto il farmaco che
stanno valutando? Nel valutare le prove di efficacia dell’effetto di un
olio di enotera sull’eczema, i revisori che avevano rapporti con l’in-
dustria giunsero a conclusioni decisamente più entusiastiche sull’ef-
fetto del trattamento rispetto a quelli che non li avevano (vedi
Capitolo 1).
   Gli interessi commerciali non sono i soli a indurre a errori sistema-
tici nella selezione delle prove disponibili per l’inclusione in una
revisione. Tutti siamo portatori di pregiudizi che possono indurci a
questo – ricercatori, operatori sanitari e pazienti.
54                                         COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


L’uso delle metanalisi per ridurre il rischio che i risultati siano dovuti
al caso

   Per ridurre il peso della casualità si possono combinare statistica-
mente i risultati di tutti gli studi rilevanti attraverso un metodo noto
come metanalisi. Benché questi metodi siano stati sviluppati dagli
statistici già da molti anni, è solo dopo gli anni ’70 che cominciaro-
no ad essere applicati in modo più ampio, prima nelle scienze socia-
li e poi dai ricercatori in medicina. Una decina di anni fa si conven-
ne che le metanalisi rappresentassero un elemento importante nelle
buone sperimentazioni dei trattamenti.
   Le metanalisi costituiscono un ulteriore aiuto per evitare conclu-
sioni errate su trattamenti che apparentemente non abbiano effetto,
quando essi possono in realtà mostrarsi utili o dannosi. Consideriamo
l’esempio della terapia con steroidi somministrata a donne in attesa
di avere un parto prematuro che è di breve durata e poco costosa. Il
primo studio randomizzato e controllato venne pubblicato nel 1972 e
mostrò una riduzione della probabilità di morte nei neonati. Un
decennio più tardi sono stati condotti altri studi, ma di piccole dimen-
sioni e dai singoli risultati non chiari e che non vennero sintetizzati in
una revisione sistematica con una metanalisi. Se farlo fosse stato pra-
tica comune, i risultati avrebbero mostrato delle prove molto più con-
sistenti a favore degli steroidi. Infatti, nessuna revisione con metana-
lisi è stata pubblicata fino al 1989 e così molti ostetrici non hanno
potuto cogliere l’efficacia del trattamento e decine di migliaia di
bambini prematuri hanno sofferto e sono morti inutilmente.51




  MESSAGGI CHIAVE

  • È facile concludere che alcuni trattamenti sono utili quando non lo sono e
    viceversa, se non si fa attenzione agli errori sistematici e al ruolo del caso
  • I confronti sono la chiave per tutte le sperimentazioni dei trattamenti ben
    condotte
  • Non pubblicare i risultati della ricerca danneggia i pazienti
  • Le revisioni sistematiche di tutte le prove rilevanti dovrebbero essere la base
    per valutare l’effetto delle cure.
4• AFFRONTARE L’INCERTEZZA SUGLI
                 EFFETTI DEI TRATTAMENTI




   Il Capitolo 3 ha descritto a grandi linee come sperimentare corret-
tamente i trattamenti. In questo capitolo approfondiremo il tema del-
l’incertezza che inevitabilmente accompagna l’effettiva utilità di ogni
trattamento.
   Negli anni ’70 uno degli autori (IC), mentre era in vacanza negli
USA, si ruppe una caviglia e fu curato da un ortopedico. Questi gli
fece una steccatura temporanea, raccomandandosi che il passo suc-
cessivo, una volta diminuita la tumefazione, fosse l’ingessatura del-
l’arto inferiore per le successive sei settimane. Un paio di giorni
dopo, una volta fatto ritorno a casa, IC si recò presso la locale clini-
ca ortopedica, dove un medico inglese, senz’alcuna esitazione, fu di
tutt’altro avviso. L’ortopedico gli disse che l’ingessatura della gamba
sarebbe stata assolutamente inappropriata. Alla luce di queste ovvie
incertezze su quale fosse il miglior trattamento, IC chiese di poter
partecipare ad uno studio clinico controllato che potesse offrire una
risposta. L’ortopedico inglese rispose che gli studi clinici sono desti-
nati alle persone che nutrono dubbi su ciò che è giusto fare e ciò che
non lo è – mentre lui era sicuro.
   Come possono convivere opinioni professionali così diverse e cosa
dovrebbe fare un paziente? Ciascun ortopedico era individualmente
certo della correttezza del proprio modo d’agire. I loro punti di vista,
tanto marcatamente differenti, rivelavano l’incertezza professionale
sul miglior modo di trattare una comune frattura. C’era qualche prova
affidabile per valutare quale trattamento fosse effettivamente miglio-
re? Se fosse stato così, nessuno dei due ortopedici ne era a conoscen-
za? Oppure proprio nessuno sapeva dire quale trattamento fosse il
56                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


migliore? Forse i due ortopedici avevano una diversa valutazione
relativa a specifici esiti dei trattamenti: è possibile che quello ameri-
cano si preoccupasse particolarmente di ridurre il dolore – da qui la
raccomandazione di ingessare – mentre è possibile che la sua contro-
parte britannica fosse più preoccupata del danno muscolare che pote-
va prodursi con l’immobilizzazione prolungata dell’arto. Se così
fosse stato, perché nessuno dei due ortopedici ha chiesto a IC qual era
l’esito che interessava di più a lui, ossia al paziente?
   Ci sono diverse questioni su cui riflettere. Primo, c’erano studi affi-
dabili che confrontassero i due differenti approcci terapeutici racco-
mandati? Se sì, questi studi mostravano specifici effetti su esiti (ridu-
zione del dolore o del danno muscolare, ad esempio) che avrebbero
potuto essere d’interesse per IC o per altri pazienti e che, rispetto ad
essi, avrebbero potuto esprimere preferenze diverse? E se non ci fos-
sero state delle prove in grado di fornire le informazioni necessarie?
   Alcuni clinici hanno ben chiaro cosa fare quando non ci sono prove
affidabili. Ad esempio, uno specialista nella cura di pazienti colpiti da
ictus ha scelto questo atteggiamento: ‘Io posso rassicurare i pazienti
dicendo loro che sono un esperto nella diagnosi e nella valutazione
clinica dell’ictus, che sono capace di interpretare le immagini cere-
brali in maniera appropriata e di prescrivere le indagini corrette. Ma
so anche dalla ricerca corrente che i miei pazienti potrebbero avere
esiti migliori se curati in una unità di terapia intensiva dedicata ai
pazienti con ictus (stroke unit). Peraltro, ci sono aspetti della cura del
paziente su cui né io, né i miei colleghi abbiamo certezze, e ciò è par-
ticolarmente vero nel caso della prescrizione di farmaci trombolitici:

  L’EVOLUZIONE DELL’INCERTEZZA MEDICA

  L’importanza dell’incertezza nella moderna pratica medica come concetto teore-
  tico, fenomeno empirico ed esperienza umana mi fu inculcata dal mio docente,
  Talcott Parsons. Egli mi ha anche comunicato il paradosso e la cogenza – sia per
  i medici che per i pazienti – del fatto che i nostri grandi progressi del 20° secolo
  nelle scienze mediche e tecnologiche ci hanno aiutato a comprendere quanto
  ancora siamo ignoranti, disorientati e in errore su molti aspetti della salute e della
  malattia, della vita e della morte.



       Fox R. The evolution of medical uncertainty. Milbank Fund Quarterly 1980; 58: 1-49
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                  57

questi potrebbero dare più benefici che danni, ma in realtà fare anche
il contrario. In queste circostanze penso che sia mio dovere, per ridur-
re l’incertezza, spiegare ai miei pazienti che io sono disponibile a pre-
scrivere quel determinato farmaco, ma esclusivamente nel contesto di
un accurato studio clinico controllato che permetta di capire qual è il
comportamento migliore.’52 In questo capitolo prenderemo in esame
questo genere di incertezza – quella cioè che si genera nel momento
in cui le informazioni relative alle alternative terapeutiche siano ina-
deguate e non ci siano forti preferenze da parte dei pazienti.


EFFETTI ECLATANTI: RARI E FACILMENTE
IDENTIFICABILI

   Che ci siano incertezze riguardo agli effetti dei trattamenti è quasi
inevitabile – solo raramente i risultati sono tanto eclatanti da non far
sorgere alcun dubbio. Se ciò accade, l’effetto del trattamento è dav-
vero ovvio. Questo il caso della scoperta negli anni ’30 delle sulfona-
midi, un gruppo di antibiotici, utilizzati per il trattamento di una con-
dizione che inevitabilmente portava alla morte e all’epoca era molto
comune tra le partorienti – la febbre puerperale. Questa era causata
da un’infezione batterica delle vie genitali, in genere sostenuta da un
microrganismo noto come Streptococcus pyogenes. Nonostante l’in-
troduzione di più rigorose pratiche antisettiche verso la fine del XIX
secolo, la febbre puerperale uccideva ancora migliaia di donne in
tutto il mondo. L’uso delle sulfonamidi ebbe un effetto eclatante – il
tasso di mortalità si ridusse drasticamente. Una risposta simile si ebbe
quando le sulfonamidi furono utilizzate per il trattamento di alcune
forme gravi di meningite batterica (un’infiammazione delle membra-
ne che rivestono il cervello) nota come meningite meningococcica.
Di nuovo, il tracollo del tasso di mortalità non lasciava spazio a
dubbi. In questi casi non ci fu necessità di condurre attenti studi cli-
nici controllati per dimostrare gli effetti incontrovertibili delle sulfo-
namidi – gli effetti erano marcatamente evidenti se confrontati con
ciò che il destino riservava alla vita dei pazienti prima che le sulfona-
midi divenissero disponibili per l’uso.
   Altri due casi in cui gli effetti del trattamento emergono al di là di
ogni ragionevole dubbio sono quelli già citati nel Capitolo 3 – l’uso
dell’oppio per la riduzione del dolore e l’insulina per il diabete. Negli
58                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


anni ’20 del secolo scorso, quando i medici canadesi Banting e Best
scoprirono l’insulina (un ormone prodotto dal pancreas), i pazienti
avevano una breve aspettativa di vita e soffrivano immensamente, per
le devastanti complicanze prodotte dagli elevati livelli di glucosio nel
sangue. I primi risultati degli esperimenti sugli animali condussero
molto rapidamente all’uso dell’insulina nei pazienti, con un successo
eccezionale – che a quel tempo sembrò quasi un miracolo.

  IL MIRACOLO DELLA PENICILLINA

  All’inizio del 1943, presso il British General Hospital di Bangalore, nell’ India del
  Sud, avevamo ricevuto istruzione di mantenere rapporti amichevoli con le perso-
  ne del luogo. Il direttore dell’Istituto delle Scienze e della Tecnologia della città
  mi condusse in una visita che si rivelò di notevole interesse. Fui molto colpito dal-
  l’incontro con due giovani biochimici che con molta prudenza mi mostrarono un
  flacone contenente qualcosa di simile al porridge e che loro dissero essere peni-
  cillina: “abbiamo letto tutti gli articoli”. A fianco c’era un contenitore con una
  notevole crescita di colonie di streptococchi, come loro affermarono, ed un altro,
  quasi completamente pulito, che mi assicurarono essere stato ripulito dalla “peni-
  cillina”. Nel 1943 le poche informazioni che avevamo sulla penicillina ci giunge-
  vano dai giornali che ci arrivavano da casa e dagli USA e avevamo grandi aspet-
  tative su di essa.
  Poco dopo ricoverammo un cadetto dell’Accademia Militare, in fin di vita, colpi-
  to da una trombosi del seno cavernoso di origine infettiva e ormai setticemico [la
  setticemia è un’infezione batterica diffusa a tutto l’organismo, che colpisce anche
  i vasi sanguigni del cervello]. Nessuno dei nostri numerosi chirurghi volle inter-
  venire. Provammo di tutto, inutilmente.
  Ci sembrò un’idea folle, ma quali alternative avevamo? Dopo infinite discussio-
  ni decidemmo, medici ed infermieri insieme, che non c’erano risposte. Nel frat-
  tempo il paziente scivolava verso uno stato comatoso sempre più profondo. Ci
  decidemmo a dargli una possibilità.
  Così presi la mia bicicletta e mi diressi verso l’Istituto. Spiegai la situazione e loro
  mi diedero immediatamente un flacone di quella mistura, leggermente diluita.
  Prendemmo l’ago più grosso che avevamo a disposizione in ospedale, riempim-
  mo una siringa capiente, ed io stesso feci l’iniezione intramuscolare. La mattina
  seguente il paziente chiese del tè. Il miglioramento fu ineguagliabile. Una singo-
  la dose sembrò essere sufficiente.



              Morris JN. Recalling the miracle that was penicillin: two memorable patients.
                                 Journal of the Royal Society of Medicine 2004, 97:189-90
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                 59

   Un altro esempio è rappresentato dall’uso del fegato – poi ricono-
sciuto quale fonte di vitamina B12 – nei soggetti affetti da anemia
perniciosa. In questo tipo di anemia fatale, i globuli rossi del sangue
scendono col tempo a livelli disastrosamente bassi, lasciando i
pazienti in una condizione di pallore cereo e di profonda stanchezza.
Quando a questi pazienti furono somministrati degli estratti di fegato
i risultati furono rapidi ed efficaci ed ora la vitamina B12 viene pre-
scritta abitualmente. In modo simile, negli anni ’40, gli effetti bene-
fici della streptomicina nel trattamento della meningite tubercolare e
della penicillina per diverse infezioni batteriche sono emersi in modo
inconfutabile.
   Più recentemente, gli effetti evidenti dei trapianti d’organo in
pazienti affetti da insufficienza renale, epatica o cardiaca e della pro-
tesi d’anca in pazienti affetti da dolore di origine artritica hanno reso
superflua la conduzione di sperimentazioni cliniche controllate. Ed
intorno all’inizio di questo secolo simili eclatanti risultati sono stati
visti in pazienti cui veniva somministrato l’imatinib per la leucemia
mieloide cronica.53 Prima dell’introduzione dell’imatinib questo tipo
di leucemia rispondeva scarsamente ai trattamenti tradizionali.
Quando il nuovo farmaco fu sperimentato in pazienti che non aveva-
no risposto alla terapia standard, i risultati furono clamorosi.


EFFETTI MODERATI DEI TRATTAMENTI: FREQUENTI E
NON COSÌ FACILI DA INTERPRETARE

   Molti dei trattamenti disponibili non producono effetti eclatanti e
per poterne stabilire l’efficacia devono essere sperimentati attraverso
accurati studi clinici controllati. Inoltre, alcune volte una terapia ha
un effetto molto visibile in alcune condizioni, ma non in altre. Ad
esempio, le sulfonamidi hanno dimostrato un’efficacia nella cura
della febbre puerperale, una malattia considerata un vero e proprio
‘killer’ di neo-mamme e nella meningite meningococcica, ma un
effetto assai più modesto in quelle patologie che presentano un alto
tasso di sopravvivenza anche in assenza di terapia farmacologica. È
stato quindi necessario far ricorso a studi clinici controllati accurati
per sapere quali fossero gli effetti delle sulfonamidi in queste condi-
zioni. Negli anni ’30 e ’40 sono stati condotti diversi studi clinici
controllati che hanno mostrato effetti soddisfacenti delle sulfonamidi
60                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


nell’erisipela (una grave infezione cutanea) e nella polmonite, ma
anche la loro sostanziale inefficacia nella scarlattina.54
   In modo simile, benché non ci siano dubbi sull’efficacia della vita-
mina B12 nella terapia dell’anemia perniciosa, si continua ancora
oggi a discutere se quest’ultima debba essere somministrata con
un’iniezione mensile o trimestrale. A questo dubbio si potrà trovare
una soluzione soltanto confrontando le due opzioni nell’ambito di un
accurato studio clinico controllato. E, mentre appare chiara l’effica-
cia della protesizzazione dell’anca nella riduzione del dolore artico-
lare, è assai più difficile, ma non meno importante, stabilire quali
vantaggi o svantaggi derivino dall’utilizzare tipi diversi di protesi.
Alcune, ad esempio, potrebbero deteriorarsi più rapidamente di altre.


QUANDO I MEDICI HANNO OPINIONI
E CONVINZIONI DIVERSE

   Un’ampia variabilità d’uso nelle terapie per una certa malattia
dimostra che esistono dubbi sull’uso dei migliori trattamenti. Un altro
esempio di incertezza è il trattamento dell’ingrossamento benigno
della ghiandola prostatica. Questa malattia – nota come iperplasia
prostatica benigna (IPB) – è comune negli uomini anziani. I sintomi
più fastidiosi sono l’aumentata frequenza della minzione o la difficol-
tà nel passaggio delle urine. Ci sono diversi modi di trattare l’IPB,
compreso lasciare che la natura faccia il proprio corso – alcune volte
chiamato ‘vigile attesa’ o ‘monitoraggio attivo’ – in quanto i sintomi
possono migliorare spontaneamente. Altre opzioni non chirurgiche
includono la tradizionale terapia farmacologica (diversi farmaci sono
attualmente prescritti per la IPB) e un prodotto derivato da una pian-
ta naturale, la Serenoa Repens, che è un estratto della American saw
palmetto o palma nana. Poi c’è la chirurgia – e i tassi di interventi per
l’IPB variano considerevolmente. Negli Usa, ad esempio, quando nel
1996 alcuni ricercatori raccolsero i dati inerenti il tasso di interventi
chirurgici nei diversi Stati, trovarono variazioni di quattro volte tra
uno Stato e l’altro – dal 6 al 23 per cento tra i soggetti che facevano
parte del maggior schema assicurativo pubblico statunitense
(Medicare).55
   Sappiamo che la scelta tra le diverse terapie per la IPB dipende dal
bilanciamento tra rischi e benefici offerti dalle terapie stesse e dalle
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                                    61

preferenze individuali: ciascuno di noi ha il proprio modo di definire
quale sia l’esito di tale bilancio. Chi sceglie la chirurgia ha le mag-
giori probabilità di liberarsi dai sintomi, ma anche di andare incontro
a tutte le complicanze dell’intervento chirurgico come l’incontinen-
za, l’eiaculazione retrograda e l’impotenza. La terapia farmacologica
è meno efficace nel ridurre i sintomi, ma evita i rischi che sono asso-
ciati alla chirurgia. Un comportamento attendistico non espone ai
rischi, sia della chirurgia sia della terapia con i farmaci, ma facilmen-
te non migliora la sintomatologia. Per poter avere informazioni utili
per compiere una scelta informata tra queste differenti strategie è
necessario confrontarle tra loro in uno studio clinico controllato.
Quando un uomo vuol sapere qual è il modo migliore per risolvere
questa sintomatologia così fastidiosa, il suo medico dovrebbe offrir-
gli spiegazioni sui pro ed i contro di ogni trattamento in modo chia-
ro, cosicché egli possa scegliere quello che ritiene più appropriato per
sé. Su questa base ci si potrebbe ragionevolmente attendere che negli
Stati Uniti le proporzioni di uomini che scelgono tra i diversi tratta-
menti siano abbastanza simili tra loro. Ad oggi, i tassi di interventi
chirurgici, così ampiamente differenti tra loro nei diversi Stati, dimo-
strano invece come i medici siano ancora incerti su quando e in quale
situazione far ricorso alla chirurgia.

  DIPENDE DALLA GEOGRAFIA

  ‘Come spesso accade in sanità, ‘il destino dipende dalla geografia’. Ad esempio,
  nel Vermont in una comunità viene sottoposto a tonsillectomia l’8 per cento dei
  bambini, mentre in un’altra il 70 per cento. Nel Maine la proporzione di donne
  settantenni che vengono isterectomizzate varia da meno del 20 per cento a più del
  70. In Iowa, la proporzione di uomini ottantacinquenni che vengono sottoposti ad
  intervento chirurgico per ipertrofia prostatica varia dal 15 a più del 60 per cento.’

                      Gigerenzer G. Reckoning with risk: learning to live with uncertainty
                                               Londra, Penguin Books , 2002, pag. 101



   Anche nel cancro della prostata, come già detto nel secondo capi-
tolo, regna grande incertezza sull’utilizzo dello screening e, di conse-
guenza, sulle opzioni di trattamento.
   Un altro campo in cui vi è incertezza fra i professionisti è quello
della modalità di impiego della tonsillectomia (intervento chirurgico
62                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


per asportare le tonsille) per il trattamento della tonsillite cronica
(persistente) o degli episodi ripetuti di tonsillite acuta. Nel passato la
tonsillectomia era un trattamento di routine nei bambini, indipenden-
temente dal fatto che i sintomi ne suggerissero o meno l’impiego.
Attualmente viene utilizzata in maniera più selettiva, ma continua ad
essere un intervento chirurgico molto frequente nei bambini ed in
aumento negli adulti. Peraltro, non c’è accordo su quali siano le indi-
cazioni alla chirurgia. Infatti in molti Paesi sono numerosi i pazienti
che vengono sottoposti a tonsillectomia, sia che siano affetti da ton-
sillite acuta ricorrente, sia da tonsillite cronica, o da episodi di farin-
gite acuta aspecifica ricorrente.

  IL DILEMMA DELLA PROSTATA

  Gentile Signore,
  se c’è qualcosa di certo riguardo a screening, diagnosi e trattamento del cancro
  della prostata è l’incertezza che li accompagna. Il cancro della prostata è letale per
  alcuni uomini, ma non per molti altri. Sebbene potenzialmente ‘curabile’ in alcu-
  ni casi, potrebbe non essere necessario preoccuparsene affatto in altri.
  Un recente carteggio rivela quanto sia difficile per un uomo cercare di conciliare
  le prove scientifiche e le opinioni degli esperti medici. Migliaia di uomini ci pro-
  vano ogni settimana. Uno di questi, Jeremy Laurance, mi ha detto che per ora si
  terrà la sua prostata, ignorando i suoi sintomi che sfuggirebbero ad una diagnosi
  di cancro, dal momento che una visita dal medico di medicina generale avrebbe
  confermato che con molta probabilità si tratta di un problema prostatico benigno
  e trattabile piuttosto che un cancro. Il Professor Robert Eisenthal sembra essere
  grato che gli sia stata tolta. E a parte che a Jeremy non interessa essere aiutato dal
  suo medico, non ci sono molti urologi o oncologi che direbbero che l’uno o l’al-
  tro abbiano sicuramente ragione o torto. Finché non emergeranno prove scientifi-
  che affidabili, questo è tutto ciò che questi uomini, e tutti coloro che ogni settima-
  na affrontano questo dilemma, possono fare.
  La soluzione sarebbe informare quanto più possibile in modo completo le perso-
  ne. L’unico modo per ridurre l’incertezza è supportare la ricerca nel lungo perio-
  do. Nel frattempo, ci vorrebbe una politica sanitaria di più ampio respiro mirata
  ad aumentare la consapevolezza verso la propria salute e a diventare più compe-
  tenti, tanto per dirla nel gergo utilizzato nel recente documento Wanless sulla
  salute pubblica.

                 Dr Chris Hiley, Head of Policy and Research, The Prostate Cancer Charity
                 Hiley C. Prostate dilemma (Letter). The Independent, 2004, Jun 7, pag. 26
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                                  63

   Benché, in genere, si giustifichi l’intervento chirurgico con la pre-
senza di infezione, frequenza e gravità della stessa sono in realtà
estremamente variabili. Non bisogna inoltre trascurare che l’inter-
vento chirurgico espone il paziente non solo ai rischi legati all’ane-
stesia generale, ma anche a dei rischi specifici associati alla chirurgia,
quale quello di una grave emorragia. Di fronte a questa variabilità di
impiego della tonsillectomia un gruppo di ricercatori ha deciso di
rivedere, in modo sistematico, tutti gli studi controllati così da cerca-
re di definire quest’area di incertezza. Essi hanno trovato che nel-
l’adulto non era mai stato condotto nessuno studio clinico controlla-
to sulla tonsillectomia. Nei bambini la situazione non era migliore: i
ricercatori identificarono due studi controllati ed entrambi con grossi
limiti metodologici. In uno studio, ad esempio, i bambini assegnati al
trattamento chirurgico – sia a tonsillectomia da sola che associata a
rimozione delle adenoidi (adenoidectomia) – avevano caratteristiche
diverse rispetto a quelli che non venivano sottoposti a trattamento
chirurgico: i primi infatti avevano mostrato un pattern di infezioni
della gola diverso rispetto ai secondi e provenivano da famiglie più
povere. Era evidente che non era possibile confrontarli. I ricercatori
conclusero, di conseguenza, che l’efficacia della tonsillectomia non era
stata valutata in maniera adeguata e che, per poter trarre qualsiasi con-
clusione, era necessario condurre ulteriori studi clinici controllati.56

  UNA CONVERSAZIONE FRA MEDICI SUI DUBBI NELLA PRESCRIZIONE

  In una conversazione immaginaria fra due medici, un medico di medicina gene-
  rale fa la seguente considerazione: Molte delle cose che facciamo sono dei tenta-
  tivi e non credo che tu o io ci sentiamo a nostro agio in questa situazione. L’unico
  modo per sapere se qualcosa funziona è condurre uno studio appropriato, ma è
  ben difficile poter fare così. Così cosa facciamo? Escogitiamo delle soluzioni. E
  sono sicuro che alcune volte funzionano – l’esperienza clinica e tutto il resto. Ma
  altre volte potrebbe andare sia bene sia male, ma dal momento che non stiamo
  facendo qualcosa che si possa definire uno studio, non ha regole e non imparia-
  mo niente da tutto ciò.



         Adattato da Petit-Zeman S. Doctor, what’s wrong? Making the NHS human again.
                                                      Londra: Routledge, 2005, pp. 79-80
64                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   Ancora una volta è la terapia per il carcinoma della mammella
(vedi Capitolo 2) a fornirci un esempio esaustivo di incertezza pro-
fessionale. Nonostante la grande mole di ricerche condotte per la dia-
gnosi e la terapia di questo tipo di tumore nel corso degli anni, a testi-
moniare l’incertezza in questa area medica permane la grande varia-
bilità sia nell’interpretazione dell’utilità dello screening mammogra-
fico che nell’applicazione della terapia chirurgica, della radio e della
chemioterapia. Sono numerose le domande senza risposta sulle basi
biologiche della malattia e sul ruolo di geni ed enzimi nel metaboli-
smo di ciascun paziente. Un altro problema ancora irrisolto è quale
sia il miglior trattamento per il carcinoma della mammella in stadio
ancora molto iniziale e del cosiddetto ‘pre-cancro’, così come quale
sia il numero ideale di linfonodi del cavo ascellare che dovrebbero
essere rimossi. È ancora oggetto di discussione quale sia la migliore
organizzazione sanitaria sia per lo screening sia per il trattamento del
cancro della mammella e sono necessarie più prove per migliorare la
pratica clinica. E come se questa lista non fosse già sufficientemente
lunga, altri elementi che sono particolarmente importanti per le
pazienti, come il sollievo dalla fatica associata alla terapia o il miglior
trattamento per il linfedema – una complicazione particolarmente
dolorosa e disabilitante della chirurgia e della radioterapia a livello
del cavo ascellare – non sono ancora stati adeguatamente studiati.
Quali conclusioni trarre da tutto ciò? Primo, i medici devono valuta-
re, rispetto a ciascun trattamento, le migliori prove disponibili origi-
nate dall’esperienza di tutta la collettività scientifica, così come le
revisioni sistematiche dei migliori studi disponibili. Poi devono
discutere le diverse opzioni con i loro pazienti ed essere il più chiari
possibile rispetto alle loro preferenze.
   Se, nonostante tutto ciò, rimangono ancora delle incertezze devo-
no essere preparati a spiegarne le cause ai malati. Si dovrebbe consi-
derare l’ammissione dell’incertezza non come una sconfitta, ma piut-
tosto come un prerequisito per progredire, un aiuto per rendere le
cure sempre più appropriate e sicure. I medici ed i pazienti devono
inoltre collaborare per progettare insieme una ricerca via via miglio-
re (vedi capitolo 7). Nel frattempo i malati devono comprendere che
se, guardando alle prove disponibili, il loro medico dice loro “Non
so”, questo non vuol dire che si debbano mettere alla ricerca del
secondo parere di un medico che dia loro delle certezze quando è
palese che queste non esistono.
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                                  65


  LE REAZIONI DEI PAZIENTI ALL’INCERTEZZA

  Nel 2002, una donna di 58 anni del New Jersey in USA, commentò:

     ‘Tristemente, come sempre nella mia esperienza, è stato impossibile avere
     un colloquio adeguato con un medico, dove i miei dubbi rispetto alla mam-
     mografia fossero tenuti in considerazione, come un articolo del New York
     Times sostiene essere diritto di ogni paziente. I medici diventano aggressi-
     vi e alquanto ostili quando dico che ho delle riserve a fare la mammografia
     ogni anno. La conclusione è che non credo di avere un buon rapporto con
     il medico e questo non va bene. Un buon scienziato non è spaventato dal-
     l’esprimere l’incertezza su un problema o dal discuterne apertamente. Io
     sono invece spaventata dai medici, che non hanno questa forma mentis
     scientifica.’

  Diane Palacios, in una lettera al Dr. DA Berry del MD Anderson Cancer Center,
  Università del Texas, 2002 (riproduzione autorizzata).
  La Signora Palacios scrisse anche una lettera direttamente al New York Times,
  concludendo: ‘Io posso vivere con l’incertezza. Non voglio convivere con la diso-
  nestà.’


                  Palacios D. Re: Senators hear from experts, then support mammography
                            (news article March 1). New York Times, 2002 Mar 4, pag. 20



  Scrivendo nel 2005, una giovane dottoressa inglese, che più tardi divenne essa
  stessa una paziente, annotò:

     ‘Avendo lavorato nel NHS avevo aspettative realistiche rispetto alle attese,
     alle incertezze diagnostiche e alle pressioni che la mancanza di tempo eser-
     cita sui medici. Quello che apprezzai innanzitutto era che la diagnosi e la
     cura fosse stata fatta da medici in cui credere, che descrissero i fatti e le
     incertezze come tali, parlandomi dei passi successivi da compiere, senza
     dipingermi le cose migliori di quello che fossero e non distraendomi con il
     parlare di ciò che sarebbe potuto andare male o con il chiedermi continua-
     mente come mi sentivo…“Sono fortunata” dissi a mio padre (un pediatra);
     ma lui sottolineò che non dovevo considerarmi fortunata – la mia esperien-
     za avrebbe dovuto essere la norma.’


              Chambers C. Book review. Hippocratic oaths – medicine and its discontents.
                              Journal of the Royal Society of Medicine 2005; 98: 39-40
66                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


  Come possiamo quindi confrontarci con l’incertezza che sempre si
associa agli effetti di nuovi farmaci o nuove tecnologie? Una risposta
ovvia è quella di provare a ridurre l’incertezza – utilizzando, ad
esempio, le nuove tecniche di cura soltanto nel contesto di una ricer-
ca disegnata appositamente per sapere di più sui loro effetti. Un
medico che si occupa di etica propone questo:

     ‘Se non siamo certi di quali siano i benefici intrinseci di ciascun trattamen-
     to, non possiamo nemmeno essere sicuri di quali siano i vantaggi nell’uso
     specifico di uno di questi – come nella cura di un singolo paziente. Appare
     quindi tanto irrazionale, quanto non etico, perseverare nell’applicare un trat-
     tamento piuttosto che un altro, prima di aver concluso un valido studio che
     li confronti. Così, la risposta alla domanda: “qual è il miglior trattamento
     per il paziente?” è: “Lo studio”. Lo studio è il trattamento. Questa è speri-
     mentazione? Si. Ma ciò che ne traiamo è che facciamo una scelta in un
     ambito di incertezza, associata alla raccolta dei dati. Questo significa che la
     scelta è “casuale”? Logicamente no. C’è un miglior meccanismo per fare
     scelte in condizioni di incertezza?’57

   Se non ci sono studi disponibili, tutti i risultati importanti raggiun-
ti da una nuova terapia non ancora sperimentata dovrebbero essere
raccolti in maniera sistematica e standardizzata, così da contribuire al
corpo delle conoscenze sui benefici che può offrire ai pazienti che la
stanno ricevendo o ai cittadini più in generale. Dal momento che
milioni di sterline dei contribuenti sono stati investiti nel sistema
informativo del NHS, non sarebbe irragionevole aspettarsi che ven-
gano utilizzate a beneficio della salute pubblica attraverso le modali-
tà dette prima.
   Ci sono diversi esempi di professionisti sanitari che utilizzano que-
st’approccio responsabile. Negli anni ’80 i ginecologi canadesi e bri-
tannici concordarono sull’utilizzo del prelievo dei villi coriali – una
tecnica invasiva utilizzata per la diagnosi prenatale delle anomalie
fetali congenite – soltanto nell’ambito di studi clinici controllati, fin-
ché non si fossero avute più informazioni sulla sua sicurezza rispetto
ad altri test alternativi, come l’amniocentesi (vedi Capitolo 7). In
modo simile, negli anni ’90, i pediatri inglesi raggiunsero un accordo
sulla necessità di trattare con una nuova apparecchiatura cuore-pol-
moni i bambini nati con insufficienza respiratoria solo nel contesto di
uno studio controllato. Così facendo, medici e genitori sarebbero stati
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                                    67

in grado di capire rapidamente se queste nuove apparecchiature
sarebbero state più efficaci nel ridurre la mortalità o la disabilità
grave rispetto ai trattamenti standard fino ad allora utilizzati. Più
recentemente i pediatri hanno fatto uso dello stesso approccio per
capire la fondatezza di alcune suggestioni riguardanti l’abbassare la
temperatura corporea ai neonati per aiutarli a prevenire il danno cere-
brale. La scelta di un approccio così rigoroso da parte dei medici
nasce dalla consapevolezza che, quando ci sono incertezze rispetto ad
un trattamento, è troppo facile produrre effetti dannosi inspiegabili,
anche con le migliori intenzioni.

  DUE URRÀ PER L’INCERTEZZA

  Solo perché non sappiamo cosa ci riservi il futuro, possiamo nutrire delle speran-
  ze e fare le nostre scelte. Nel contesto dell’informazione al paziente sugli effetti
  di una terapia, pensiamo che un suo diritto fondamentale sia se accettare l’incer-
  tezza esistente (che in pratica spesso significa non essere d’accordo con il proprio
  curante) e il metodo proposto per risolverla (che include l’arruolamento in uno
  studio clinico controllato almeno come una possibilità per risolvere le incertezze).
  Pertanto non si dovrebbe guardare all’incertezza solo come ad un nemico, ma
  piuttosto come ad un’amica (o come ad un’opportunità). Una volta che l’incertez-
  za è stata identificata e riconosciuta, possono essere progettate soluzioni più effi-
  caci. Perciò, due urrà per l’incertezza.

                                Djulbegovic B. Paradox esists in dealing with uncertainty.
                                                  British Medical Journal 2004;328:1018




   Nonostante ci sia un interesse sempre maggiore nel promuovere
quest’attitudine, particolarmente per le terapie nuove e spesso molto
costose, purtroppo vanno comunque perse molte buone occasioni.
Ad esempio, attualmente non c’è nessun trattamento efficace noto
per una malattia che distrugge rapidamente il sistema nervoso, nota
come malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD), patologia che probabil-
mente origina dall’assunzione di carne di mucche affette dalla forma
bovina dello stesso male (BSE).
   Incomprensibilmente, anche quando si sa poco o nulla sul bilan-
cio tra i possibili benefici ed i possibili rischi, alcune persone cerca-
no di liberarsi dalla malattia facendo ricorso a qualsiasi trattamento
che possa dare loro la sensazione di avere una speranza (vedi
68                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


Capitolo 7). Ad oggi, quanto si potrebbe sapere di più, a tutto van-
taggio dei pazienti, se certi trattamenti fossero stati sperimentati in
studi condotti correttamente…


RIDURRE LE INCERTEZZE SUGLI EFFETTI
DELLE TERAPIE

   Qualcosa cambierà se le incertezze sui trattamenti verranno ridot-
te in modo più efficace ed efficiente. Discuteremo alcune di queste
modalità – in particolare il sempre maggior coinvolgimento dei
pazienti – negli ultimi due capitoli del libro. C’è comunque un parti-
colare aspetto – cui già abbiamo accennato in precedenza – da cui
vorremmo cominciare. Quando non ci sono informazioni sufficienti
sugli effetti di una terapia, la conoscenza può essere aumentata assi-
curandosi che i medici offrano quel trattamento nel contesto di una
valutazione formalmente condotta, fino a che non si sappia di più sul
suo valore e sui possibili effetti collaterali. Perché fino ad oggi è pre-
valso un comportamento che ha scoraggiato questo approccio capace
di limitare i rischi?
   Questo problema ossessionava un pediatra inglese più di 30 anni
fa che non sapeva farsi una ragione del fatto che fosse necessario
ottenere un’autorizzazione per somministrare una terapia a metà dei
suoi pazienti (per capirne gli effetti nell’ambito di uno studio con-
trollato, somministrando la nuova terapia a metà dei pazienti ed il
farmaco già in uso all’altra metà), mentre invece non ci voleva alcun
tipo di autorizzazione per somministrarla a tutti come prescrizione
standard.58Questo illogico doppio standard di riferimento si ripeteva
continuamente, scoraggiando i clinici che volevano affrontare e
ridurre le incertezze sugli effetti delle terapie. Ad esempio il General
Medical Council (GMC), rispetto alle terapie offerte routinariamen-
te nella pratica clinica, dà ai medici questi consigli: “la quantità di
informazioni da dare ai pazienti può variare, in relazione ai fattori di
rischio associati al trattamento o alle procedure e ai desideri propri
dei pazienti”. Questa flessibilità non è esplicitata nella guida del
GMC per il consenso informato alla partecipazione ad una speri-
mentazione clinica, in cui invece si stabilisce che alle persone invi-
tate a partecipare debba essere fornita un’informazione il più com-
pleta possibile”.
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                                        69


  CHI DICE CHE LA RICERCA CLINICA FA MALE ALLA SALUTE?

  La maggior parte delle discussioni sull’etica della ricerca medica si è concentrata
  su come essa dovrebbe essere regolata. In effetti, la ricerca medica ha regole assai
  più stringenti della pratica clinica. Ad un esame attento delle innumerevoli linee
  guida che sono state scritte per regolamentare la ricerca, uno quasi sarebbe porta-
  to a concludere che essa, al pari del fumo di sigaretta, faccia male alla salute.

   Hope T. Medical ethics: a very short introduction. Oxford: Oxford University Press, pag. 99




   È importante – ed etico – rispettare gli interessi di ciascuno dei
pazienti che stanno assumendo una terapia nella pratica di tutti i gior-
ni e non soltanto di quei pochi che entrano a far parte di uno studio
clinico.60 È ovvio che le informazioni più rilevanti su un trattamento
dovrebbero essere disponibili su richiesta, in ogni caso, ma sarebbe
altresì desiderabile “dimensionare” le informazioni rilevanti sulle
richieste e preferenze individuali, che potrebbero modificarsi nel
tempo. Un’insistenza dogmatica sul fornire un’informazione comple-
ta e sul consenso in ogni circostanza potrebbe essere una bella inter-
ferenza con il buon senso e la buona pratica clinica.61
   Tanto nelle sperimentazioni cliniche quanto nella pratica medica
corrente, i pazienti che necessitano di terapie e di presa in carico sono
verosimilmente molto diversi fra loro rispetto alla richiesta di infor-
mazioni, alla loro abilità di comprensione delle stesse nel breve tempo
messo a loro disposizione e al loro livello di ansia e di paura. Quando
i clinici sforzandosi di ridurre i dubbi sugli effetti di una terapia sono
costretti a fornire “le più complete informazioni disponibili”, potreb-
bero seriamente sconvolgere quei pazienti che preferirebbero “crede-
re al dottore”.62 Un investimento per migliorare la capacità di comu-
nicazione degli operatori sanitari potrebbe essere una strategia
migliore rispetto ad una rigida insistenza a spiegare tutto. Ancora più
utile potrebbe essere un approccio flessibile ancorato alla convinzio-
ne che quello che davvero porta ad una soddisfacente relazione tra
medico e paziente è la fiducia reciproca. IL GMC (vedi prima), che
sta rivedendo ora la sua linea guida al consenso informato, farebbe
meglio a raccomandare che alle persone invitate a partecipare ad una
sperimentazione clinica vengano fornite tutte le opportunità di acce-
dere facilmente alle informazioni più complete disponibili.
70                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




  LE DISTORSIONI DELL’ETICA

  Se un clinico sperimenta una nuova terapia con l’idea di studiarla in maniera
  accurata, valutandone gli esiti e pubblicandone i risultati, allora sta facendo ricer-
  ca. I soggetti di una ricerca di questo tipo vengono particolarmente protetti. Il pro-
  tocollo di ricerca deve essere rivisto da un Institutional Review Board (IRB)
  [l’equivalente dei comitati etici per la ricerca in Gran Bretagna]. Il modulo per il
  consenso informato viene accuratamente esaminato in tutti i particolari e la ricer-
  ca potrebbe anche non essere autorizzata. D’altro canto, un clinico potrebbe pro-
  vare ad utilizzare una nuova terapia senz’alcuna intenzione di avviare un proget-
  to di ricerca, soltanto perché è convinto che sarà di beneficio ai suoi pazienti. In
  questa situazione, provare il nuovo trattamento non è di per sé far ricerca, non è
  necessaria l’approvazione dell’IRB e il consenso informato potrebbe essere otte-
  nuto solo per proteggersi dal rischio di incorrere in una causa legale per cattiva
  pratica medica.
  I pazienti coinvolti nella seconda situazione (di non ricerca) sono di fatto esposti
  ad un rischio molto più elevato rispetto a quelli della prima (essere parte di una
  ricerca clinica). Peraltro, i clinici della prima situazione sembrano più rispettosi
  dei principi di comportamento etico. I medici che stanno conducendo una ricerca
  clinica stanno valutando una terapia, mentre quelli della seconda situazione stan-
  no usando il trattamento sulla base di loro convinzioni. Tuttavia, poiché i codici
  etici, cercando di proteggere i pazienti si focalizzano sulla creazione di una cono-
  scenza generalizzata, regolano la responsabilità degli sperimentatori ma non la
  mancanza di responsabilità di medici più spregiudicati.

                                        Lantos J. Ethical issues – how can we distinguish
                                               clinical research from innovative therapy?
                      American Journal of Pediatric Hematology/Oncology 1994; 16: 72-5



   Essere capaci di spiegare in modo chiaro l’incertezza richiede com-
petenze ed un certo grado di umiltà da parte dei medici. Molti medici
provano disagio quando provano a spiegare ai pazienti che stanno per
partecipare ad uno studio in cui nessuno sa quale dei trattamenti con-
frontati sia il migliore.63, 64 Ma l’attitudine del pubblico è cambiata: i
medici arroganti che vogliono mostrarsi onnipotenti hanno sempre
meno spazio. È necessario concentrarsi sulla formazione dei medici,
che non sono stati abituati ad ammettere di essere degli esseri umani
e di aver bisogno dell’aiuto e della partecipazione dei pazienti alla
ricerca, per poter disporre di più certezze sulla scelta dei trattamenti.
   Uno dei maggiori ostacoli per molti professionisti sanitari e per i
pazienti è la difficoltà nel comprendere il significato della randomiz-
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                                     71

zazione – perché è necessaria e qual è il suo significato in termini pra-
tici (vedi Capitolo 3). Ciò evidenzia l’urgenza di avere a disposizio-
ne informazioni chiare e comprensibili sugli studi clinici e sulle moti-
vazioni che li rendono necessari.
   Ci sono due necessità che devono essere distinte: primo, quella di
un’educazione generale che consenta la comprensione dello studio
clinico randomizzato e controllato e del perché viene fatto; secondo,
quella della spiegazione delle motivazioni per cui uno specifico trat-
tamento viene offerto al paziente soltanto nell’ambito di uno specifi-
co progetto di ricerca. Nelle sale d’attesa delle cliniche, ai pazienti
dovrebbe essere data la possibilità di comprendere la necessità di
condurre studi clinici attraverso opuscoli semplici.65 Questi dovreb-

  UN APPROCCIO INTERATTIVO E PERSONALIZZATO AL CONSENSO
  INFORMATO

  ‘Buongiorno Signor Jones, sono il dottor Smith. Prego, si sieda e si metta como-
  do. Il suo medico di medicina generale mi ha chiesto d’incontrarla perché la sua
  mancanza di fiato non sembra migliorare e si chiedeva se io potessi suggerire un
  modo per aiutarla. Spero di essere in grado di farlo, ma questo potrebbe voler dire
  incontrarci più volte nei prossimi mesi e lavorare insieme per trovare la miglior
  cura per il suo disturbo.
  Ho più probabilità di riuscire ad aiutarla se so di più su di lei, su cosa è più impor-
  tante per lei e sulle sue preferenze. Essendo la prima volta che ci incontriamo,
  ritengo che sia utile che le dica brevemente come intendo provare a fare quanto
  abbiamo appena detto. I pazienti hanno opinioni molto diverse rispetto alla quan-
  tità di informazioni che desiderano siano fornite, o che ricevono, dai loro medici.
  La maggior parte dei pazienti sembra ricevere dai loro curanti meno informazio-
  ni di quelle che vorrebbe ma ce ne sono altri che preferirebbero non sentire nes-
  suna delle cose che invece il loro medico pensa dovrebbero voler conoscere. Dal
  momento che noi non ci conosciamo ancora, avrò bisogno del suo aiuto per impa-
  rare quanto lei vuol sapere del suo problema e delle possibili alternative terapeu-
  tiche. La prego di spingermi a fornirle più informazioni, se lei pensa che non sia
  stato abbastanza chiaro, o di dirmi che ne ha avuto abbastanza, se lei pensa che la
  sto stancando. Lei deve sapere che, in risposta ad una sua domanda diretta, le dirò
  sempre la verità e se non so la risposta farò del mio meglio per documentarmi e
  potergliela fornire al più presto. Pensa che sia un modo accettabile per procedere?

                                                      Oxman AD, Chalmers I, Sackett DL.
                                         A pratical guide to informed consent to treatment.
                                                British Medical Journal 2001; 323: 1464-6
72                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




  RANDOMIZZAZIONE – UNA SPIEGAZIONE SEMPLICE

  La randomizzazione serve a ridurre l’errore sistematico assicurando che i pazien-
  ti siano il più possibile simili in ogni gruppo di trattamento per tutti i fattori noti
  ed ignoti. Ciò assicurerà che ogni differenza trovata fra i gruppi rispetto all’esito/i
  di interesse sia attribuibile alle differenze nell’effetto dei trattamenti e non alle
  differenze tra i pazienti che ricevono ciascuno dei trattamenti.
  La randomizzazione allontana la possibilità che un clinico assegni, in maniera
  conscia o inconscia, un trattamento ad un particolare tipo di paziente, e un altro
  trattamento ad un altro, oppure che pazienti con determinate caratteristiche scel-
  gano un trattamento mentre quelli con altre ne scelgano uno diverso.

           Harrison J. Presentation to Consumers’ Advisory Group for Clinical Trials, 1995



bero aiutare a spargere il seme della comprensione e ridurre lo shock
iniziale del momento in cui i pazienti vengono invitati a partecipare
ad una sperimentazione clinica. Soprattutto, gli studi controllati
dovrebbero essere promossi come un’attività in cui professionisti
sanitari e pazienti si alleano per migliorare le possibilità di scelta tra
le cure e la qualità della vita. Quindi, ai pazienti invitati a partecipa-
re ad uno studio dovrebbe essere spiegato cosa questo comporterà e
perché sono stati scelti. Ci piacerebbe arrivare a vedere il giorno in
cui i pazienti non saranno stupiti nel ricevere tale invito: anzi, quello
in cui saranno loro a chiedere automaticamente per quale studio
sarebbero eleggibili66 e saranno anche in grado di scegliere quali tra
i quesiti della ricerca sono quelli davvero importanti per loro.


ETICA, COMITATI ETICI E INTERESSI DEI PAZIENTI

   Anche se può sembrare strano, gli esperti in etica medica ed i comi-
tati etici per la ricerca hanno contribuito al mantenimento di un dop-
pio standard sul consenso in presenza di incertezza sugli effetti delle
terapie.67 Gli esperti di etica sembrano spesso più interessati a proteg-
gere ‘la vulnerabilità’ piuttosto che ad incoraggiare un appropriato
contributo dei pazienti per una partecipazione consapevole. Come un
esperto di etica medica ha recentemente notato, ‘se gli esperti di etica
e tutti gli altri volessero trovare qualcosa da criticare negli studi clini-
ci, dovrebbero guardare all’inadeguatezza del lavoro scientifico, alle
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                   73

inutili ripetizioni e soprattutto alle esclusioni ingiustificabili e all’uso
ingiusto ed irrazionale delle risorse. Il dibattito attuale è distorto per-
ché non si riflette a sufficienza su cosa rende necessari gli studi clini-
ci: migliorare la sicurezza dei trattamenti in uso e dimostrare che un
trattamento è migliore rispetto alle alternative. Non ci sono scorciato-
ie nell’etica – non più di quante ve ne siano nella programmazione
degli studi clinici.’68 I comitati etici – comitati indipendenti che valu-
tano gli aspetti etici delle proposte di nuove ricerche – si sono evoluti
in risposta a numerosi scandali verificatisi in sperimentazioni su esse-
ri umani chiaramente non etiche, dagli anni ’30 in poi. Questi comita-
ti sono stati molto importanti nel proteggere le persone dagli abusi per-
petrati in nome della ricerca e nell’esaminare con cura i tipi di ricerca
destinati ad aumentare le conoscenze scientifiche, ma non nella valu-
tazione dell’efficacia delle terapie. Se valutiamo il loro comportamen-
to rispetto al tema specifico degli studi clinici controllati dobbiamo
invece concludere che essi sono stati poco utili ai pazienti:69

  • non distinguendo sufficientemente tra la ricerca destinata a
    valutare gli effetti delle terapie ancora poco utilizzate (che vuol
    dire che potrebbero non essere state ancora registrate) e quelle
    invece ampiamente utilizzate;
  • hanno prestato poca o nulla attenzione al doppio standard sul
    consenso al trattamento di cui abbiamo discusso prima;
  • non stabilendo che nuove proposte di ricerca giustificassero il
    proprio razionale su revisioni sistematiche di ricerche già
    esistenti;
  • non obbligando i ricercatori a dichiarare i conflitti di
    interesse;
  • non avendo fatto nulla per ridurre il problema del non
    riportare tutti i risultati di tutte le ricerche.

    Appare quindi lecito chiedersi se i comitati etici stiano davvero
facendo il meglio per tutelare l’interesse del pubblico. Il Servizio
Sanitario Nazionale inglese sta cercando soluzioni per rendere più
facilmente disponibili al pubblico i risultati degli studi approvati. Ad
esempio, ogni comitato etico dovrebbe ora tenere un registro delle
proposte da esso valutate e richiedere un rapporto finale ai ricercato-
ri, da rilasciarsi entro tre mesi. Ma ci sono ancora molti problemi che
necessitano di risposte per assicurare che il lavoro dei comitati etici
74                                           COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


di ricerca sia adeguato e trasparente. Solo allora i pazienti invitati a
partecipare ad uno studio clinico controllato avranno fiducia della sua
utilità e il loro contributo sarà fattivo.

  UNA GUIDA DIRETTA DAI PAZIENTI SUGLI STUDI CONTROLLATI
  DI BUONA QUALITÀ

  Adesso che è stato creato un meta-registro internazionale degli studi clinici con-
  trollati (www.controlled-trials.com, ultimo accesso 9 Agosto 2000), esiste la strut-
  tura per creare una Guida degli Studi Controllati di buona qualità (Good
  Controlled Trials Guide) in forma elettronica per aiutare chi sta pensando di par-
  tecipare ad un studio clinico a fare scelte ben informate. Le informazioni per i
  potenziali partecipanti agli studi inclusi nel registro potrebbero contemplare, ad
  esempio, se si stia rispondendo a domande rilevanti, se ad esse sia già stata data
  una soddisfacente risposta in ricerche precedenti, se il disegno dello studio sia
  robusto da un punto di vista scientifico ed etico, se gli esiti primari scelti siano
  importanti per i pazienti e se siano stati presi accordi per comunicare i risultati
  della ricerca a chi vi ha partecipato. In questo modo la mobilitazione dei cittadini
  e dei rappresentanti dei pazienti, con la loro influenza, potrebbe aiutare a riorien-
  tare l’agenda della ricerca clinica per servire meglio gli interessi dei pazienti, così
  come ha fatto la Good Birth Guide di Sheila Kitzinger, che ha aiutato i reparti di
  maternità ad essere più consapevoli della percezione da parte del pubblico delle
  cure da essi prestate.

            Chalmers I. A patient-led Good Controlled Trials Guide. Lancet 2000; 356: 774




   La situazione attuale del comitati etici (CE) in Italia riflette in larga
parte la realtà descritta precedentemente. Dal punto di vista istituzio-
nale, la storia dei CE inizia in Italia nel 1988 con il decreto ministe-
riale istitutivo dei CE locali mirato a favorire una maggiore rapidità
nella realizzazione delle sperimentazioni cliniche nelle strutture del
SSN e a promuovere una capillare diffusione della valutazione etica
e scientifica sia in ambito di sperimentazione clinica sia di pratica cli-
nica. Il numero di CE è andato da allora crescendo in modo progres-
sivo e disomogeneo nelle diverse Regioni italiane ed alla fine del
2006 operavano in Italia oltre 300 CE locali.
   Se questa crescita quantitativa ha contribuito fortemente alla
presa di coscienza dell’importanza della vigilanza etico scientifica
sulla sperimentazione, è altresì vero che l’assenza di un indirizzo
Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti                                      75


  LA RICERCA DOVREBBE ESSERE PARTE INTEGRANTE
  DELLA PRATICA CLINICA

  Da un punto di vista etico, la ricerca e la pratica clinica non dovrebbero essere
  considerate come due attività separate. Questo vale sia per le nuove forme di trat-
  tamento che si pensano essere utili al paziente (ma di cui non sono noti i poten-
  ziali rischi e benefici), così come per terapie più consolidate, di cui si può avere
  più esperienza, ma il cui valore è ancora da provare. Per il servizio sanitario bri-
  tannico, l’imperativo etico è incoraggiare la ricerca per sapere come utilizzare al
  meglio le proprie limitate risorse per il massimo vantaggio di tutti.

        Advisory Group on Health Technology Assessment. Assessing the Effects of Health
   Technologies: Principles, Pratice, Proposals. Londra: Department of Health, 1992, pag. 25



preciso e di chiara definizione di compiti e ruoli dei CE ha fatto emer-
gere molte preoccupazioni sulla loro effettiva efficacia ed utilità.
   Ad aprile 2007, è stata completata una sistematica riorganizzazio-
ne dei CE locali sulla base del nuovo Decreto Ministeriale di fine
2006, che ha introdotto una maggior responsabilizzazione delle
Regioni e delle AUSL nel supporto e sostegno a favore dell’attività
dei CE e nella vigilanza rispetto alla autoreferenzialità ed ai conflitti
di interessi interni dei CE stessi. In Italia, uno strumento potenzial-
mente in grado di migliorare la trasparenza nel campo della quantità
e qualità delle sperimentazioni cliniche è dato dall’Osservatorio
Nazionale Sperimentazioni Cliniche (http://www.oss-sper-clin.agen-
ziafarmaco.it). All’interno dell’Osservatorio deve essere registrato un
set di informazioni essenziali relative a tutte le sperimentazioni clini-
che autorizzate dai CE e dal 2006 alcune di queste informazioni sono
completamente disponibili al pubblico (nota del Curatore dell’edizio-
ne italiana).
76                                         COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




 MESSAGGI CHIAVE

 • Le incertezze sugli effetti dei trattamenti sono molto frequenti
 • Quando scopriamo che nessuno sa come rispondere ad importanti incertezze
   sugli effetti di un trattamento, abbiamo bisogno di intraprendere un percorso
   capace di ridurre l’incertezza
 • È essenziale una buona conduzione degli studi clinici, insieme ad una loro
   attenta registrazione e valutazione
 • I doppi standard relativi al consenso del trattamento, entro e fuori gli studi
   clinici, non rispondono agli interessi dei pazienti
 • Molto può essere fatto per aiutare i pazienti a contribuire alla riduzione delle
   incertezze sugli effetti dei trattamenti
 • I comitati etici oggi non tutelano nel modo più efficace gli interessi dei
   pazienti.
5• LA     RICERCA CLINICA: LA BUONA,
                  LA CATTIVA E L’INUTILE




   Nei capitoli precedenti abbiamo sottolineato le ragioni per cui la
ricerca debba essere disegnata in modo appropriato e rispondere a
domande importanti per i pazienti e il pubblico. Quando questo acca-
de, ognuno di noi può essere fiero e soddisfatto dei risultati, anche
quando gli effetti sperati non si siano realizzati, in quanto saranno
stati fatti importanti passi avanti, riducendo l’incertezza. Molta ricer-
ca clinica è fatta bene – ed è in costante miglioramento in quanto si
attiene comunque ai migliori standard di disegno e di presentazione
dei risultati degli studi. Per varie ragioni, tuttavia, continua ad essere
condotta e pubblicata anche ricerca inutile o malfatta.


LA BUONA RICERCA

   L’ictus è una delle cause più importanti di morte e di disabilità di
lungo termine. Durante il primo episodio di ictus muoiono da uno a
due su sei pazienti; la mortalità cresce fino a quattro pazienti su sei
nelle recidive che possono verificarsi negli anni successivi, la mag-
gior parte delle quali si registra entro un anno dal primo evento, col-
pendo la stessa regione del cervello. Una delle cause sottostanti
l’ictus è il restringimento (stenosi) dell’arteria carotide che porta il
sangue al cervello. Il materiale adiposo che riveste l’interno della
carotide si stacca, bloccando le arterie tributarie più piccole, cau-
sando l’ictus. Negli anni ’50 i chirurghi cominciarono ad usare un
intervento chiamato endoarteriectomia della carotide per rimuovere
questi depositi di grasso. La speranza era che la chirurgia riducesse
78                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


il rischio di ictus. Come per ogni altro intervento, ad esso si associa
un rischio di complicanze.
   Sebbene l’endoarteriectomia della carotide sia diventato un inter-
vento sempre più comune, fu solo negli anni ’80 che furono avviati
degli studi randomizzati e controllati per valutarne rischi e benefici.
Quest’informazione sarebbe stata chiaramente di vitale importanza
per i pazienti e per i medici. Due studi ben disegnati, uno in Europa
e uno in Nord America, furono condotti in pazienti che avevano già i
sintomi della stenosi della carotide (ictus minori o sintomi di ictus
transitori) per confrontare la chirurgia con il migliore trattamento
disponibile non chirurgico. Molte migliaia di pazienti presero parte a
questi studi di lunga durata. I risultati, pubblicati negli anni ’90,
mostrarono che la chirurgia poteva ridurre il rischio di ictus o morte,
ma che i benefici dipendevano dal grado di stenosi della carotide. I
pazienti con restringimenti relativamente minori, a conti fatti, erano
danneggiati dalla chirurgia che poteva causare essa stessa degli ictus.
Queste importanti scoperte ebbero dirette implicazioni per la pratica
clinica.70, 71
   Un altro esempio rilevante di buona ricerca riguarda le donne gra-
vide. In tutto il mondo, 600 mila donne muoiono ogni anno per le
complicanze della gravidanza. La maggior parte di queste morti
avviene nei Paesi in via di sviluppo e molte sono associate alle crisi
convulsive dovute ad una complicazione della gravidanza, nota come
eclampsia. Questa è una malattia devastante che può uccidere sia la
mamma sia il bambino. Le donne con la condizione predisponente –
pre-eclampsia (conosciuta anche come tossiemia) – presentano iper-
tensione e presenza di proteine nelle urine.
   Nel 1995, la ricerca mostrò che le iniezioni di magnesio solfato, un
farmaco semplice e poco costoso, potevano prevenire questi attacchi
nelle donne affette eclampsia (vedi Capitolo 6). Lo stesso studio
mostrò che il magnesio solfato era più efficace, rispetto ai farmaci
standard anticonvulsivanti standard, nel fermare le convulsioni. Così,
i ricercatori si resero conto che sarebbe stato importante scoprire se il
magnesio solfato sarebbe stato in grado di prevenire le convulsioni in
donne con pre-eclampsia. Lo studio Magpie, disegnato per risponde-
re a questa domanda, fu un importante successo, che coinvolse più di
10.000 donne gravide con pre-eclampsia in 33 nazioni in tutto il
mondo. Oltre all’assistenza standard, metà delle donne ricevette
un’iniezione di magnesio solfato e metà un placebo (un farmaco iner-
La ricerca clinica: la buona, la cattiva e l’inutile                                      79

te). Lo studio, con risultati chiari e convincenti, mostrò che il magne-
sio solfato riduceva di più della metà il rischio di convulsioni. Inoltre,
benché il trattamento non sembrasse ridurre il rischio di morire del
bambino, vi erano prove che potesse ridurre il rischio di morte della
madre. E, a parte alcuni lievi effetti collaterali, questo farmaco non
sembrava danneggiare né la madre, né il bambino.72, 73
   I risultati di studi ben condotti stanno facendo una reale differenza
per le vite dei bambini infettati dallo HIV (virus da immunodeficien-
za acquisita), la causa dell’AIDS. Nel mondo ogni giorno muoiono
più di 1.000 bambini per le malattie legate ad HIV e AIDS. Le infe-
zioni batteriche, come la polmonite, insieme al debole sistema immu-
nitario di questi bambini, sono una causa comune di morte. Il cotri-
mossazolo è un antibiotico di basso costo, ampiamente disponibile,
che è stato usato per molti anni nella cura di bambini e adulti con
infezioni polmonari non legate all’AIDS. Studi in adulti affetti da
HIV hanno mostrato che il farmaco riduceva anche altre complican-
ze da infezioni batteriche.74
   Quando i dati preliminari suggerirono che le infezioni in bambini
con HIV potevano essere ridotte, un gruppo di ricercatori britannici
collaborò con i colleghi in Zambia per sperimentare, in uno studio di
ampie dimensioni da condurre in quel paese, l’efficacia preventiva
del cotrimossazolo. Lo studio cominciato nel 2001 e durato circa due
anni, confrontò l’antibiotico con un placebo in più di 500 bambini. I
risultati furono presto chiari: il farmaco riduceva del 43% le morti
legate all’AIDS e i ricoveri del 23%. A quel punto un comitato indi-
pendente, che monitorava i risultati dello studio, ne raccomandò

  LA MIA ESPERIENZA DI MAGPIE

  Sono stata molto contenta di far parte di questo studio. A 32 settimane ho comin-
  ciato a sviluppare edemi che sono diventati sempre più importanti, finché non mi
  è stata diagnosticata la pre-eclampsia e a 38 settimane sono stata ricoverata. Il mio
  bambino è nato con un taglio cesareo e sono grata che entrambi siamo completa-
  mente guariti. La pre-eclampsia è una malattia spaventosa e spero vivamente che
  i risultati dello studio possano essere utili a donne come me.

                                               Calir Giles, partecipante allo studio Magpie
                        MRC News Release. Magnesium sulphate halves risk of eclampsia
                    and can save lives of pregnant women. Londra: MRC, 31 Maggio 2002
80                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


l’interruzione. Il primo risultato fu che il governo dello Zambia deci-
se di dare a tutti i bambini coinvolti nello studio il cotrimossazolo.
Una conseguenza importante fu che l’Organizzazione Mondiale
della Sanità e l’UNICEF cambiarono prontamente le loro raccoman-
dazioni sui farmaci efficaci per i bambini con HIV.75, 76


LA CATTIVA RICERCA

   Purtroppo la ricerca non sempre è ben condotta o affronta temi
realmente rilevanti. Consideriamo l’esempio di una seria e problema-
tica malattia come la discinesia tardiva. Si tratta di una conseguenza
grave dovuta all’uso prolungato di farmaci neurolettici (antipsicotici)
prescritti per problemi psichiatrici e in particolare per la schizofrenia.
I segni più caratteristici delle discinesia tardiva sono i movimenti
involontari e ripetitivi della bocca e della faccia come smorfie del
viso, schiocco delle labbra, protrusione frequente della lingua, corru-
gamento e gonfiamento delle guance. Ogni tanto tutto ciò è accom-
pagnato da movimenti involontari delle mani e dei piedi. Un pazien-
te su cinque, che assuma per più di tre mesi questi farmaci, presenta
questi effetti collaterali.
   Negli anni ’90, un gruppo di ricercatori si mise alla ricerca siste-
matica di quali trattamenti fossero stati usati per la discinesia tardi-
va nei precedenti 30 anni. Nel 1996 essi scrissero di essere rimasti
piuttosto sorpresi nell’aver identificato più di 500 studi randomizza-
ti e controllati su 90 diverse terapie farmacologiche. Nessuno di
questi studi aveva tuttavia prodotto risultati utili. Alcuni di essi ave-
vano incluso un numero troppo piccolo di pazienti per poter dare
risultati utili; in altri il trattamento era stato così breve da essere
insignificante.77
   Lo stesso gruppo di ricerca pubblicò una revisione completa sui
contenuti e sulla qualità degli studi controllati sul trattamento gene-
rale della schizofrenia. Analizzarono 2.000 studi e restarono sconcer-
tati. Negli anni i farmaci hanno certamente migliorato le prospettive
delle persone con schizofrenia per alcuni aspetti. Ad esempio, alcuni
pazienti possono ora vivere a casa o in comunità. Ma negli anni ’90
(e ancora oggi) la maggior parte degli studi sui farmaci è stata con-
dotta su pazienti ospedalizzati, rendendo quindi incerta la trasferibi-
lità dei risultati ai pazienti trattati ambulatorialmente. Ma più di tutto
La ricerca clinica: la buona, la cattiva e l’inutile                                      81

risultò sorprendente l’incongruenza tra i criteri di valutazione degli
esiti dei trattamenti. I ricercatori scoprirono che erano stati sperimen-
tati più di 600 trattamenti – principalmente farmaci, ma anche la psi-
coterapia – e che erano state usate 640 diverse scale per valutare i
risultati, di cui 369 usate in un solo studio e mai replicate in altri. Ciò
rese di fatto impossibile confrontare i risultati degli studi fra loro, che
non furono interpretabili né dai medici, né dai pazienti. Fra i molti
problemi identificati i ricercatori si accorsero che molti studi erano
troppo piccoli o di durata troppo breve per fornire risultati utili.
Inoltre, i nuovi farmaci venivano spesso confrontati con farmaci già
noti per i loro effetti collaterali – una valutazione ovviamente scorret-
ta. Gli autori di questa revisione conclusero che mezzo secolo di studi
di limitata qualità, durata e utilità clinica avevano sottratto spazio a
studi ben disegnati, condotti in modo appropriato e descritti a regola
d’arte.78
   L’importanza di valutare gli esiti rilevanti per i pazienti è chiara-
mente illustrata – nei suoi aspetti più negativi – dai primi studi sul-
l’analgesia epidurale somministrata alle donne per il dolore durante
il parto. Negli anni ’90 alcuni ricercatori fecero una revisione degli
studi controllati dell’analgesia epidurale rispetto a quella non-epidu-
rale. Stimarono che, nonostante a milioni di donne fosse stata offer-
ta l’analgesia epidurale nei precedenti 20 anni, tra queste meno di
600 avevano partecipato a confronti ben condotti con altre forme di
controllo del dolore. Essi identificarono nove studi che potevano
essere analizzati in modo affidabile. Gli esiti venivano generalmen-
te misurati attraverso il livello di ormoni e di altre sostanze che
riflettevano il grado di stress durante il travaglio. Venivano talvolta
valutati anche gli esiti nel neonato. La misurazione della percezione

  ESSERE MEGLIO INFORMATI

  Anche nel caso in cui non ci siano prove affidabili dell’efficacia degli interventi
  o queste ci siano ma solo di bassa qualità è importante evitare uno scetticismo
  eccessivo. Proprio le revisioni sistematiche ci aiutano a mettere in luce quali
  prove di elevata qualità esistono o meno, così i clinici, i ricercatori, i decisori sani-
  tari e i pazienti quantomeno saranno informati meglio.

                          Soares K, McGrath J, Adams C. Evidence and tardive dyskinesia.
                                                              Lancet 1996; 347; 1696-7
82                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


del dolore riferito dalle donne stesse era presente solo in due studi.
In altri termini, chi aveva condotto gli studi aveva sicuramente tra-
lasciato un esito di primaria importanza – se le donne provassero
meno dolore o no.79
   Nel Capitolo 3 abbiamo spiegato come presentare i risultati della
ricerca in maniera selettiva possa condurre ad errori gravi. Alcuni
studi ‘negativi’ vengono completamente occultati quando i risultati
non rispondono alle aspettative degli sperimentatori o dei finanziato-
ri. Senza una documentazione pubblicata che ne tenga traccia questi
studi scompaiono. Un altro problema riguarda il riferire in maniera
selettiva i risultati nell’ambito degli studi pubblicati – ossia, alcuni
dei risultati vengono esclusi in quanto non supportano le interpreta-
zioni dei ricercatori o dei finanziatori dello studio sull’effetto del trat-
tamento testato. Questo è imperdonabile. Ma perché errori di questo
tipo sono così importanti?
   Nel 2004, un gruppo di ricercatori pubblicò la prima valutazione
completa di questo tipo di errore sistematico di pubblicazione.80
Analizzarono più di 100 studi randomizzati, dei quali poterono otte-
nere copia del protocollo dello studio e di ogni sua variazione.
Poterono così conoscere quali esiti i ricercatori avevano programma-
to di valutare. Vennero esaminate le pubblicazioni di quegli stessi
studi e vennero confrontate con quanto prima scoperto. Trovarono
descrizioni incomplete per metà degli esiti positivi del trattamento e
per i due terzi di quelli negativi.
   Continuarono nella ricerca, spedendo un questionario ai ricercato-
ri coinvolti in ogni singolo studio, per indagare sugli esiti che non
erano stati descritti: solo meno della metà di essi rispose. All’inizio,
la maggior parte di questi negò l’esistenza di dati raccolti ma non
pubblicati, anche se c’erano prove incontrovertibili della loro presen-
za all’inizio della ricerca – essendo citati nel protocollo e alcune volte
anche nella sezione dei metodi degli stessi articoli pubblicati. Per eli-
minare questa cattiva “abitudine” i ricercatori proposero la registra-
zione di tutti gli studi e di tutti i protocolli, in modo che potessero
essere resi pubblicamente disponibili per eventuali analisi.
La ricerca clinica: la buona, la cattiva e l’inutile                                        83


  LE IMPLICAZIONI DELLA CATTIVA RICERCA

  L’errore sistematico dovuto alla parziale soppressione dei risultati (outcome
  reporting bias) agisce in modo sinergico con la mancata pubblicazione di interi
  studi e ha conseguenze molto ampie. Aumenta la frequenza di risultati spuri e
  falsa quindi anche i risultati delle revisioni della letteratura che finiranno inevita-
  bilmente anche per sovrastimare gli effetti degli interventi. La situazione peggio-
  re per i pazienti, operatori e amministratori si verifica quando, in conseguenza di
  ciò, vengono utilizzati e sostenuti interventi non efficaci o dannosi, oppure quan-
  do terapie costose, considerate migliori di quelle meno costose, non sono in real-
  tà tali.

                        Chan A-W, Hróbjartsson A, Haahr MT, Gøtzsche PC, Altman DG.
                 Empirical evidence for selective reporting of outcomes in randomized trials:
                                              comparison of protocols to published articles.
                         Journal of the American Medical Association 2005; 291: 2457-65




LA RICERCA INUTILE

   Un certo tipo di ricerca si colloca a metà strada fra quella buona e
quella cattiva, ed è quella chiaramente inutile. Un esempio di questo
tipo di ricerca riguarda i bambini prematuri. Quando i bambini nasco-
no prematuri i loro polmoni possono non essere adeguatamente svilup-
pati, con il rischio di complicanze potenzialmente letali come la sin-
drome da distress respiratorio. Fin dall’inizio degli anni ’80 erano
disponibili prove schiaccianti che la somministrazione di un farmaco
steroide a donne gravide a rischio di parto prematuro riducesse la fre-
quenza della sindrome e della morte conseguente nei neonati. Negli
anni successivi sono stati condotti altri studi che continuavano a con-
frontare gli steroidi con il placebo o con il non trattamento. Se i risul-
tati dei primi studi fossero stati analizzati in modo sistematico e com-
binati utilizzando la metanalisi (vedi Capitolo 3), difficilmente sareb-
bero stati intrapresi molti degli studi successivi. Le prove nel loro
insieme avrebbero semplicemente mostrato che gli studi non erano
necessari.
   Nel Capitolo 1 abbiamo citato un altro esempio di ricerca non
necessaria, ancora una volta perché i risultati dei precedenti studi
non erano stati ripresi e analizzati. Il trattamento in questione era la
84                                         COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


nimodipina, sperimentata in pazienti colpiti da ictus, per ridurre
l’estensione del danno cerebrale. I risultati degli esperimenti sugli
animali non erano mai stati rivisti sistematicamente e analizzati in
modo appropriato. Quando lo furono, diventarono evidenti i proble-
mi legati alla mancanza di randomizzazione e alla valutazione non
in cieco degli esiti. Gli ‘incoraggianti’ risultati derivanti dagli studi
sugli animali, che indussero a condurre studi sui pazienti colpiti da
ictus, si dimostrarono assolutamente non adeguati.81
   Un altro esempio di ricerca inutile riguarda i pazienti sottoposti a
chirurgia intestinale. Nel 1969 venne condotto uno studio per vedere
se gli antibiotici, confrontati con il placebo (farmaco inerte), riduce-
vano il rischio di morte dopo l’intervento. Lo studio era di piccole
dimensioni ed i risultati non giungevano a conclusioni definitive. Fu
quindi appropriato, negli anni ’70 condurre altri studi per ridurre l’in-
certezza. Con l’accumularsi delle prove, divenne chiaro da metà anni
’70 che gli antibiotici riducevano la mortalità post-chirurgica.
Nonostante ciò, anche negli anni ’80, sempre per rispondere alla stes-
sa domanda, altri studi continuarono ad essere approvati dai comitati
etici ed essere condotti dai ricercatori. Come risultato, a metà dei
pazienti coinvolti in questi successivi studi fu negato un trattamento
già noto per essere in grado di ridurre la mortalità dopo l’intervento.
Come è potuto succedere? La spiegazione più probabile è che i ricer-
catori che hanno condotto gli studi successivi non avessero passato in
rassegna in modo sistematico le prove sin lì accumulate o non aves-
sero presentato i risultati della nuova ricerca nel contesto di una revi-
sione aggiornata delle prove rilevanti. Chiaramente, i comitati etici
non avevano richiesto ai ricercatori di documentarsi sull’effettivo
stato di sviluppo delle conoscenze prima dell’approvazione degli
studi. In altre parole, né i ricercatori, né i comitati etici avevano
messo al primo posto l’interesse dei pazienti.82


  MESSAGGI CHIAVE

  • La ricerca inutile è uno spreco di tempo, lavoro, denaro e di altre risorse
  • Nuove ricerche dovrebbero essere iniziate solo se revisioni aggiornate di
    precedenti ricerche indicano che esse sono necessarie
  • I dati ottenuti dalle nuove ricerche dovrebbero essere usati per aggiornare i
    risultati di cui si era già in possesso.
6• MENO      RICERCA, METODOLOGIE
                    RIGOROSE E QUESITI RILEVANTI




   Un editoriale del British Medical Journal, alcuni anni fa, riportava
un titolo clamoroso: ‘Lo scandalo della ricerca medica di cattiva qua-
lità.’83 L’autore chiedeva meno ricerca, di migliore qualità e fatta per
le giuste ragioni. Nei capitoli iniziali abbiamo descritto i motivi di
tanta preoccupazione.


MENO RICERCA

   Per molte organizzazioni che supportano la ricerca biomedica e per
tanti ricercatori che se ne occupano, lo scopo dichiarato è chiaro: con-
tribuire alla conoscenza per migliorare la salute delle persone. Ma in
che modo molte delle milioni di ricerche pubblicate ogni anno contri-
buiscono realmente ed utilmente a questa giusta causa?
   Alcuni ricercatori di Bristol decisero di porre una questione fonda-
mentale: ‘Fino a che punto le domande significative per i pazienti

  UNA MONTAGNA DI INFORMAZIONI

  Ogni anno nella letteratura biomedica vengono pubblicati più di due milioni di
  articoli in più di 20.000 riviste – letteralmente una piccola montagna di informa-
  zioni … se accatastati (gli articoli) arriverebbero a 500 metri di altezza.

                                             Mulrow CD. Rationale for systematic reviews
       In: Chalmers I, Altman CD, a cura di. Systematic reviews. Londra: BMJ Books, 1995
86                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


affetti da osteoartrosi del ginocchio, e di cui anche i clinici si occupa-
no, sono tenute in considerazione quando si pianifica la ricerca su
questa malattia?’84 Essi cominciarono con il formare quattro focus
group – costituiti rispettivamente da pazienti, reumatologi, fisiotera-
pisti e medici di medicina generale. Questi gruppi furono unanimi nel
dire chiaramente che non volevano più nessuno studio sponsorizzato
da industrie farmaceutiche, confrontando nuovi farmaci anti-infiam-
matori non steroidei (il gruppo di farmaci che comprende, ad esem-
pio, l’ibuprofene) con un placebo (farmaco inerte). Al posto degli
studi sui farmaci, i partecipanti ai focus group volevano valutazioni
rigorose dell’efficacia della fisioterapia e della terapia chirurgica,
delle strategie educative e di adattamento che potrebbero aiutare i
pazienti a gestire con maggior successo questa malattia cronica, disa-
bilitante e molto dolorosa. Ovviamente, questo genere di trattamenti
e di assistenza sono meno interessanti da un punto di vista commer-
ciale rispetto ai farmaci e per questo vengono molto spesso ignorati.
   Quante altre aree della ricerca nel campo terapeutico, se valutate in
questo modo, rivelerebbero un’incoerenza tra le domande sugli effet-
ti dei trattamenti che interessano i pazienti ed i clinici e quelle cui cer-
cano di trovare risposta i ricercatori? Altri esempi85, 86, 87 ci inducono
a sospettare che quest’incoerenza sia la prassi, piuttosto che l’ecce-
zione. I piccoli cambiamenti nella formulazione dei farmaci raramen-
te producono medicinali sostanzialmente innovativi, o di maggior
efficacia, eppure questo tipo di studi domina la ricerca nel trattamen-
to dell’artrite e di altre malattie. Che spreco di risorse!
   Chiaramente questa situazione è insoddisfacente, ma come si è
potuta via via affermare? Una spiegazione potrebbe essere che gli studi
condotti dai ricercatori vengono distorti da fattori esterni.88 L’industria
farmaceutica, ad esempio, fa ricerca per rispondere principalmente ai
propri azionisti e non in primo luogo per soddisfare i pazienti o i clini-
ci. Gli affari sono pilotati dai grandi mercati – come quello delle donne
che si interrogano sull’uso della terapia ormonale sostitutiva o quello
delle persone depresse, ansiose o sofferenti. Solo raramente, negli ulti-
mi decenni, questo approccio orientato al business ha portato a nuovi
trattamenti, perfino per malattie del ‘mercato di massa’. Piuttosto,
all’interno di specifici gruppi di farmaci, l’industria ha prodotto molti
composti assai simili fra loro – i cosiddetti farmaci ‘me-too’. Questo
ricorda i giorni in cui l’unico pane disponibile nei supermercati era
costituito da infinite variazioni di pane bianco in cassetta a fette.
Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti                                87

   Quindi non c’è da sorprendersi che l’industria farmaceutica spen-
da di più nel marketing che in ricerca.
   Ma in quale modo l’industria convince i prescrittori ad usare questi
nuovi prodotti piuttosto che quelli già esistenti, che sono alternative
meno costose? Una strategia comune è quella di commissionare nume-
rosi piccoli progetti di ricerca che valutano se i nuovi farmaci siano
meglio che non fare nessun trattamento, mentre ci si guarda bene dal
fare ricerche per capire se i nuovi farmaci siano migliori di quelli già
esistenti. È triste dover constatare come l’industria abbia poche diffi-
coltà a trovare medici disponibili ad arruolare i propri pazienti in que-
ste imprese infruttuose. Gli stessi medici spesso finiscono con il pro-
muovere i prodotti studiati in questo modo.89 Le autorità responsabili
della registrazione dei farmaci spesso ci mettono del loro a peggiorare
le cose, sostenendo che i nuovi farmaci dovrebbero essere confrontati
con il placebo piuttosto che con trattamenti efficaci già esistenti.
   I commenti su riviste mediche prestigiose, come The Lancet90,
hanno appuntato l’attenzione sugli incentivi perversi che attualmente

  L’IMPATTO DEI FARMACI ‘ME-TOO’ IN CANADA

  In British Columbia la maggior parte dell’incremento (80%) della spesa farma-
  ceutica, fra il 1996 e il 2003, è spiegato dall’uso di nuovi farmaci brevettati che
  non offrono sostanziali miglioramenti rispetto alle alternative meno costose, già
  disponibili prima del 1990. L’aumento della spesa dovuta all’uso di questi farma-
  ci me-too, che hanno prezzi superiori ai farmaci concorrenti già sperimentati nel
  passato, meriterebbe una valutazione molto rigorosa. Approcci nella definizione
  dei prezzi dei farmaci come quello adottato in Nuova Zelanda potrebbero permet-
  tere dei risparmi utilizzabili per altri bisogni sanitari. Ad esempio, si sarebbero
  potuti risparmiare 350 milioni di dollari (il 26% del totale della spesa dei farma-
  ci prescrivibili), se la metà dei farmaci me-too consumati nel 2003 avesse avuto
  un prezzo competitivo rispetto ai vecchi farmaci alternativi. Questi risparmi
  potrebbero servire a pagare gli stipendi a più di mille nuovi medici.
  Dato che la lista dei primi 20 farmaci nelle vendite a livello mondiale include
  nuove versioni brevettate in categorie già da tempo note … i farmaci me-too pro-
  babilmente sono responsabili degli andamenti della spesa nella maggior parte
  delle nazioni sviluppate.

                          Morgan SG, Bassett KL, Wright JM, et al. ’Breakthrough’ drugs
                             and growth in expenditure on prescription drugs in Canada.
                                              British Medical Journal 2005; 331: 815-6
88                                 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


guidano alcuni dei soggetti coinvolti nella ricerca clinica e sui sem-
pre più numerosi rapporti poco trasparenti tra l’università e l’indu-
stria. Una editorialista sul New England Journal of Medicine91 si
chiese schiettamente: ‘La medicina accademica è in vendita?’.
   Tuttavia, nel mondo della ricerca biomedica le priorità commercia-
li non sono le uniche influenze perverse che allontanano l’attenzione
dagli interessi prioritari dei pazienti. Molti, nelle università e nelle
organizzazioni che finanziano la ricerca, ritengono che i miglioramen-
ti nella salute giungeranno dai tentativi di chiarire i meccanismi di
base della medicina. Così continuano a fare ricerca nei laboratori e
sugli animali. Sebbene la ricerca di base sia indubbiamente necessaria,
ci sono poche prove a sostegno dell’importanza che le viene acritica-
mente attribuita92, 93 La conseguenza è stata una proliferazione massic-
cia di ricerche di laboratorio, che non sono state valutate in modo
appropriato per verificare quanto fossero rilevanti per i pazienti.
   Una ragione di questa distorsione è la campagna promozionale
sorta intorno ai miglioramenti clinici che la ricerca di base potrebbe
offrire. Per esempio, cinquant’anni dopo la scoperta della struttura
del DNA è ancora assordante il clamore delle notizie sui potenziali
benefici che potrebbero derivarne per l’assistenza sanitaria.
   Come ha osservato un genetista, ‘per vent’anni i genetisti hanno
fatto un sacco di promesse sui risultati che avrebbero potuto ottene-
re. Pochi sono stati raggiunti e alcuni non lo saranno mai.’94 Se si
vuole essere onesti bisogna riconoscere che non esistono scorciatoie
credibili rispetto alla necessità di ricerche ben disegnate sui pazienti
se si vogliono sperimentare le ipotesi terapeutiche derivate dalla
ricerca di base. E, troppo spesso, a queste teorie non fa seguito la
verifica della loro rilevanza per i pazienti. Più di dieci anni dopo che
i ricercatori avevano identificato il difetto genetico alla base della
fibrosi cistica, le persone affette da questa malattia si stanno ancora
chiedendo quando vedranno le ricadute positive di questa scoperta
sulla loro salute (vedi Capitolo 2).


UNA RICERCA MIGLIORE

   Anche quando la ricerca potrebbe sembrare rilevante per i malati,
i ricercatori sembrano trascurare le preoccupazioni dei pazienti, se si
guarda al modo in cui disegnano i loro studi. Non si può non citare a
Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti                                  89


  RISCHIOSI, AMBIGUI E INGANNEVOLI?

  In uno spiritoso articolo per l’edizione natalizia del British Medical Journal, due
  ricercatori hanno creato un’azienda di imbrogli chiamata HARLOT SpA (ndt: in
  italiano letteralmente: “Meretrice SpA”) per fornire una serie di servizi ai finan-
  ziatori degli studi clinici. Per esempio.

     ‘Possiamo garantire buoni risultati alle aziende produttrici di rischiosi far-
     maci e dispositivi medici che stanno cercando di aumentare le quote di mer-
     cato, alle associazioni di operatori sanitari che vogliono aumentare la
     domanda per i loro inutili servizi diagnostici e terapeutici e ai dipartimenti
     sanitari locali e nazionali che stanno cercando di implementare politiche
     per la salute irrazionali e autoreferenziali … per ingannevoli farmaci “me
     too” … [il nostro gruppo del E-Zee-Me-Too Protocol] può garantirvi un
     risultato positivo [purché il vostro farmaco non sia troppo peggiore rispet-
     to ad un sorso di tripla acqua distillata].’

     Con grande stupore, gli autori ricevettero alcune domande apparentemente
     serie sul meraviglioso portafoglio della HARLOT SpA.

                                Sackett DL, Oxman AD. HARLOT plc: an amalgamation
                                                   of the world’s two oldest professions.
                                             British Medical Journal 2003; 327: 1442-5



questo proposito uno studio nel quale ad alcuni specialisti nella cura
del cancro dei polmoni fu chiesto di mettersi al posto dei pazienti e
di considerare se avrebbero acconsentito a partecipare ad uno dei sei
studi su tale malattia per cui potevano essere eleggibili come pazien-
ti. Tra il 36 e l’89 per cento di loro disse che non avrebbe partecipa-
to – presumibilmente perché non pensava che le domande, cui si
voleva rispondere nelle ricerche fossero abbastanza importanti.95
    In modo simile, negli studi clinici sulla psoriasi – una malattia
della pelle cronica e disabilitante, che colpisce circa 2 persone su
cento in Gran Bretagna – gli interessi dei pazienti sono stati scarsa-
mente rappresentati. La Psoriasis Association notò che, in molti
studi, i ricercatori, per valutare gli effetti dei diversi trattamenti,
continuavano ad usare un sistema di valutazione ampiamente scre-
ditato. Uno dei difetti di questo sistema era di concentrarsi su misu-
re quali l’area totale della pelle malata e lo spessore delle lesioni,
mentre i pazienti, non sorprendentemente, erano più preoccupati
90                                             COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


dalle lesioni sulla faccia, sul palmo delle mani, sulle piante dei piedi
e sui genitali.96
   Ma ci sono segni di un miglioramento di questo stato di cose a
distanza di quasi vent’anni dall’editoriale del British Medical Journal
che aveva denunciato la cattiva qualità di molta ricerca biomedica?
Fortunatamente sì. Stimolati dai tanti studi sui limiti qualitativi di
molti studi clinici, sono stati sviluppati e applicati criteri per la
descrizione degli stessi (vedi Capitolo 3). Questi criteri rendono
esplicito, ad esempio, l’esatto numero di pazienti invitati a partecipa-
re allo studio, il numero di quelli che hanno declinato l’invito e i
risultati, rispetto ai vari gruppi di trattamento, così come definiti
all’inizio dello studio. Ma c’è ancora molta strada da fare per miglio-
rare: (a) scegliendo con attenzione le domande a cui dare una rispo-
sta con la ricerca; (b) definendo il modo in cui le domande sono for-
mulate per assicurare che vengano effettivamente valutati quegli esiti
clinici ritenuti importanti dai malati e (c) che le informazioni siano
rese disponibili ai pazienti.
   Solo molto tardi alcuni ricercatori hanno cominciato a capire l’im-
portanza di lavorare con i malati, i familiari e il pubblico, per valoriz-
zare la loro esperienza sulla malattia e sull’assistenza. Gli esperti in
scienze sociali sono sempre più spesso parte integrante dei gruppi di
ricerca che valutano i trattamenti. Sono stati così sviluppati metodi
formali per esplorare questi aspetti delle malattie e sono state intro-
dotte nuove forme di integrazione di queste prove con gli approcci

  I PAZIENTI CON PSORIASI SONO MAL SERVITI DALLA RICERCA

  Pochi studi hanno confrontato diverse opzioni o hanno guardato ai risultati del
  trattamento di lungo termine. La durata degli studi è, in modo non convincente,
  troppo breve per una malattia cronica che potenzialmente dura tutta la vita. Quello
  che ci sembra di sapere in modo attendibile è soltanto che le nostre cure sono un
  po’ meglio del non far nulla. È chiaro che i ricercatori hanno totalmente ignorato
  l’esperienza dei pazienti, i loro punti di vista, le preferenze o i motivi di soddisfa-
  zione.


                                    Jobling R. Therapeutic research into psoriasis: patients’
                                                    perspectives, priorities and interests. In:
                    Rawlins M, Littlejohns P, a cura di. Delivering quality in the NHS 2005
                                            Abingdon: Radcliffe Publishing Ltd, pp. 53-56
Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti                     91

tradizionali. Se i pazienti sono invitati a partecipare ad uno studio cli-
nico dove le domande sono state definite in collaborazione con i
ricercatori essi saranno più disponibili a sacrificarsi al fine di contri-
buire alla riduzione dell’incertezza.97, 98, 99, 100, 101, 102 Per esplorare la
fattibilità e accettabilità di un nuovo studio potrebbe essere utile con-
durre studi preliminari con gruppi di pazienti. Queste ricerche potreb-
bero far luce sui problemi dei disegni di studio, aiutare a definire
quali sono gli esiti più rilevanti e perfino suggerire che l’idea non
debba avere un seguito. Questo potrebbe far risparmiare molto
tempo, denaro e delusioni. Alcune interessanti lezioni ci sono date dal
lavoro di preparazione condotto per uno studio clinico che coinvolge-
va uomini affetti da cancro localizzato della prostata (vedi Capitolo
7). Gli studi preliminari avevano rivelato come il disegno della ricer-
ca potesse essere migliorato attraverso un’attenta considerazione dei
termini utilizzati dai clinici per descrivere lo scopo dello studio e le
opzioni di trattamento. Quando il cancro non ha ancora superato la
stessa ghiandola prostatica, l’incertezza principale riguarda se sia
preferibile monitorare in modo regolare il paziente o suggerirgli la
terapia chirurgica o la radioterapia. Sappiamo che molti uomini
anziani deceduti a causa di malattie cardiache, ictus o altre cause ave-
vano tumori localizzati della prostata che non avevano mai creato
loro problemi di salute. Già nella fase preparatoria di questi studi è
emerso che i clinici avevano difficoltà a discutere le incertezze sul-
l’utilità del trattamento in assenza di sintomi. In modo simile, dallo
studio è emerso che essi avevano anche difficoltà nel descrivere le
opzioni di trattamento in modo imparziale.
   I clinici usano inconsapevolmente parole che vengono mal inter-
pretate dai pazienti. Per esempio, quando descrivono il braccio dello
studio sottoposto solo a monitoraggio spesso usano la frase ‘vigile
attesa’. I pazienti tendono a interpretare questo come un ‘non tratta-
mento’, come se i medici ‘guardassero mentre io muoio’. Di conse-
guenza, i ricercatori sostituirono questo termine con ‘monitoraggio
attivo’, con una descrizione accurata del tipo di assistenza che loro
offrono al paziente in questo contesto. Inoltre, per paura che questo
braccio dello studio potesse risultare impopolare, i clinici ne parlava-
no per ultimo. E, involontariamente, creavano disagio suggerendo
che c’erano buone probabilità di sopravvivenza oltre i 10 anni.
Quello che dicevano era: ‘la maggior parte degli uomini con il cancro
alla prostata sarà vivo 10 anni più tardi’. Ma questo veniva interpre-
92                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


tato, in modo più negativo, come ‘tra 10 anni non pochi non ci saran-
no più’ piuttosto che ‘la maggior parte degli uomini con cancro alla
prostata vive a lungo anche con la malattia’.
   Quindi è importante saggiare preliminarmente come certi messag-
gi vengono percepiti dai pazienti invece di pensare che i ricercatori
sappiano già tutto. Questo porta a disegnare modalità di confronto
delle opzioni di trattamento accettabili e attuabili. Uno studio accet-
tabile permette di reclutare i pazienti in un minor tempo, identifican-
do gli effetti negativi e positivi del trattamento in modo più rapido per
i malati e per coloro che li curano.


LA RICERCA PER LE GIUSTE RAGIONI

   Dato che a far la parte del leone nel finanziamento della ricerca bio-
medica sono gli studi di laboratorio e sugli animali, attualmente c’è
crisi nel finanziamento delle ricerche che sono invece mirate a produr-
re informazioni più immediatamente applicabili ai pazienti.103, 104
   Di conseguenza, l’industria farmaceutica vuole avere un ruolo
nella decisione su quali domande sugli effetti dei trattamenti dovran-
no essere studiate. Gli accademici, e le istituzioni in cui lavorano,
troppo spesso prendono parte a studi che rispondono a domande lega-
te all’agenda dell’industria, visto che questa può garantire molto
denaro per ogni paziente reclutato. Talvolta questi ‘generosi paga-
menti’ sono usati per sostenere i fondi istituzionali, ma non infre-
quentemente ne beneficiano finanziariamente i singoli medici.
   Alcuni degli altri sistemi premianti all’interno delle università por-
tano alla conduzione di ricerche fatte per motivi sbagliati. Così come
notò l’ex editor del New England Journal of Medicine: ‘studi clinici
di ampie dimensioni, condotti da più istituzioni, forniscono meno
opportunità per essere autori della ricerca rispetto a quelli individua-
li o di piccoli gruppi’.105
   La paternità dei risultati delle ricerche ha un alto valore nelle uni-
versità essendo una condizione per la carriera accademica, una misu-
ra del successo istituzionale e un motivo di continuità nei finanzia-
menti. Come risultato, i ricercatori e le istituzioni in cui lavorano
guardano ai progetti di ricerca multicentrici e collaborativi, spesso
pubblicati con il nome del gruppo, come ad una minaccia al ricono-
scimento e alla gloria individuale. Così, si continuano a fare studi
Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti                 93

gestiti da singoli ricercatori e piccoli gruppi; tali ricerche non sono
sufficientemente ampie per dare risultati attendibili che risultino
importanti per i pazienti.
   In Gran Bretagna il sistema di finanziamento dell’università da
parte del governo incoraggia proprio questa tendenza, rinforzando
così un sistema che serve gli interessi accademici piuttosto che quel-
li dei pazienti. Un esperto neurologo, che ha fatto molto per aiutare i
pazienti colpiti da ictus, ha tristemente sottolineato: ‘attribuire la
paternità di una ricerca ai gruppi collaborativi, fatto necessario per
riconoscere il contributo delle molte persone coinvolte, impedisce di
rendere noto il reale contributo del singolo alla ideazione, disegno e
conduzione dello studio clinico randomizzato. Un mio superiore
all’università mi punì per non essere stato citato abbastanza; ma da
competitivo manager-scienziato della ricerca di base qual era, egli
non aveva idea del mio ruolo nello studio, perso come ero nell’insie-
me del gruppo di lavoro’.106
   La consapevolezza di queste distorsioni nell’agenda della ricerca
ci pone interrogativi inquietanti non solo sulla ricerca che è stata fatta
e pubblicata, ma anche su quella che non è mai stata condotta. Il
‘costo-opportunità’ di questa tendenza è chiaro: molte domande sul-
l’effetto dei trattamenti tesi a migliorare la salute non trovano rispo-
sta solo perché esse non presentano interessi né per l’industria, né per
le università.
   Ad esempio, per circa un secolo, è stato controverso il modo in cui
controllare le convulsioni nelle donne colpite da eclampsia – una
complicazione potenzialmente mortale della gravidanza (vedi
Capitolo 5) di cui si stima muoiano circa 50.000 donne ogni anno.
Non ci sono interessi commerciali in gioco in questo problema, per
due ragioni: (a) molte delle donne che muoiono per questa malattia
vivono in Paesi in via di sviluppo, e (b) una delle terapie – il magne-
sio solfato, già utilizzato nei sali di Epsom – non è appetibile per fini
commerciali. Ci sono pochi interessi del mondo accademico in que-
sta controversia, perché potrebbe essere risolta in modo soddisfacen-
te soltanto con uno studio ampio, internazionale e multicentrico – e
questo vorrebbe dire che l’identità individuale di ogni ricercatore e
istituzione non sarebbe più in primo piano nella appropriata suddivi-
sione dei meriti per il lavoro svolto.
   Uno studio che metteva a confronto diversi farmaci per il controllo
delle convulsioni nella pre-eclampsia fu alla fine finanziato nel 1990
94                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


con fondi pubblici dalla UK Overseas Development Administration e
dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Questo studio mostrò che
il farmaco meno caro era sostanzialmente il più efficace rispetto a tutte
le alternative più costose.107 La relazione finale dello studio contiene
un commento eloquente: ‘Dal primo suggerimento (nel 1906) per
l’utilizzo del magnesio solfato per le donne affette da eclampsia,
all’introduzione del diazepam (nel 1968), è possibile che 33 milioni di
donne abbiano avuto un episodio di convulsione dovuto all’eclampsia
e che 3 milioni di loro siano morte. Fino al 1987, quando è stata intro-
dotta la fenitoina, è possibile che altre 9 milioni di donne abbiano
avuto un episodio convulsivo e che un milione di esse siano morte.’
Chiaramente il prezzo pagato per una distorta definizione delle priori-
tà della ricerca può davvero essere molto elevato.
    Alcune volte le revisioni sistematiche degli studi esistenti aiutano
a mettere in luce quanto poco si sa sugli effetti dei trattamenti già
ampiamente utilizzati e che presentano un modesto interesse com-
merciale o accademico. Una revisione di questo tipo ha analizzato se
gli steroidi, somministrati a persone affette da danno cerebrale in
seguito ad un trauma fisico, aumentavano o diminuivano la speranza
di sopravvivenza dei malati.

  IL MAGNESIO PER LA PREVENZIONE E IL TRATTAMENTO DELL’ECLAMPSIA

  Sette anni fa, uno studio che a detta di un commentatore è il più importante stu-
  dio randomizzato del 20° secolo condotto in campo ostetrico mostrò che, dei tre
  approcci comunemente utilizzati per controllare le convulsioni nell’eclampsia, il
  magnesio solfato era il più efficace. Il Collaborative Eclampsia Trial costituì una
  pietra miliare sotto molti punti di vista: la partecipazione allo studio di 1.687
  donne e dei loro familiari in 27 ospedali in 9 nazioni in via di sviluppo fu mag-
  giore della partecipazione a tutti i piccoli studi, malamente controllati, condotti
  nei precedenti 50 anni in quei paesi in cui si verifica soltanto l’1% di tutti i casi
  di eclampsia a livello mondiale. La pubblicazione finale dello studio ebbe effetti
  molto importanti nella pratica clinica in Gran Bretagna, uno dei paesi in cui il
  magnesio solfato non è mai stato molto utilizzato dagli ostetrici. Lo studio è un
  buon esempio di come la collaborazione tra paesi in via di sviluppo e paesi svi-
  luppati possa portare ad un miglioramento della pratica clinica.


                   Sheth S, Chalmers I. Magnesium for preventing and treating eclampsia:
                                  time for international action. Lancet 2002; 359: 1872-3
Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti                 95

   La revisione, una volta terminata, non fece chiarezza sulla direzio-
ne dei risultati.108 Non aver risolto questa incertezza durante le deci-
ne di anni in cui il trattamento è stato usato in centinaia di migliaia di
persone ha avuto dei notevoli costi umani. Quando finalmente fu con-
dotto, il necessario studio internazionale collaborativo sugli steroidi
rivelò che il trattamento aveva probabilmente ucciso migliaia di
pazienti con danno cerebrale.109 Questo studio incontrò forti resisten-
ze da parte di alcuni ricercatori universitari e dell’industria. Perché?
Essi erano stati coinvolti in studi commerciali per valutare l’effetto di
nuovi e costosi farmaci – i cosiddetti agenti neuroprotettori – con
misure di esito di discutibile importanza per i pazienti e non voleva-
no affrontare una competizione per i partecipanti agli studi clinici.
   Questo esempio illustra la cruciale importanza di affrontare
domande che non interessino l’industria o le università: non farlo
può far danno ai pazienti. Attualmente in Gran Bretagna il finanzia-
mento per la ricerca indipendente dall’industria è inadeguato.
Questo è stato riconosciuto dalla Commissione Speciale per la
Salute (Select Committee on Health) della Camera dei Comuni110 e
ha avuto come riflesso la creazione del Clinical Research
Collaboration britannico (www.ukcrc.org), di nuove strategie nel-
l’ambito del Medical Research Council,111 del NHS Research and
Development Programme,112 e di alcune fondazioni a sostegno della
ricerca medica. Rimane da vedere come questi nuovi progetti rispon-
deranno alle domande irrisolte dei pazienti e dei medici sugli effetti
del trattamento.

   In Italia, la promozione della ricerca indipendente rappresenta uno
dei compiti e degli obiettivi strategici che sono stati attribuiti alla
Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). È stato infatti istituito un fondo
alimentato dal contributo pari al 5% delle spese promozionali soste-
nute ogni anno dalle aziende farmaceutiche. Una quota parte di que-
ste risorse deve essere destinata alla realizzazione di ricerche sul-
l’uso dei farmaci ed in particolare di sperimentazioni cliniche che
mettano a confronto l’efficacia e la sicurezza di medicinali differenti.
Il Programma di Ricerca Indipendente sul Farmaco dell’AIFA mira a
sostenere quegli studi in grado di fornire risposte utili ai medici ed ai
pazienti in quelle aree nelle quali esiste ancora incertezza sul profilo
beneficio/rischio degli interventi farmacologici e dove non esiste un
interesse ad investire da parte dell’industria farmaceutica.
96                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   Nei primi due anni di attività (2005 e 2006), i bandi dell’AIFA hanno
permesso di avviare studi nel campo delle malattie rare, del confron-
to diretto tra specifici trattamenti in patologie comuni (oncologia, car-
diovascolare, ecc.) e in aree terapeutiche tradizionalmente trascura-
te dalla ricerca commerciale (area pediatrica e neonatologica,
pazienti anziani, pazienti non classificabili nelle comuni patologie in
area di salute mentale, neurologia, ecc.).
   L’AIFA è l’unica, tra le agenzie regolatorie europee, che si assume
la responsabilità non solo di regolare e controllare il mercato del far-
maco a tutela dei cittadini, ma anche di contribuire a chiarire l’incer-
tezza che esiste in molte aree grigie della medicina.
   Il Programma di Ricerca Indipendente sul Farmaco adotta un
sistema di valutazione molto rigoroso e in linea con i meccanismi di
valutazione scientifica internazionale e prevede anche – nell’immi-
nenza dell’emanazione dei bandi annuali di ricerca – una fase di con-
sultazione della comunità scientifica e del SSN. Tutti coloro che
vogliano farlo possono contribuire con idee e proposte utilizzando un
apposito spazio aperto al pubblico sul sito AIFA. Si tratta di un primo
importante passo verso una maggiore trasparenza nella definizione
della ricerca che rappresenta un tema ancora molto trascurato nel
nostro Paese (nota del Curatore dell’edizione italiana).

   Un’altra ragione per affrontare questi problemi irrisolti è quella di
assicurarsi che non vengano sprecate le preziose risorse disponibili
per l’assistenza sanitaria. Ad esempio, l’albumina umana in soluzio-
ne, somministrata per via endovenosa, fu introdotta nel 1940 come
terapia d’urgenza negli ustionati e in altri pazienti critici. La teoria
suggeriva che l’albumina avrebbe dovuto ridurre il rischio di morte.
Sorprendentemente, essa non venne sottoposta ad indagini accurate
fino agli anni ’90. A quel punto, una revisione sistematica degli studi
controllati avrebbe potuto dimostrare che non c’erano prove che l’al-
bumina umana in soluzione riducesse il rischio di morte. Quello che
la revisione mostrò, nella realtà, era che se l’albumina aveva qualche
effetto sul rischio di morte, questo era di aumentarlo.113
   I risultati di questa revisione indussero i medici in Australia e in
Nuova Zelanda ad associarsi per condurre il primo studio accurato e
sufficientemente ampio fra la soluzione di albumina umana e la solu-
zione salina (acqua salata), un’alternativa usata in rianimazione.114
Questo studio – che avrebbe dovuto essere condotto almeno mezzo
Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti                              97

secolo prima – potrebbe non trovare prove che l’albumina sia
migliore di una semplice soluzione fisiologica. Poiché l’albumina è
venti volte più costosa rispetto alla soluzione fisiologica, una quan-
tità enorme di risorse per l’assistenza sanitaria in tutto il mondo
potrebbe essere stata sprecata negli ultimi 50 anni.




  MESSAGGI CHIAVE

  • Molta ricerca è scadente e viene condotta per motivi sbagliati
  • L’industria e le università hanno importanti responsabilità nella distorsione
    dell’agenda della ricerca
  • Spesso non vengono affrontate domande di grande importanza per i pazienti.
Come sapere se una cura funziona"
7• MIGLIORARE        QUALITÀ E RILEVANZA
                     DELLE SPERIMENTAZIONI CLINICHE
                     È INTERESSE DI TUTTI




   Nel capitolo precedente abbiamo visto quanto tempo, fatica e
denaro possono andare sprecati a causa della ricerca inutile o di cat-
tiva qualità sugli effetti dei trattamenti – ricerca che non risponde, e
mai lo farà, a domande di interesse per i pazienti. Abbiamo anche evi-
denziato alcuni dei problemi che possono impedire un costante pro-
gresso nell’individuazione delle reali incertezze che affliggono la
messa a punto di terapie sempre più efficaci.
   Nel Capitolo 1 abbiamo descritto come alcuni nuovi trattamenti
hanno avuto inaspettati effetti dannosi, mentre gli effetti sperati di
altri non si sono realizzati, mentre nel Capitolo 2 abbiamo messo in
luce il fatto che molti trattamenti e test di screening usati comune-
mente non sono stati adeguatamente valutati. Nel Capitolo 3 abbia-

  DIRADARE LA NEBBIA DELL’INCERTEZZA

  Solo quando le persone comprenderanno finalmente quante poche siano le cono-
  scenze affidabili, avranno la motivazione per essere coinvolte in modo attivo nella
  determinazione delle priorità dell’agenda della ricerca. Alla fine, il miglioramen-
  to delle cure cliniche e degli esiti giungerà dalla conduzione del giusto tipo di
  ricerca, ricerca che è importante nel mondo reale, come richiesto nella recente-
  mente costituita James Lind Alliance. Chiarire le incertezze e informarne i pazien-
  ti è la strategia chiave per migliorare l’assistenza sanitaria e diradare la nebbia
  dalla pratica della medicina.

                Djulbegovic B. Lifting the fog of uncertainty from the practice of medicine
                                               British Medical Journal 2004; 329: 1419-20
100                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


mo descritto le basi per sperimentare correttamente i trattamenti,
enfatizzando l’importanza del porre attenzione a ridurre i potenzia-
li errori sistematici e di tenere in considerazione il ruolo del caso.
Nel Capitolo 4 abbiamo descritto alcune delle numerose incertezze
che pervadono quasi ogni aspetto dell’assistenza sanitaria e nel
Capitolo 5 sono state discusse le differenze chiave tra la ricerca
buona, quella cattiva e quella inutile nell’ambito degli effetti dei
trattamenti. Nel Capitolo 6 abbiamo rimarcato quanta della ricerca
che viene condotta sia distorta da interessi commerciali e accademi-
ci e manchi di affrontare argomenti che farebbero probabilmente
una reale differenza per il benessere dei cittadini. Speriamo di aver-
vi convinto che la miglior sperimentazione clinica nel futuro
dovrebbe venire programmata attraverso collaborazioni fra ricerca-
tori e malati.
   Cosa possono fare i pazienti per migliorare la ricerca – sia nella
fase di identificazione delle domande sia in quella di realizzazio-
ne vera e propria degli studi? Nel Capitolo 6 abbiamo descritto come
alcuni ricercatori di Bristol, lavorando con focus group di pazienti,
reumatologi, fisioterapisti e medici di medicina generale, hanno iden-

  LA SCELTA DEI PAZIENTI: DAVIDE E GOLIA

  Chi ha il potere di valutare se i quesiti della ricerca si concentrano sui più impor-
  tanti bisogni dei pazienti, in tutta la loro sofferenza e complessità? Perché le
  domande più rilevanti non vengono poste? Chi oggi decide quali siano le doman-
  de da affrontare? Chi lo dovrebbe fare? Chi deve definire le priorità? Sono i
  pazienti ad avere le migliori capacità di identificare gli argomenti di salute per
  loro più rilevanti e di far conoscere ciò che pensano del loro benessere, dell’assi-
  stenza, della qualità e della durata della vita. I pazienti rappresentano Davide e
  devono combattere sia contro i Golia dell’industria farmaceutica, cui servono
  prove per i prodotti destinati al mercato e per fare profitti, sia contro i ricercatori
  che sono spinti dalla curiosità, dalla necessità di assicurarsi dei finanziamenti per
  la ricerca, dai riconoscimenti professionali e dagli avanzamenti di carriera. Il pro-
  fitto, l’indagine scientifica, i soldi dei finanziamenti e le pubblicazioni delle ricer-
  che sono accettabili solo se lo scopo ultimo è il bene dei pazienti. I pazienti e le
  organizzazioni indipendenti che sostengono la ricerca di buona qualità dovrebbe-
  ro preparare la loro fionda, scegliere con cura la pietra, prendere bene la mira e
  vincere.

                      Refractor. Patients’ choice: David and Goliath. Lancet 2001; 358: 768
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                101

tificato le discrepanze tra la ricerca che è stata condotta nell’osteoar-
trite del ginocchio e che cosa era richiesto dai malati e dalle persone
che li curavano. I clinici e i pazienti erano chiaramente stanchi della
ricerca sui farmaci. Piuttosto desideravano una valutazione di altri
interventi: fisioterapia e chirurgia; strategie di formazione e adatta-
mento.115 Lo studio di Bristol ha mostrato come una discussione faci-
litata fra gruppi di pazienti e operatori sanitari possa rivelare le loro
priorità e quali incertezze sugli effetti dei trattamenti siano per loro
più importanti e debbano essere affrontate.
   Ma la voce dei pazienti e dell’opinione pubblica conta realmente
nella conduzione della ricerca in sanità? Fortunatamente, il mondo
della medicina che in passato era chiuso ora sta aprendo le sue porte
per far entrare nuove idee e soggetti prima esclusi. Il paternalismo è
in continua diminuzione. C’è un crescente sostegno all’idea del coin-
volgimento dei pazienti come partner nei processi di ricerca. Si stan-
no accumulando prove attraverso ricerche,116 revisioni sistematiche
di studi117 e da singoli studi118 che il convolgimento dei pazienti e del
pubblico può contribuire a migliorare la sperimentazione clinica. Le
esperienze dei malati possono far crescere il confronto e aumentare la
consapevolezza. La loro esperienza diretta può dare un prezioso con-
tributo sul modo in cui le persone reagiscono alle malattie e come
questo influisca sulle scelte dei trattamenti.
   Il ruolo del malato sta evolvendo119 per favorire lo sviluppo di
metodologie diverse che permettano ai pazienti e ai cittadini di lavo-
rare con gli operatori sanitari, al fine di migliorare la valutazione
degli interventi sanitari. Questo riguarda potenzialmente tutte le fasi
della ricerca:
   • la formulazione delle domande da affrontare
   • il disegno degli studi, inclusa la scelta degli esiti clinici che
     sono importanti
   • la gestione dei progetti
   • lo sviluppo di strumenti per l’informazione dei pazienti
   • l’analisi e interpretazione dei risultati e la loro disseminazione
     e implementazione.

   Come si è giunti a questo? Nel Capitolo 2 abbiamo mostrato, ad
esempio, come gli eccessi dei trattamenti imposti in passato alle
donne sofferenti di cancro della mammella portarono a mettere in
discussione consolidate pratiche assistenziali ed a cambiamenti, otte-
102                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




  CHI SCEGLIE?

  In termini di coinvolgimento nel prendere decisioni (‘chi sceglie’), i pazienti pre-
  feriscono una situazione nella quale loro contribuiscano, ma non siano lasciati
  come unici responsabili delle decisioni da prendere (modello condiviso). La situa-
  zione meno gradita si verifica quando i medici decidono da soli (modello pater-
  nalistico).

                                                       Thornton H, Edwards A, Elwyn G.
                          Evolving the multiple roles of ‘patients’ in health-care research:
                        Reflections after involvement in a trial of shared decision-making.
                                                     Health Expectations 2003; 6: 189-97



nuti grazie ad una nuova generazione di ricercatori clinici e alle
pazienti. Medici e malate collaborarono per assicurare che le prove
della ricerca rispondessero sia a rigorosi standard scientifici sia alle
necessità delle donne. Quando le donne hanno messo in discussione
la pratica della mastectomia radicale hanno voluto segnalare che
erano preoccupate di qualcosa di più della sola eradicazione della
malattia: loro chiedevano un’informazione sulla strategia impiegata
per convivere con la malattia.
   Oggi, ci si sta allontanando dal modello dei clinici che impongono
ai pazienti di subire trattamenti e partecipare passivamente a ricerche.
Non è più accettabile che si misuri il ‘successo’ attraverso l’aderenza
incondizionata dei malati al trattamento prescritto. Un modo miglio-
re per erogare delle terapie, che i pazienti ritengono importanti e rile-
vanti per la loro cura, è incoraggiare una partecipazione condivisa
nell’assunzione di decisioni, nell’assumere i farmaci e nello speri-
mentare gli interventi di altro tipo.


I PAZIENTI HANNO BISOGNO DI INFORMAZIONI

   I pazienti che collaborano all’assistenza devono poter accedere a
informazioni comprensibili e di buona qualità – sia nell’ambito di
una relazione faccia a faccia durante una visita, sia quando debbano
decidere se partecipare ad uno studio, sia quando entrino a far parte
di gruppi di ricerca. Se ciò non avviene, le prospettive di un dialogo
costruttivo e di un reale coinvolgimento del paziente sono scarse.
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                  103

    I pazienti si lamentano sistematicamente della mancanza di infor-
mazioni. Sebbene alcuni preferiscano non avere notizie dettagliate
sulla loro malattia e sulle opzioni terapeutiche, e lasciano queste cose
completamente nelle mani di chi li ha presi in carico, molti desidere-
rebbero saperne di più. In particolare molti pazienti vorrebbero sape-
re e comprendere come il trattamento al quale si stanno sottoponen-
do influirà sulla loro persona. Chiarezza e trasparenza sono essenzia-
li. Hanno bisogno di garanzie sul fatto che tutti sappiano quali speri-
mentazioni sono in corso; che i risultati, sia positivi sia negativi,
siano pubblicati; che siano disponibili revisioni sistematiche di tutti
gli studi rilevanti e che siano tenute aggiornate; e che gli eventi
avversi non vengano tenuti nascosti. Chiaramente i pazienti vogliono
che i ricercatori sappiano tutto ciò che è già stato fatto prima di
imbarcarsi in una nuova ricerca: come abbiamo sottolineato nei capi-
toli iniziali, i pazienti sono stati penalizzati quando i ricercatori non
si sono preoccupati di conoscere e valutare che cosa era stato fatto in
precedenza.
    Uno dei primi esempi di sostegno e coinvolgimento diretto dei
pazienti in uno studio valutativo riguarda l’introduzione del prelievo
dei villi coriali negli anni ’80. Il prelievo dei villi coriali è un modo
di far diagnosi di anomalie fetali nelle fasi iniziali della gravidanza,
prima di quanto sia possibile fare con l’amniocentesi. Nonostante la
possibilità che la nuova tecnica potesse aumentare il numero di abor-
ti rispetto all’amniocentesi, si è cominciato a praticarla nelle donne
ad alto rischio (1 ogni 4) di avere un feto con una grave malattia del
sangue ereditaria. Per queste donne e le loro famiglie, la volontà di
evitare di mettere al mondo un bambino che avrebbe sofferto e sareb-
be morto precocemente era più forte del rischio potenziale che la
nuova tecnica potesse provocare l’aborto di un feto normale.
    Tuttavia, il bilancio fra benefici e rischi era molto diverso per altre
donne che avevano, ad esempio, probabilità inferiori di avere un feto
malato – comprese ad esempio fra 1 ogni 50 e 1 ogni 200. Per loro era
importante sapere se il test più invasivo – il prelievo dei villi coriali –
aumentasse davvero il rischio di aborto o di qualche altro problema
rispetto all’amniocentesi. Di conseguenza, il Medical Research
Council avviò uno studio internazionale per affrontare questi quesiti.
Questa iniziativa fu ampiamente supportata dalla stampa. In Gran
Bretagna, ad esempio, molti giornalisti plaudirono al disegno della
ricerca ed enfatizzarono l’importanza di una valutazione accurata
104                                         COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




  UN VIAGGIO NELL’INCERTEZZA

  Ad un medico ricercatore, fu detto che alcuni dei risultati degli esami del sangue,
  cui si era sottoposto in seguito ad un episodio di mal di schiena, non erano perfet-
  tamente chiari e che c’era qualcosa di cui preoccuparsi. Negli anni successivi,
  divenne chiara la diagnosi di un tipo di tumore del sangue (mieloma). Ecco le sue
  riflessioni alla luce delle incertezze di fronte alle quali si è trovato:

      ‘Cosa ho imparato? Anzitutto che nelle vesti di paziente ho avuto conferma
      delle idee per le quali ho combattuto durante la mia carriera professionale.
      I risultati della ricerca dovrebbero essere facilmente accessibili alle perso-
      ne che ne hanno bisogno per decidere della loro salute. Il ritardo nella valu-
      tazione congiunta dei quattro studi randomizzati che dovevano valutare
      l’utilità del doppio trapianto autologo di midollo (una terapia a cui ho deci-
      so di sottopormi) mi sembra un esempio calzante. Perché sono stato costret-
      to a prendere la mia decisione sapendo che quest’informazione c’era da
      qualche parte, ma non era disponibile? Il ritardo era dovuto al fatto che i
      risultati erano meno interessanti del previsto? O perché nel campo, in con-
      tinua evoluzione, della ricerca sul mieloma ci sono nuove teorie (o farma-
      ci) cui interessarsi? Per quanto ancora potremo tollerare questo comporta-
      mento dei ricercatori, che volano sul fiore successivo ben prima di aver
      finito di ricavare tutto ciò che è disponibile in quello precedente?
      Sfortunatamente, questo è possibile in un mondo dove la ricerca clinica è
      ormai dominata da interessi commerciali. Come paziente, ti meravigli di
      come i (noi) ricercatori dimentichiamo in fretta il principio secondo cui la
      priorità dovrebbe essere la collaborazione per formulare ipotesi migliori e
      non la competizione.’

                                      Liberati A. An unfinished trip through uncertainties.
                                                   British Medical Journal 2004; 328: 531



prima di decidere se nuove tecniche mediche dovessero essere adot-
tate più diffusamente.
   Un esempio di consiglio irresponsabile venne peraltro offerto da
un clinico in una lettera al quotidiano The Guardian, secondo cui le
donne avrebbero dovuto immediatamente chiedere la nuova, e inade-
guatamente sperimentata, procedura. Questo provocò una severa
risposta della coordinatrice della Maternity Alliance, un’organizza-
zione che coordina diverse associazioni di donne e di pazienti. Essa
difese con forza la necessità che lo studio venisse condotto e che vi
fosse un’ampia partecipazione.
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                                    105


  SUPPORTARE LA NECESSITÀ DI UNO STUDIO

  Le donne hanno da tempo compreso che l’efficacia e la sicurezza di nuove tecni-
  che, come l’ecografia, dovrebbero essere valutate prima di essere offerte nella
  pratica di routine alle donne incinte. Bisogna complimentarsi con il Medical
  Research Council per aver dato vita ad uno studio controllato e randomizzato per
  valutare i vantaggi e gli svantaggi della tecnica in termini di perdita fetale, effet-
  ti collaterali per la mamma ed effetti a breve e lungo termine per il feto.

                                    Maternity Alliance Co-ordinator, citato in Chalmers I.
                 Minimising harm and maximising benefit during innovation in healthcare:
                      controlled or uncontrolled experimentation? Birth 1986; 13: 155-64



   In quella che, probabilmente per quel periodo, fu una spinta senza
precedenti alla promozione di uno studio randomizzato, un gruppo di
pressione laico, l’Association for Improvement in the Maternity
Services, coordinò un incontro tra organizzazioni di volontari e di
gruppi di pazienti per incoraggiarli a fornire un pubblico supporto
alle proposte del Medical Research Council. Alcuni rappresentanti di
questi gruppi prepararono un opuscolo informativo per i potenziali
partecipanti allo studio, che esplicitava come sette organizzazioni
laiche avessero formalmente e pubblicamente appoggiato la ricerca.
È importante sottolineare che questi gruppi concordarono che la
nuova tecnica venisse offerta solo a donne partecipanti allo studio, a
meno che non avessero già concepito un bambino affetto da danni
genetici.120
   I primi gruppi di donne attive nel campo del tumore della mammel-
la si resero conto che avrebbero dovuto cambiare la situazione esi-
stente e che per farlo avevano bisogno di informazioni accurate. Per
prima cosa, cominciarono a formare se stesse, così da essere più effi-
caci. Poi cominciarono a educare gli altri. Ad esempio negli anni ’70,
Rose Kushner, una scrittrice statunitense e paziente affetta da cancro
alla mammella, sfidò la tradizionale relazione autoritaria
medico/paziente e la necessità della chirurgia radicale.121 Scrisse un
libro basato sulla sua minuziosa revisione della letteratura sugli effet-
ti della mastectomia radicale. Alla fine del decennio, la sua influenza
e reputazione erano tali che venne chiamata a collaborare con il
National Cancer Institute degli Stati Uniti alla valutazione delle pro-
poste di nuove ricerche.122
106                                              COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




  PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI UNO STUDIO DI AMPIE DIMENSIONI
  PER CONFRONTARE I DUE TEST?

  È importante poter fornire, a persone come te, accurate informazioni sui rischi e
  benefici di ogni test e per ottenere questo obiettivo, abbiamo bisogno di confron-
  tare i due test in modo che i risultati non siano influenzati da fattori diversi.
  L’unico modo per essere sicuri di raggiungere il risultato, è di chiedere a metà di
  voi pazienti di ricevere un test e all’altra metà l’altro, lasciando al caso la decisio-
  ne di chi sarà sottoposto a quale test.

      ‘A prima vista, molte persone trovano un po’ strana l’idea di lasciare una
      decisione così importante al caso: ma in realtà è il modo più scientifico, per-
      ché esclude la possibilità di errori sistematici che potrebbero derivare da
      altri tipi di giudizio. La verità è che, a questo punto, nessuno di noi sa quale
      sia il test migliore e ciascuno di essi presenta vantaggi e svantaggi. Gli argo-
      menti a favore e contro ciascun test sembrano bilanciati equamente. Se tu,
      e altri come te, siete d’accordo ad aiutarci, avremo presto molte più infor-
      mazioni su questi test. Molti ospedali sono coinvolti in questo studio in
      modo da individuare il più rapidamente possibile quale sia il test migliore.’

      Dall’opuscolo informativo per le pazienti, sviluppato dalle organizzazioni delle pazienti
                           per lo studio promosso dal MRC, che confrontava l’amniocentesi
                                                                con il prelievo dei villi coriali



   In Gran Bretagna, l’infelice esperienza di diagnosi di cancro alla
mammella indusse Betty Westgate negli anni ’70 a dar vita alla
Mastectomy Association. Questa fu l’antesignana della Breast
Cancer Care, che è ora una fiorente organizzazione con ramificazio-
ni in Inghilterra, Scozia e Galles.123, 124 La Breast Cancer Care aiuta
migliaia di donne a trovare informazioni e sostegno. Un’altra pazien-
te affetta da cancro, Vicky Clement-Jones, ha creato CancerBACUP,
una fondazione nazionale che mette a disposizione non soltanto atti-
vità di counselling e supporto psicosociale alle pazienti, ma anche
informazioni di buona qualità sui trattamenti e sulla ricerca. Ad oggi,
CancerBACUP con le proprie infermiere specializzate offre questo
servizio a circa 50.000 persone ogni anno.
   Le persone affette da HIV/AIDS negli Stati Uniti negli ultimi anni
’80 hanno costituito un esempio di gruppo eccezionalmente ben
informato e organizzato. Si tratta di gruppi politicamente pronti a
difendere i loro interessi contro il sistema, che si sono dimostrati
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                                     107

capaci di aprire la strada alla partecipazione dei pazienti nella scelta
e disegno degli studi. Questo coinvolgimento è stato fondamentale
per incoraggiare la partecipazione agli studi e per disegnare le ricer-
che in modo flessibile e per arrivare a proporre diverse opzioni di
trattamento. Questo esempio è stato seguito in Gran Bretagna, nei
primi anni ’90, quando un gruppo di pazienti affetti da AIDS è stato
coinvolto in studi clinici al Chelsea and Westminster Hospital di
Londra: i pazienti hanno attivamente collaborato al disegno del pro-
tocollo dello studio.125

  AIUTARE A INFLUENZARE LA FUTURA RICERCA

  È essenziale che la ricerca sul cancro tenga conto dei bisogni e degli interessi
  delle persone che cerca di aiutare. Gli specialisti sono normalmente coscienti del
  divario che esiste relativamente alle conoscenze disponibili su diagnosi e terapia.
  I pazienti, le loro famiglie e amici sono tuttavia in grado di identificare altri pro-
  blemi assistenziali che hanno bisogno di ulteriore ricerca.

                       CancerBACUP. Understanding cancer research trials (clinical trials).
                                                          Londra: CancerBACUP 2003




  I “NON ADDETTI AI LAVORI” HANNO CONTRIBUITO A RIPENSARE L’AIDS

  La battaglia per la credibilità nella ricerca sull’AIDS si è combattuta su più fron-
  ti ed ha coinvolto un numero inusualmente ampio di “attori”. E gli interventi di
  non addetti ai lavori nell’affermazione e valutazione dei risultati scientifici ha aiu-
  tato a dare sostanza a cosa si credeva di sapere dell’AIDS – se non altro perché
  ha fatto riflettere molto su cosa volesse dire essere “un esperto” e un “non addet-
  to ai lavori”. In ogni momento c’è in gioco la credibilità di specifiche fonti di
  conoscenza o dei suoi portavoce. Ma a un livello più profondo, sono in gioco i
  meccanismi per la valutazione della credibilità: come sono valutati i risultati
  scientifici e chi prende le decisioni? [Come questo studio mostra,] le discussioni
  all’interno del mondo scientifico sono, allo stesso tempo, discussioni sulla scien-
  za e sul come dovrebbe essere fatta o chi dovrebbe farla.

                  Epstein S. Impure science: AIDS, activism and the politics of knowledge.
                                              Londra: University of California Press, 1996
108                                 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   Gli attivisti dell’AIDS hanno dato una scossa positiva ai ricercato-
ri: ciò che alcuni di essi avevano visto come una rovina, causata da
gruppi di pazienti organizzati, è stata in realtà una sfida legittima
all’interpretazione dell’incertezza che veniva data, unilateralmente,
solo da chi conduceva gli studi. Fino ad allora l’approccio dei ricer-
catori aveva trascurato esiti importanti per i pazienti. D’altra parte, i
malati hanno capito i pericoli che giudizi affrettati sugli effetti di
nuovi farmaci, con le conseguenti richieste di autorizzazione di nuovi
medicinali ‘promettenti’ per l’AIDS, possono determinare in assenza
di un’attenta valutazione. I ricercatori hanno inizialmente obiettato
che l’autorizzazione all’uso ‘compassionevole’ di nuovi farmaci ha
semplicemente prolungato l’agonia dell’incertezza per i pazienti
attuali e futuri. I malati dal canto loro ribattono che questo è invece
servito ad accelerare la comprensione, sia dei pazienti sia dei ricerca-
tori, della necessità di valutazioni controllate, non affrettate, fatte
all’interno di studi disegnati con i pazienti, tenendo in considerazio-
ne le necessità di entrambe le parti.126
   Negli anni ’90, uno studio sull’AIDS fornì un esempio molto chia-
ro dell’importanza del coinvolgimento dei pazienti. A quell’epoca era
stata da poco introdotta la zidovudina per il trattamento dell’AIDS.
Nei pazienti con malattia avanzata c’erano buone prove di un effetto
benefico. L’ovvia domanda successiva era se l’uso della zidovudina,
nelle prime fasi dell’infezione, potesse ritardare la progressione della
malattia e di conseguenza migliorare la sopravvivenza. Furono così
intrapresi degli studi, sia negli Stati Uniti sia in Europa, per sperimen-
tare questa possibilità. Lo studio americano venne interrotto precoce-
mente, quando fu riscontrato un possibile ma ancora incerto, effetto
positivo. Con la partecipazione attiva ed il consenso delle rappresen-
tanze dei pazienti, e nonostante i risultati americani, lo studio euro-
peo continuò fino a raggiungere una conclusione chiara. Il risultato fu
molto diverso: la zidovudina usata nelle fasi precoci dell’infezione
non sembrava offrire alcun vantaggio. In questo caso l’unico effetto
chiaro del farmaco era rappresentato dai suoi inaspettati effetti colla-
terali.127
   Purtroppo, le lezioni tratte dall’esperienza nel campo del HIV/AIDS
non sono state trasferite con lo stesso impatto in nessun altra area con
simili problematiche. Le rare malattie causate da prioni – come la ver-
sione umana della ‘malattia della mucca pazza’ – tendono a colpire
persone giovani, per cui sono spesso rapidamente fatali. I disperati
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                                   109


  RICERCATORI A FAVORE DELLA PARTECIPAZIONE DEI PAZIENTI

  Noi incoraggiamo i pazienti e le loro organizzazioni a partecipare alla pianifica-
  zione degli studi clinici. Questa partecipazione è probabilmente in grado di assi-
  curare un maggior accordo rispetto agli obiettivi e al disegno dello studio e di ren-
  dere consapevoli le persone affette da AIDS dei vantaggi di partecipare agli studi.

          Byar DP, Schoenfeld DA, Green SB, et al. Design considerations for AIDS trials.
                                   New England Journal of Medicine 1990; 323: 1343-8



tentativi dei parenti di accedere a farmaci che potrebbero aiutare i
pazienti affetti da queste malattie rischiano in realtà di ritardare
l’identificazione di terapie più vantaggiose. Il padre di un giovane
con la malattia da prioni aveva appreso attraverso internet che un far-
maco, mai usato prima negli esseri umani per curare queste malattie,
aveva mostrato alcuni effetti positivi in esperimenti su roditori in
Giappone. Dal momento che il farmaco non era approvato per l’uso
nella malattia umana da prioni (deve essere somministrato diretta-
mente all’interno del cervello e può causarne il sanguinamento), il
padre si presentò disperato alla Alta Corte di Giustizia per chiedere
che fosse reso disponibile per il figlio. Il giudice concluse che, seb-
bene l’uso del trattamento ‘non potesse essere ricondotto ad un pro-
getto di ricerca, ci sarebbe stata l’opportunità di imparare, per la
prima volta, i possibili effetti del PPS (pentosano polisolfato) [il far-
maco non autorizzato] sui pazienti con vCJD [in pazienti con la
variante Creutzfeldt Jakob, una delle malattie da prioni]’. Le parole
del giudice rivelavano una preoccupante incapacità di comprensione;
non si rese infatti conto che un esperimento non controllato avrebbe
probabilmente ritardato la scoperta di terapie che avrebbero potuto
essere di aiuto nella malattia da prioni.128 Il magistrato avrebbe potu-
to pronunciare il suo giudizio condizionandolo alla richiesta di attiva-
zione di un rigoroso protocollo di valutazione dell’andamento della
terapia, dei progressi del paziente e di quelli di altri, che in seguito, si
presentarono all’Alta Corte per ottenere una simile ordinanza. Se
avesse seguito questa strada, ora non saremmo ancora così ignoranti
sui possibili effetti di una cura non valutata.
   Ancor più di recente, una paziente, affetta da cancro della mammel-
la in stadio iniziale, sfidò la decisione del Servizio Sanitario Nazionale
110                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


inglese (NHS) di non garantirle il nuovo farmaco Herceptin (trastuzu-
mab). Il Ministro della Salute intervenne e l’NHS dovette cedere.
L’Herceptin sembra dare benefici in alcune pazienti con malattia
avanzata, ma sembra anche causare insufficienza cardiaca. Non è stato
ancora sufficientemente sperimentato nelle fasi iniziali della malattia
e, alla fine, si potrebbe dimostrare che fa più male che bene. È troppo
presto per dire qualcosa di definitivo.129

   In Italia, la registrazione di Herceptin per l’uso sia nella fase avan-
zata sia come terapia adiuvante del tumore della mammella è stata
salutata con grande entusiasmo dalla comunità oncologica; come
accaduto in altri Paesi, sono stati enfatizzati soprattutto i benefici
senza tener conto del tempo di osservazione ancora limitato e della
possibilità che il rischio di cardiotossicità possa nel tempo mettere in
discussione i vantaggi precocemente riscontrati. Anche in questo
caso, all’interno del bando AIFA per la ricerca indipendente (vedi pag.
95) sono stati proposti e finanziati studi che hanno l’obiettivo di verifi-
care se trattamenti con dosaggio e durata inferiore sono in grado di
mantenere lo stesso beneficio riducendo i rischi per la salute delle
pazienti sia con malattia avanzata sia in fase precoce e non ancora
metastatica.
   Anche in questo caso, è difficile pensare l’industria sarebbe stata
interessata a finanziare studi i cui risultati potrebbero veder sensibil-
mente ridotto l’utile derivante dalla vendita del farmaco (nota del
Curatore dell’edizione italiana).


METTERE A REPENTAGLIO LA POSSIBILITÀ DI
CONDURRE VALUTAZIONI ACCURATE DEI TRATTAMENTI

  Coinvolgere i pazienti nella ricerca non è certamente una panacea.
Da uno studio appositamente condotto per meglio conoscere questa
problematica sono emerse esperienze molto positive derivanti dal
coinvolgimento dei pazienti negli studi clinici. Tuttavia sono stati
messi in luce anche alcuni problemi.130 Molti di questi sembravano
nascere dalla comprensibile scarsa dimestichezza dei pazienti su
come la ricerca sia condotta e finanziata.
  Uno degli scopi che volevamo raggiungere scrivendo questo libro è
aumentare la conoscenza dei principi generali della sperimentazione
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                  111

dei trattamenti e delle modalità con cui si ottengono prove attendibili
sui loro effetti. Speriamo, in questo modo, di poter aiutare i pazienti
che desiderano contribuire a migliorare la qualità delle prove. Come
abbiamo sottolineato nel Capitolo 3, è di fondamentale importanza
dare ai pazienti la consapevolezza di come gli errori sistematici e l’ef-
fetto del caso possano essere fuorvianti.
   A volte i pazienti possono compromettere la qualità delle speri-
mentazioni, non avendo compreso e non tenendo in considerazione i
principi metodologici generali che devono guidare la conduzione
della ricerca. Come il padre del ragazzo con la vCJD, circostanze
disperate provocano talvolta sforzi estremi per accedere a cure non
sperimentate in modo adeguato, causando più danni che benefici
anche a pazienti che stanno morendo. Abbiamo già fatto riferimento
al modo in cui i pazienti e i loro rappresentanti fecero pressioni per
l’uso ‘compassionevole’ di nuovi ‘promettenti’ farmaci per l’AIDS e
alle conseguenze che ebbe: un ritardo nell’identificazione di terapie
efficaci capaci di modificare esiti clinici rilevanti per i pazienti.
   E non è l’unico esempio di questo genere. Nella metà degli anni
’90, gli interferoni erano stati introdotti nella cura dei pazienti affetti
da forme recidivanti-remittenti di sclerosi multipla, sulla base di
prove di efficacia molto deboli. Nel 2001, alcuni ricercatori indipen-
denti hanno condotto una revisione sistematica delle prove di effica-
cia derivanti dagli studi clinici controllati su questi farmaci,131 ciascu-
no dei quali era stato organizzato e analizzato dalle industrie produt-
trici. I risultati di questa revisione suggerirono che, benché gli inter-
feroni riducessero un poco la frequenza delle ricadute, non c’erano
prove che incidessero sulla progressione della disabilità, così come
sulla necessità di adottare dispositivi di deambulazione o la sedia a
rotelle.
   Poiché il costo annuale del trattamento di ciascun paziente con
interferone è di più di € 15.000,00, il National Institute for Health
and Clinical Excellence (NICE) – l’organizzazione che valuta il rap-
porto costo-efficacia dei trattamenti per il National Health Service
inglese – concluse che l’uso di questi farmaci, e di un altro chiamato
glatiramer, non avrebbe rappresentato un uso responsabile delle risor-
se limitate disponibili per il servizio pubblico. Molti pazienti con
questa malattia disabilitante, e specialmente le organizzazioni che
agiscono per loro conto, si sentirono oltraggiati. Erano furiosi che il
servizio sanitario nazionale potesse negare dei farmaci che potevano
112                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


fornire qualche speranza ai pazienti. Ma c’è da chiedersi se essi col-
sero pienamente quanto le prove disponibili fossero lontane dall’es-
sere convincenti. Non era facile capire che i risultati dei singoli studi
si basavano su pubblicazioni parziali dei risultati, su misure di esito
di dubbia rilevanza e su una durata degli studi di soli due-tre anni, per
una malattia che generalmente dura invece almeno due decenni.
   Il governo cedette a queste pressioni. Il Ministero della Salute ed i
produttori svilupparono una strategia decennale per fornire il farma-
co. Ma questo ha significato la fine della possibilità di capire se que-
sti farmaci sono utili ai pazienti. Ancor peggio, poiché gli interferoni
sono divenuti il trattamento standard per la malattia, gli studi indipen-
denti mirati a valutare gli approcci alternativi per aiutare i pazienti
hanno raggiunto improvvisamente costi proibitivi. Perché? Perché
medici e pazienti sostengono che non sarebbe etico confrontare le
nuove terapie con il placebo: le nuove terapie devono essere confron-
tati con il costoso interferone.
   Nella sclerosi multipla, dove gli studi sponsorizzati dalle industrie
hanno eliminato quasi tutti i progetti di studio indipendenti, il pro-
gresso nel trattamento della malattia potrebbe essere in realtà stato
impedito – un esito insoddisfacente sotto ogni punto di vista.
   C’è un altro importante aspetto di questa triste vicenda – gli enor-
mi interessi economici hanno impedito una sperimentazione adeguata

  VALUTARE I FARMACI PER LA SCLEROSI MULTIPLA

  1. Il NICE ha annunciato che né l’interferone beta, né il glatiramer possono esse-
  re raccomandati per la sclerosi multipla all’interno del NHS.
  2. Il Ministero della Salute ha pianificato di rendere disponibili questi farmaci
  attraverso uno schema di “condivisione del rischio” che è scientificamente sba-
  gliato e non pratico.
  3. Gli studi randomizzati suggeriscono che l’azatioprina (che è 20 volte meno
  costosa) potrebbe essere altrettanto efficace.
  4. L’efficacia di lungo periodo di questi farmaci non è nota.
  5. I soldi del governo potrebbero essere spesi meglio per finanziare uno studio
  randomizzato di lungo periodo, che confronti l’interferone beta, oppure il glatira-
  mer, con azatioprina e nessun trattamento.


      Sudlow CLM, Counsell CE. Problems with UK government’s risk sharing scheme for
          assessing drugs for multiple sclerosis. British Medical Journal 2003; 326: 388-92
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                                       113

degli interferoni nella sclerosi multipla. Le industrie farmaceutiche
vendono interferoni e alcuni neurologi e altri clinici sono stati pagati
dalle industrie per promuoverli. Non pochi neurologi, poi, usano
costose tecniche di imaging cerebrale per esaminare i pazienti, sulla
base dell’assunto che ciò che vedono in queste immagini sia un modo
valido, e vantaggioso per i pazienti, di monitorare la progressione
della malattia. Questo approccio è stato fortemente promosso dalle
industrie. Nonostante manchino prove sull’utilità di questo tipo di
monitoraggio per la progressione della sclerosi multipla, molti neuro-

  LE FONDAZIONI E LE ASSOCIAZIONI DI PAZIENTI DOVREBBERO
  DICHIARARE I LORO POTENZIALI CONFLITTI DI INTERESSI

  L’industria farmaceutica non effettua donazioni di denaro alle fondazioni per
  ragioni altruistiche. In Europa non è permesso fare pubblicità dei farmaci prescri-
  vibili [direttamente] ai pazienti, ma l’industria sa che i gruppi di pazienti posso-
  no svolgere una forte attività di lobby e hanno il potere di condizionare il gover-
  no e il NHS.
  I pazienti credono nelle loro associazioni e si aspettano che le informazioni pro-
  venienti da esse siano prive di errori e non influenzate dalle fonti che le finanzia-
  no. Le fondazioni dovrebbero dichiarare come potenziale conflitto di interessi i
  finanziamenti che accettano dall’industria. Questo potrebbe permettere ai pazien-
  ti di porsi domande sulla indipendenza loro e delle informazioni che forniscono e
  decidere eventualmente di cercare ulteriori informazioni da altre fonti indipen-
  denti.
  Arthritis Care lanciò una campagna per diffondere la prescrizione di un nuovo
  inibitore delle COX-2 basata su una interpretazione scorretta dei risultati prelimi-
  nari (a 6 mesi di osservazione) di uno studio che doveva essere valutato ad un
  anno di follow-up. Non dichiararono che la campagna informativa era finanziata
  dalle industrie Pharmacia e Pfizer.
  L’Impotence Association fece una campagna per incoraggiare la maggiore pre-
  scrizione di Viagra e anch’essa ricevette finanziamenti dalla Pfizer, il cui logo
  appare anche sul sito web dell’associazione. L’associazione Diabetes UK ricevet-
  te circa un milione di sterline da 11 aziende farmaceutiche produttrici di medici-
  nali antidiabetici, ma tutto ciò non è menzionato nel rapporto annuale.
  Non dichiarare finanziamenti di tale portata induce le persone a diventare sospet-
  tose. Perché non fornire in modo trasparente un quadro vero della realtà? Cosa c’è
  da nascondere?


                              Hirst J. Charities and patient groups should declare interests.
                                                   British Medical Journal 2003; 326: 1211
114                                 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


logi asseriscono che deve essere utilizzato in tutte le sperimentazioni
cliniche che riguardano la cura di questa malattia. Mentre l’industria
può sostenere e scaricare sui suoi clienti gli elevati costi di questi
esami non validati (circa € 3.000 per esame), tali costi sono un ulte-
riore ostacolo posto sul cammino di chi vorrebbe vedere studi con-
dotti indipendentemente dall’industria.
   Un altro conflitto di interessi, meno noto, lo si riscontra nel rappor-
to tra queste associazioni e industria farmaceutica. Molte di queste
associazioni non hanno grandi mezzi a disposizione, sono basate sul
volontariato e hanno pochi finanziamenti indipendenti. I finanzia-
menti che provengono dalle industrie farmaceutiche e dai progetti
sviluppati con esse possono aiutare le associazioni a crescere e ad
essere più influenti, ma possono anche distorcere le priorità dei
pazienti, inclusa quella della ricerca. Ci sono addirittura casi in cui le
organizzazioni dei pazienti sono state create dalle aziende farmaceu-
tiche per spingere i loro prodotti. Una delle industrie produttrici di
interferone, che fu successivamente sanzionata dall’Agenzia britan-
nica per il Controllo dei Medicinali, aveva ad esempio dato vita ad un
nuovo gruppo di pazienti ‘Action for Access’ per spingere affinché
l’NHS fornisse l’interferone per la sclerosi multipla.132, 133 Il messag-
gio percepito dai gruppi di pazienti come risultato di tutta questa
campagna era che gli interferoni erano efficaci ma troppo costosi,
mentre il vero problema era rappresentato dai dubbi sull’efficacia del
farmaco – in una malattia che per un secolo è stata caratterizzata da
false speranze. Anche adesso, quasi 16 anni dopo l’inizio del primo
studio sugli interferoni, non ci sono dati significativi di lungo termi-
ne sull’efficacia delle cure.
   Non soltanto è veramente dubbio che i nuovi farmaci per la sclero-
si multipla sortiscano qualche effetto realmente importante per i
pazienti, ma sembra piuttosto che vi siano effetti collaterali molto
importanti. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration
(l’agenzia che valuta se un farmaco può essere messo in commercio,
ndt) ha approvato il farmaco biologico Tysabri (natalizumab) sulla
base dei dati derivati dopo soli 12 mesi di osservazione. L’impatto di
questa decisione straordinaria ha avuto vita breve: le industrie hanno
ritirato il loro prodotto dal mercato quando sono stati registrati due
casi di una malattia cerebrale mortale molto rara, in un piccolo nume-
ro di pazienti che stavano partecipando ad uno studio su questo far-
maco. Nonostante questa catastrofe sia stata quasi certamente causa-
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                  115

ta dal nuovo farmaco (e avrebbe potuto andare peggio se l’uso fosse
stato più prolungato) i pazienti e i clinici hanno continuato a farne
fortemente richiesta.

    La vicenda dell’interferone in Inghilterra illustra in maniera paradig-
matica l’importanza per un SSN di poter investire con risorse proprie
nella ricerca. In Italia, l’Agenzia italiana del farmaco ha finanziato –
nell’ambito del proprio programma di ricerca indipendente di cui par-
liamo nella nota alla traduzione italiana a pag. 96 – uno studio multi-
centrico nazionale che mette direttamente a confronto l’efficacia del-
l’interferone con quella del conosciuto medicinale azatioprina, un far-
maco immunosoppressivo di cui era già stata dimostrata l’efficacia in
alcuni trial clinici randomizzati condotti negli anni ’80 e successiva-
mente in una revisione sistematica disponibile sulla Cochrane
Library. Attualmente, questo è l’unico studio in corso a livello interna-
zionale che ha l’obbiettivo di valutare se l’interferone beta è davvero
un farmaco utile ed efficace nel trattamento della sclerosi multipla
rispetto a trattamenti già disponibili, che hanno una più solida dimo-
strazione di efficacia e che sono assai meno costosi per il SSN (nota
del Curatore dell’edizione italiana).


I PASSI DA COMPIERE PER MIGLIORARE LA
SPERIMENTAZIONE DELLE TERAPIE

    Nelle pagine precedenti ci siamo concentrati sui problemi che
potevano derivare dal coinvolgimento dei pazienti nella sperimenta-
zione delle cure e su come, involontariamente, essi potessero mette-
re a repentaglio la bontà degli studi. Come accade in molti casi le
buone intenzioni non garantiscono che si faccia più bene che male. Ci
sono chiari esempi dei vantaggi, sia per i ricercatori sia per i pazien-
ti, del lavorare insieme per migliorare la rilevanza ed il disegno degli
studi. Molti ricercatori si mettono attivamente alla ricerca di malati
disponibili a collaborare.
    Un’area appropriata per il lavorare insieme è la ricerca che può
migliorare la condivisione delle decisioni e della comunicazione del
rischio nella pratica della medicina generale. In uno studio che aveva
questo obiettivo i ricercatori ed i pazienti hanno lavorato insieme al
suo sviluppo. Per prima cosa hanno fatto una ricerca bibliografica per
116                                          COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA




  LA COLLABORAZIONE TRA RICERCATORI E PAZIENTI PUÒ FORNIRE RECI-
  PROCO VANTAGGIO

  Lo studio clinico PRISM, finanziato con fondi pubblici, è uno studio multicentri-
  co randomizzato e controllato condotto in Gran Bretagna che confronta diverse
  strategie terapeutiche per il morbo di Paget, una malattia delle ossa. La National
  Association for the Relief of Paget’s Disease (NARPD) è l’unico gruppo di sup-
  porto in Gran Bretagna per coloro che soffrono di questa malattia ed ha lavorato
  a stretto contatto con il gruppo PRISM fin dall’inizio. Il coinvolgimento del
  NARPD è parte integrante della conduzione dello studio e per esso sono previsti
  ruoli specifici: revisione del protocollo; partecipazione al comitato direttivo dello
  studio e promozione dello studio tra i pazienti sofferenti del morbo di Paget.

              Adattato da Langston A, McCallum M, Campbell M, Robertson C, Ralston S
                 An integrated approach to consumer representation and involvement in a
                       multicentre randomized controlled trial. Clinical Trials 2005; 2:80-7




stabilire quali aspetti del rapporto medico-paziente gli operatori sani-
tari ritenessero importanti quando i pazienti si presentano per una
visita. Poi hanno indagato direttamente i punti di vista dei pazienti,
attraverso una serie di focus group che coinvolgevano sia i malati sia
i cittadini. Hanno infine approfondito i diversi approcci decisionali,
la percezione dei pazienti rispetto al loro svolgimento e la disponibi-
lità di informazioni. Sono state utilizzate rigorose metodologie di
ricerca per stabilire cosa accomunasse le informazioni pubblicate dai
clinici e le prorità dei pazienti.
   I pazienti partecipanti ai focus group hanno confermato alcuni degli
esiti identificati dai ricercatori nelle loro pubblicazioni – ad esempio,
cercare attivamente il coinvolgimento dei pazienti e l’accordo fra essi
ed i professionisti. Peraltro, i malati hanno identificato anche altri
aspetti come importanti: come, ad esempio, la percezione di essere
rispettati come attori capaci di fornire un contributo significativo
all’assunzione di decisioni. I pazienti e i cittadini intervistati in questi
focus group hanno anche sottolineato l’importanza di aver accesso a
fonti aggiuntive di informazione e di poter avere il supporto di altre
figure non mediche, come infermieri, altri professionisti (per esempio
psicologi) o volontari e familiari. La continuità delle cure è emersa
come un aspetto fortemente valorizzato insieme con l’esplicitazione
di una sorta di ‘contratto terapeutico’ con al centro la possibilità di
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                                   117


  L’IMPORTANZA DEL COINVOLGIMENTO DEI PAZIENTI
  NELLA PIANIFICAZIONE DELLA RICERCA

  I ricercatori organizzarono una serie di incontri con gruppi di persone anziane per
  pensare al disegno di un nuovo studio nel quale si doveva valutare un nuovo trat-
  tamento per le persone sofferenti di ictus acuto; la criticità posta al centro della
  valutazione era che i pazienti, quando sono colpiti dalla malattia, comprensibil-
  mente non possono riferire il loro punto di vista. La ricerca ha portato a conclu-
  dere che:

     • è importante coinvolgere i pazienti nella pianificazione di uno studio
       sull’ictus
     • i commenti dei soggetti non ancora colpiti dall’ictus, e di coloro che li
       assistono, possono offrire miglioramenti sostanziali nella stesura dei
       materiali informativi sullo studio
     • le persone sostengono diversi approcci al consenso informato in
       relazione alle differenti condizioni cliniche dei pazienti
     • il coinvolgimento dei pazienti potrebbe essere davvero un elemento
       molto importante per lo sviluppo di nuovi studi clinici randomizzati

                                                         Adattato da Koops L, Lindley RI.
           Thrombolysis for acute ischemic stroke: consumer involvement in design of new
                   randomised controlled trials. British Medical Journal 2002; 325: 415-7



rinegoziare le decisioni prese sulle cure da intraprendere. È stata
anche sottolineata la necessità di poter disporre di materiale informa-
tivo ad hoc, come opuscoli ed audiovisivi.134
   In uno studio condotto per capire meglio il valore di una collabo-
razione tra ricercatori e pazienti, iniziata già in una fase preparatoria
di uno studio, i ricercatori hanno esplorato con i malati, veri e poten-
ziali, alcune delle criticità che sorgono nella sperimentazione di tera-
pie utilizzate in situazioni di emergenza. La terapia per l’ictus in fase
acuta, per aver successo, deve essere iniziata il più presto possibile,
immediatamente dopo l’insorgere dell’evento. Dal momento che i
ricercatori non erano sicuri del miglior modo di procedere hanno
chiesto aiuto ai pazienti e a chi li assisteva. Si organizzò così un
incontro con un gruppo di pazienti e di operatori sanitari e venne con-
dotto un focus group coinvolgendo alcune persone anziane. Come
risultato si chiarì cosa era meglio fare ed i pazienti aiutarono i ricer-
catori a redigere e rivedere gli opuscoli informativi dello studio.
118                                  COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   Questa ricerca ha permesso di pianificare uno studio clinico con-
trollato e randomizzato rapidamente approvato dal comitato etico per
la ricerca. I partecipanti al focus group avevano messo a fuoco i
dilemmi etici legati alla necessità di ottenere il consenso informato da
persone colpite da una malattia acuta, che potevano trovarsi in stato
confusionale o anche in stato d’incoscienza. Suggerirono possibili
soluzioni per condurre uno studio con modalità soddisfacenti per
tutte le parti coinvolte e apportarono sostanziali miglioramenti nel
materiale informativo.135
   Nel Capitolo 6 abbiamo descritto l’importanza del lavoro prepara-
torio svolto con i pazienti per uno studio condotto in Gran Bretagna
sul cancro localizzato della prostata. I ricercatori volevano confron-
tare gli effetti del monitoraggio attivo rispetto al trattamento con chi-
rurgia o radioterapia, al fine di ridurre le incertezze legate all’effica-
cia relativa di questi trattamenti. Chiaramente si tratta di modalità di
cura molto diverse tra loro, quindi si poneva il problema di capire
come avrebbero reagito, sia i clinici sia i pazienti, alla possibile scel-
ta di una o dell’altra opzione di trattamento. I ricercatori non ebbero
difficoltà ad identificare le probabili barriere che i clinici avrebbero
dovuto affrontare nel presentare lo studio ai pazienti. Essi ipotizzava-
no che i pazienti avrebbero trovato difficile decidere se accettare o
meno di entrare nello studio, soprattutto in quanto molti avrebbero
potuto non essere d’accordo ad essere randomizzati ad uno dei tre
bracci d’intervento che presentavano rischi molto diversi di compli-
canze.
   Come soluzione, i ricercatori svilupparono una proposta in due
fasi: prima uno studio di fattibilità e poi il successivo utilizzo dei suoi
risultati per la conduzione dello studio principale. I risultati di questa
prima fase mostrarono che lo studio era fattibile e che molti uomini
sarebbero stati d’accordo ad essere reclutati nello studio con tre brac-
ci d’intervento (monitoraggio attivo, chirurgia o radioterapia).136


COME COINVOLGERE IL PUBBLICO E I PAZIENTI?

  Esistono diverse modalità di coinvolgimento di cittadini e malati
nella sperimentazione dell’efficacia dei trattamenti. Come abbiamo
già sottolineato altrove, sono proprio i pazienti che dovrebbero farsi
promotori di studi una volta che avessero capito i limiti delle cono-
Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni                                   119


  UNA GUIDA ALLA BUONA PRATICA PER IL COINVOLGIMENTO
  DEI PAZIENTI NELLA RICERCA

  I ruoli dei pazienti devono essere decisi di comune accordo dai ricercatori e dagli
  stessi pazienti coinvolti nella ricerca.
  I finanziamenti dei ricercatori devono essere appropriati ai costi del coinvolgi-
  mento dei malati nello studio.
  I ricercatori devono rispettare le diverse esperienze, competenze e conoscenze dei
  pazienti.
  Ai malati deve essere offerta la formazione ed il supporto personale necessari per
  migliorare il loro coinvolgimento nella ricerca.
  I ricercatori devono essere in possesso delle competenze necessarie al coinvolgi-
  mento dei pazienti nel processo di ricerca.
  I malati devono essere coinvolti nel decidere le modalità di reclutamento dei par-
  tecipanti e tenuti informati sui progressi della ricerca.
  Il coinvolgimento dei pazienti deve essere previsto e descritto nei risultati dello
  studio.
  I risultati della ricerca devono essere resi disponibili per i malati in formati e lin-
  guaggio tali da poter essere facilmente compresi.

                                             Adattato da Telford R, Boote JD, Cooper CL.
                    What does it mean to involve consumers successfully in NHS research?
                                   A consensus study. Health Expectations 2004; 7:209-20



scenze disponibili e le potenzialità conoscitive che sono offerte da
studi ben disegnati e condotti. I ricercatori dovrebbero sapere come
poter coinvolgere attivamente i pazienti. In particolare sarebbe
opportuno che i ricercatori sapessero in quali fasi è opportuno coin-
volgere i malati e in quali no. A seconda dei casi i pazienti possono
essere utilmente coinvolti nel disegno di uno studio (laddove si tratti
di mettere a fuoco le vere incertezze) o nella disseminazione ed
implementazione dei risultati una volta che questi siano stati ottenu-
ti. Non ci sono ruoli rigidi: quale sia più appropriato dipende dalle
diverse strategie o approcci di un particolare studio. Come illustrato
nella ricerca sul cancro della prostata localizzato e nello studio sulle
strategie decisionali condivise, le metodologie sono in continua evo-
luzione – anche nel corso del progetto stesso.
    Una revisione sistematica sull’effetto del coinvolgimento dei
pazienti nell’identificazione e nella definizione delle priorità dei
possibili argomenti di ricerca è stata pubblicata nel 2004.137 Questo
120                                        COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


lavoro ha documentato che esiste ormai un bagaglio di esperienza
sufficiente nel coinvolgimento dei pazienti tale che si può pensare di
lavorare direttamente o indirettamente con il pubblico. Le organiz-
zazioni che finanziano la ricerca ora richiedono spesso che le richie-
ste di finanziamento chiariscano con quali modalità sono coinvolti i
cittadini ed i pazienti e consigliano i ricercatori su come imparare a
farlo meglio.
   Così, complessivamente, il coinvolgimento dei malati e del pubbli-
co sta diventando una realtà. Non possono più essere ignorati o coin-
volti puramente come gesto di cortesia. Possono partecipare alla
ricerca, fornendo un contributo per migliorare sia la scelta degli argo-
menti delle ricerche, sia la conduzione degli studi stessi. Poiché, tal-
volta, i pazienti possono anche involontariamente danneggiare una
corretta sperimentazione, si deve fare in modo che essi, lavorando
insieme ai ricercatori, permettano di ridurre le incertezze nell’effica-
cia delle cure a vantaggio di tutti.




  MESSAGGI CHIAVE

  • Pazienti e ricercatori, lavorando insieme, costituiscono una potente alleanza per
    ridurre le incertezze sulle cure a vantaggio di tutti.
  • I pazienti possono aiutare a meglio finalizzare la ricerca sugli effetti dei
    trattamenti
  • I suggerimenti dei malati possono portare ad una ricerca migliore di
    migliore qualità
  • Involontariamente i pazienti possono talvolta danneggiare la corretta
    conduzione di una sperimentazione
  • Per contribuire efficacemente, i malati hanno bisogno di migliorare le loro
    conoscenze generali sulla metodologia della ricerca ed avere facile accesso alle
    informazioni.
8• IL     MANIFESTO PER UNA RIVOLUZIONE




   È fuor di dubbio che la ricerca medica ha contribuito al migliora-
mento della qualità e della durata della vita. Nonostante ciò, chi defi-
nisce l’agenda della ricerca – industria ed università – ha fatto pochi
sforzi per identificare le priorità dei pazienti, come già abbiamo illu-
strato in questo libro. Dal momento che la cura della salute sarà sem-
pre inevitabilmente associata ad incertezze più o meno ampie, sareb-
be nell’interesse di ciascuno di noi che ad occuparsene fosse il servi-
zio sanitario pubblico. Come pianificare dunque un progetto rivolu-
zionario in cui diventi un’opportunità affrontare le incertezze della
pratica assistenziale quotidiana e in cui la sperimentazione delle cure
diventi parte integrante di una buona assistenza sanitaria?
   Prima di enunciare il nostro programma per questa rivoluzione,
vogliamo darvi un’idea di ciò che speriamo possa verificarsi ogni
giorno nel futuro della medicina generale.


IL CASO DEL SIGNOR JONES

   Ifor Jones, contadino in pensione nella zona rurale del Galles del
Nord a lungo provato da una profonda stanchezza, decide di sotto-
porsi ad una visita dal suo medico di medicina generale. Ifor, accer-
tatosi che sua figlia potesse accompagnarlo nelle 10 miglia che lo
separano dall’ambulatorio, fissa un appuntamento. La dottoressa
discute con lui i suoi sintomi, lo visita e gli preleva un campione di
sangue che spedisce all’ospedale locale per le analisi. Pochi giorni
dopo gli esiti degli esami mostrano che Ifor ha una forma di anemia
122                                COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


dovuta alla carenza di vitamina B12 (anemia perniciosa, vedi
Capitolo 4). Il medico gli telefona chiedendogli di ritornare per una
visita.
   All’incontro successivo la dottoressa spiega ad Ifor che la forma di
anemia che lo ha colpito, ora confermata dagli esami del sangue,
dovrebbe rispondere molto bene ad iniezioni di vitamina B12, ma lo
informa anche che gli esperti sono in disaccordo sulla frequenza
delle iniezioni cui sottoporsi: alcuni suggeriscono di farlo ogni tre
mesi ed altri più di frequente. Connettendosi alla National Library
for Health, la dottoressa mostra ad Ifor sul video del suo computer
una revisione sistematica di studi controllati che mettono a diverse
frequenze delle iniezioni. Questa conferma che nessuno sa se ci sia
maggior sollievo dalla stanchezza con iniezioni più frequenti rispet-
to ad una ogni tre mesi.
   Il computer attira anche la loro attenzione su alcune informazioni
per i pazienti riguardanti uno studio controllato che confronta diffe-
renti frequenze di iniezioni di vitamina B12 per l’anemia perniciosa.
Lo studio è stato intrapreso dal NHS Research and Development
Programme, sollecitato dalle domande poste ai servizi deputati a
rispondere ai quesiti clinici da parte di medici di medicina generale
e pazienti su quale fosse la più appropriata frequenza iniettiva per
migliorare i sintomi nelle persone affette da anemia perniciosa. La
dottoressa chiede ad Ifor se vuole prendere in considerazione di par-
tecipare allo studio: infatti, anche se scomodo, le visite ambulatoria-
li mensili potrebbero migliorare più efficacemente i sintomi della
malattia.
   Infatti, quando medici e pazienti pianificarono lo studio, i secondi
furono rassicurati che i loro sintomi più fastidiosi– come la stanchez-
za – sarebbero stati sempre valutati ad ogni incontro insieme ai con-
sueti esami del sangue per l’anemia perniciosa. Sia ad Ifor che al suo
medico sembrò subito che non sarebbe stato complicato partecipare
allo studio: non sarebbero state richieste più informazioni di quelle
raccolte nel normale monitoraggio dell’impatto del trattamento. E
dal momento che i risultati dello studio erano attesi entro un anno, lo
stesso Ifor avrebbe potuto giovarsi dei risultati di queste nuove
prove.
   La dottoressa chiede quindi ad Ifor se vuole portarsi a casa l’opu-
scolo informativo per i pazienti e pensarci sopra, ma Ifor decide di
entrare subito nello studio. La dottoressa, una volta inseriti i dati di
Il manifesto per una rivoluzione                                      123

Ifor in una sezione riservata e protetta da password del sito internet
dello studio, viene informata dopo pochi secondi che Ifor è stato ran-
domizzato a ricevere le iniezioni ogni tre mesi.
   Da allora ogni trimestre il centro di coordinamento dello studio
invia messaggi di testo sia al telefono mobile della dottoressa che a
quello di Ifor, invitandoli a rispondere ad alcune domande sui sinto-
mi e sui segni della malattia e ad inviare al laboratorio altri campio-
ni di sangue. Il laboratorio invia poi copie dei risultati al centro di
coordinamento, ad Ifor ed al suo medico.
   Dopo poco più di un anno il medico ed Ifor ricevono i primi risul-
tati dello studio e ne tengono conto per decidere se continuare con le
iniezioni ogni tre mesi o scegliere una frequenza maggiore. Ifor ed il
suo medico hanno così contribuito a ridurre l’incertezza su un tema
che interessa ad entrambi.

   Questa descrizione di come si possano fare sia gli interessi di un
paziente affetto da anemia da deficit di vitamina B12, sia quello di un
medico di medicina generale incerto sui vantaggi di un’opzione tera-
peutica, mette in luce diverse questioni. Benché i trattamenti efficaci
per questo tipo di anemia siano stati identificati circa un secolo fa,138
le domande sulla frequenza delle iniezioni di vitamina B12 sono
rimaste senza risposta perché non rivestivano grande interesse per
l’industria o per i ricercatori accademici. Questo tipo di domande
emerge solo se in modo diffuso e capillare viene riconosciuto e rice-
ve una risposta. In questo specifico esempio, per ottenere una rispo-
sta bastano solo piccoli sforzi in più rispetto alle cure normali.
   Il nostro esempio si riferisce alle incertezze sugli effetti del tratta-
mento di una malattia cronica gravida di sofferenze. Questo stesso
semplice approccio potrebbe essere seguito per rispondere alle incer-
tezze in tutti i campi, dalle emergenze acute potenzialmente letali
(come l’ictus), fino a malattie che guariscono da sole, ma spesso
fastidiose, come il raffreddore. Come fare per esser certi che questo
approccio diventi un’abitudine nel sistema sanitario pubblico?
124                                 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


IL NOSTRO MANIFESTO

Preso singolarmente nessuno dei suggerimenti che seguono è di per
sé rivoluzionario e del tutto nuovo. Le nostre sette proposte di azio-
ne, considerate tutte insieme e promosse con pazienti e clinici costi-
tuiscono un manifesto per una rivoluzione nell’uso e nella sperimen-
tazione delle cure.


1. Incoraggiare la franchezza quando ci siano incertezze sugli
   effetti delle cure

Ammettere l’incertezza è spesso difficile per gli operatori sanitari e a
volte questo non è gradito ai malati. Come risultato, talvolta le perso-
ne ne traggono un falso senso di sicurezza. Se clinici e pazienti devo-
no lavorare insieme per facilitare la valutazione degli effetti dei trat-
tamenti, entrambi devono anche essere più pronti a riconoscere che le
cure sperimentate in modo inadeguato possono essere davvero dan-
nose; devono avere più dimestichezza con i metodi necessari ad otte-
nere prove di efficacia affidabili. Dobbiamo trovare il modo più
appropriato per far sì che accada.


2. Affrontare il doppio standard del consenso informato ai
   trattamenti all’interno e al di fuori degli studi clinici

I clinici preparati ad ammettere le incertezze sugli effetti delle cure e
a discuterle apertamente nell’interazione con i pazienti sono soggetti
a regole più stringenti rispetto ai loro colleghi. Quando ci sono incer-
tezze rispetto all’efficacia delle cure, dovrebbe essere la norma parte-
cipare a studi controllati o ad altri metodi di valutazione privi di erro-
ri sistematici. Dovremmo assicurare che la partecipazione ad una
ricerca non venga presentata come un’impresa rischiosa, quasi a
voler far credere che la pratica standard sia sempre efficace e sicura.
Il manifesto per una rivoluzione                                      125

3. Accrescere la capacità di giudicare l’affidabilità delle
   affermazioni sugli effetti dei trattamenti

Una condizione necessaria per il cambiamento è rappresentata da un
maggior coinvolgimento dei cittadini sui rischi di errore nella valuta-
zione dell’utilità dei trattamenti. È difficile far entrare nella ‘cultura
generale’ una delle più importanti caratteristiche della ricerca scien-
tifica – ovverosia lo spirito critico necessario a riconoscere e a ridur-
re gli errori. Dobbiamo fare più sforzi per migliorare la comprensio-
ne di questi concetti e farli entrare nel processo di formazione, sin
dall’inizio della scuola.


4. Accrescere la capacità di preparare, mantenere e disseminare
   le revisioni sistematiche delle prove sugli effetti dei trattamenti

Molte delle risposte alle domande pressanti sugli effetti delle terapie
possono essere prontamente ottenute attraverso revisioni sistematiche
delle prove di efficacia che già esistono e poi mantenendo queste revi-
sioni aggiornate e disseminandone i risultati sia ai professionisti sia ai
pazienti. C’è ancora molta strada da fare prima che le informazioni
sulle prove di efficacia esistenti siano prontamente disponibili in revi-
sioni sistematiche. Dovremo far pressione sul servizio sanitario nazio-
nale affinché un impegno sistematico per rendere disponibili informa-
zioni valide e rilevanti per la tutela della salute diventi la norma.


5. Contrastare i comportamenti scientifici scorretti e i conflitti di
   interesse all’interno della comunità dei ricercatori

Molte persone rimangono sbalordite nel vedere che ai ricercatori non
è chiesto di tener conto di ciò che già si fa quando chiedono fondi per
un nuovo studio o ne richiedono l’approvazione da parte di un comi-
tato etico. La conseguenza inevitabile è che continuano ad esserci, in
misura inaccettabile da un punto di vista etico e scientifico, ricerche
mal disegnate e francamente non necessarie. Dovremmo far pressio-
ne su chi finanzia le ricerche e sui comitati etici per far sì che i ricer-
catori non inizino neppure una nuova ricerca senza prima aver con-
dotto o esaminato una revisione sistematica delle conoscenze dispo-
126                                   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


nibili. Inoltre, non è etico nascondere i risultati di alcuni studi. Ai
ricercatori dovrebbe essere chiesto di pubblicare i risultati di tutta la
ricerca a cui i pazienti hanno partecipato e di chiarire quale contribu-
to garantiscano le nuove prove rispetto a quanto era già conosciuto
precedentemente.


6. Pretendere che l’industria fornisca prove di efficacia sui
   trattamenti di migliore qualità, più complete e più rilevanti

Nel 2005, il House of Commons Health Committee ha pubblicato un
rapporto di grande impatto sull’influenza dell’industria farmaceutica
in Gran Bretagna.139 Quando in passato sono stati sfidati il potere e
l’influenza dell’industria farmaceutica, i giganti del farmaco hanno
risposto minacciando di trasferire dalla Gran Bretagna verso altri paesi
le proprie attività di ricerca e sviluppo, dipingendo un quadro spaven-
toso delle conseguenze sull’economia britannica. I diversi governi
sono stati acquiescenti e hanno ceduto le armi senza nulla fare per
limitare gli eccessi dell’industria. Non bisogna permettere che anche
queste raccomandazioni siano disattese. In particolare, bisogna insi-
stere sul fatto che tutti gli studi clinici vengano registrati sin dall’ini-
zio e che tutti i risultati vengano pubblicati in modo completo.


7. Identificare e definire le priorità della ricerca per rispondere
   ai quesiti sugli effetti dei trattamenti rilevanti sia per i
   pazienti sia per i clinici

Le scelte di chi finanzia la ricerca e delle istituzioni accademiche si
concentrano sulla ricerca di base, che ha poche probabilità di produr-
re effetti utili per i pazienti in un futuro prossimo, e sulla ricerca diret-
ta a massimizzare i profitti dell’industria. La ricerca applicata a que-
siti privi di una potenziale remunerazione economica, ma rilevanti
per i pazienti, deve combattere strenuamente per ottenere anche il più
piccolo finanziamento pubblico. Bisogna indurre il servizio sanitario
pubblico a identificare e rispondere ai quesiti dei malati e dei clinici
sugli effetti dei trattamenti e bisogna far sì che i finanziatori ne ten-
gano conto nel definire le priorità della ricerca mirata alla riduzione
delle incertezze nelle cure.
Il manifesto per una rivoluzione                                                      127

IN CONCLUSIONE

Da troppo tempo aspettiamo una rivoluzione nella sperimentazione
dei trattamenti. Il progetto che noi sosteniamo è pienamente realizza-
bile attraverso la collaborazione attiva fra professionisti e pazienti.
Tu, lettore, dovresti pretendere il cambiamento: ora.

  UN PIANO DI AZIONE: LE COSE CHE PUOI FARE

  Identifica quali quesiti sugli effetti dei trattamenti ritieni importanti.

  Chi conosce l’inglese, può visitare la National Library for Health
  (www.library.nhs.uk) per documentarsi sulla disponibilità di informazioni affida-
  bili derivate da revisioni sistematiche aggiornate.

  Accetta di partecipare ad uno studio clinico solo se: (i) il protocollo dello studio
  è stato registrato pubblicamente sul sito www.controlled-trials.com; (ii) il proto-
  collo fa riferimento a revisioni sistematiche di prove già esistenti che dimostrino
  la necessità di condurre lo studio; (iii) ti viene fornita assicurazione scritta che
  tutti i risultati dello studio saranno resi pubblici e inviati ai partecipanti che ne
  hanno fatto richiesta.

  Impara a riconoscere l’incertezza: parlane, fai domande e cerca delle risposte
  franche.

  Discuti con il tuo medico delle prove di efficacia e delle incertezze di un tratta-
  mento.

  Incoraggia un’educazione diffusa sugli effetti degli errori sistematici nella ricerca
  clinica e sull’effetto del caso e chiedi con forza a chi ti rappresenta in Parlamento
  o presso altre istituzioni di inserire questi concetti nel curriculum di studi, a par-
  tire dalla scuola primaria.

  Sii critico sulle notizie infondate e su quelle fornite dai media in merito alle sco-
  perte innovative; poni domande precise e discutine con i tuoi amici.

  Rifiuta le cure offerte a te e alla tua famiglia fondate su credenze e dogmi piutto-
  sto che su prove affidabili.

  Incoraggia medici, ricercatori, finanziatori e tutti coloro che stanno cercando di
  promuovere una ricerca incentrata sulle domande che tu reputi importanti e prive
  di risposte adeguate sugli effetti delle cure e lavora con loro attivamente.
Come sapere se una cura funziona"
BIBLIOGRAFIA




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    cmhealth/42/42.pdf [accessed 1 January 2006].
RISORSE ADDIZIONALI




COMPRENDERE GLI STUDI CLINICI E LA CORRETTEZZA
DELLE SPERIMENTAZIONI

Ministero della Salute
www.ministerosalute.it/ricsan/ricerca.jsp
Riporta informazioni sulla tipologia della ricerca finanziata dal
Ministero nelle strutture del SSN e negli Istituti di Ricovero e Cura a
carattere Scientifico.

Agenzia Italiana del Farmaco
www.agenziafarmaco.it
Informa sull’attività di farmacovigilanza, documentazione e sostegno
alla ricerca finanziata nell’ambito del programma “Ricerca indipen-
dente sul farmaco”.

Attenti alle bufale
www.attentiallebufale.it
Un sito che vuole mettere in guardia dai “cattivi maestri” che altera-
no o semplificano le evidenze in medicina.

James Lind Library
www.jameslindlibrary.org

MRC Clinical Trial Unit
www.ctu.mrc.ac.uk/Trialinfo.asp
140                                 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


NHS National Library for Health
www.library.nhs.uk/trials
US National Cancer Institute
http://cancertrials.nci.nih.gov/clinicaltrials/learning
UK Clinical Research Collaboration
Una guida – Understanding Clinical Trials – è disponibile sul sito
www.ukcrc.org
Critical Appraisal Skills Programme
www.phru.nhs.uk/casp/casp.htm
Organizza workshop e fornisce informazioni online e altre risorse per
aiutare le persone a sviluppare le capacità per trovare e valutare le
prove scientifiche.


INFORMAZIONI SUGLI EFFETTI DEI TRATTAMENTI

Clinical Evidence
www.library.nhs.uk
Una pubblicazione online del BMJ Publishing Group che può essere
consultata gratuitamente in Inghilterra, Galles e Scozia attraverso la
National Library of Health.
http://aifa.clinev.it è il sito che contiene la traduzione italiana di
Clinical Evidence ed è gratuitamente disponibile per tutti i medici ita-
liani in formato elettronico e cartaceo. Anche da questa fonte è stato
sviluppato il Progetto ECCE, un programma di educazione medica
continua a distanza gratuito rivolto a medici ed altri operatori sanita-
ri in Italia (www.aifa.progettoecce.it).

The Cochrane Library
www.thecochranelibrary.com
Una risorsa online che include The Cochrane Database of Systematic
Reviews, vale a dire una raccolta di sintesi di evidenze basate su studi
clinici condotti con metodo rigoroso.

Informed Health Online
www.informedhealthonline.org
Un sito web per i consumatori basato sulle prove di efficacia, prodot-
Risorse addizionali                                                   141

to in inglese e tedesco dal German Institute for Quality and
Efficiency in Health Care.


ESSERE COINVOLTI NELLA RICERCA

Cochrane Consumer Network
www.cochrane.org/consumers/homepage.htm
Promuove i suggerimenti dei pazienti alle revisioni sistematiche dei
trattamenti preparate dalla Cochrane Collaboration.

NHS Health Technology Assessment Programme
www.ncchta.org/consumers/index.htm
Coinvolge gli utilizzatori dei servizi in tutte le fasi delle sue attività.

UK Clinical Research Network
www.ukcrn.org.uk
Cerca di coinvolgere i pazienti nella definizione delle priorità e nel
disegno degli studi clinici.

James Lind Alliance
www.lindalliance.org
Promuove collaborazioni fra pazienti e clinici per identificare le
priorità su importanti incertezze sugli effetti dei trattamenti.

Current Controlled Trials
www.controlled-trials.com
Un meta-registro liberamente consultabile contenente informazioni
sugli studi clinici controllati in corso.

INVOLVE (già Consumers in NHS Research)
www.invo.org.uk
Promuove il coinvolgimento del pubblico nella ricerca sanitaria.

Partecipasalute
www.partecipasalute.it
Un sito per orientare i pazienti, i cittadini e le loro associazioni in
ambito sanitario riguardo le scelte in medicina.
142   COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA
INDICE ANALITICO




A                                       cecità 1, 6, 45
acido gamma linoleico (GLA) 11          cecità dei fiumi 1
Agenzia Italiana del Farmaco            chemioterapia 19, 22, 23, 26, 64
(AIFA) 110, 115                           cancro della mammella 12, 19,
AIDS 79, 106-108                          64, 99, 102, 110
albumina 118                            chirurgia
amniocentesi 27, 66, 103-106               chirurgia intestinale 39, 84
anemia perniciosa 59-60, 122               endoarteriectomia carotidea 77-78
anestesia 33, 63                           mastectomia 19, 20
antibiotici 30, 39, 57, 84              citochine 14, 15
aritmie 9                               colesterolo 48
artrite 38, 86                          comitati etici IX, 70-74, 84, 125
asma 6, 7, 20                           confronti tra terapie 37-43
aspettativa di vita 2, 29, 58              interpretazione 46-49
aspirina 2, 47, 50                      Controlled-trials.com 52
azatioprina 112, 115                    controllo del dolore 38, 81
                                        cotrimossazolo 79-80
B
barbiturici 5                           D
batteri 13-14                           danno cerebrale 9, 67, 84
betabloccanti 6                         dente del giudizio 31
Biomed Central 52                       depressione 6-7
                                        diabete 38, 57, 113
C                                       dietilstilbestrolo 4-5, 38
calcoli vescicali 42                    difterite 1
CancerBACUP 106                         discinesia tardiva 80
cancro della mammella 12, 19, 64, 99,   disinfezione 2
107                                     DNA 88
   chemioterapia 19, 21, 23, 26, 64
   terapia ormonale sostituiva 10,      E
   12, 42                               eclampsia 78-79, 93-94
  chirurgia 18-19, 20                   eczema 11-13, 53
cancro dei polmoni 89                   effetti collaterali 4-8
cancro della prostata 26, 61, 62, 116      dietilstilbestrolo 5
cancro vaginale 5                          magnesio solfato 78
caso, ruolo del 46-47                      neurolettici (antipsicotici) 80
144                                               COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA


   practololo 7                                    insufficienza respiratoria 66
   talidomide 5-7                                  insulina 38, 57-58
   natalizumab 114                                 interferoni 111-115
   zidovudina 108                                  intervalli di confidenza 47-49
endarteriectomia carotidea 77-78                   iperplasia prostatica benigna 60
errore sistematico 52, 72, 82, 83                  ipertensione 1, 78
   mascheramento 44-45
   pubblicazione dei risultati 13, 53, 82          J
endotossine 13-15                                  James Lind Library XXI, 36, 139
epidurale 81
erisipela 59                                       L
errori sistematici nella ricerca 52-53,            leucemia 1, 59
82-83                                              linfedema 64
età dei pazienti 42
                                                   M
F                                                  magnesio solfato 78
farmaci me-too 86-87                               mal di schiena 102, 104
farmaci, registrazione 47, 87                      malattia della mucca pazza 108
febbre puerperale 57, 59                           malattia di Creutzfeld-Jakob 108
fibrodisplasia retrolenticolare 6                  manifesto per una adeguata
fibrosi cistica 29-30, 88                          sperimentazione 121-127
fisioterapia 30, 86, 101                           mastectomia 19, 20, 102
Food and Drug Administration 114                   Medical Research Council 45, 95,
                                                   103-105
G                                                  meningite 57, 59
General Medical Council 68                         menopausa 10-12, 50
glatiramer 109-110                                 mesmerismo 44
gravidanza 1, 4, 5, 6, 78, 93, 103                 metanalisi 54
                                                   mieloma 102
H                                                  morte in culla 8-10
HIV (virus immunodeficienza
acquisita umana) 79-80, 106                        N
                                                   nascita 4, 5, 48
I                                                  natalizumab 114
ibuprofene 86                                      nati prematuri 6, 54
ictus 2, 3, 9-12, 39, 42-43, 56, 77-78, 83, 84,    neuroblastoma 25-26
91, 93, 117, 123                                   neurolettici (antipsicotici) 80
imaging cerebrale 113                              nimodipina 9-10, 40
imatinib 59
incertezza IX, 60-69, 70-75, 77, 91, 99,           O
102, 121-125                                       olio di borragine 11, 13
industria farmaceutica 6, 28, 41, 86,              olio di enotera 11-13, 53
87, 92-97, 121-127                                 oppiacei 38
infarto miocardio 9-11, 39, 47-51                  osteoporosi 10, 12
Indice analitico                                                       145

P                                      S
pazienti, ruolo nella ricerca 99-120   scarlattina 60
penicillina 58-59                      schizofrenia 1, 48, 80
peritonite sclerotizzante 7            sclerosi multipla 45, 111-115
piaghe da decubito 32                  scorbuto 2, 3, 36, 42
placebo 44-45, 78-79, 83-87            screening 23-31, 61, 64
Plos Medicine 52                       shock settico 13-15
poliomielite 1                         SIDS (Sindrome Morte Improvvisa
polmonite 59, 79                       Neonato) 8-10
PPS (pentosano polisolfato) 109        significatività statistica 47
practololo 6-8                         sindrome da distress respiratorio 83
pre-eclampsia 78-79, 93                sindrome di Down 27
prelievo dei villi coriali 66, 103     sonno del bambino 8-10
protesi articolare 2, 60               sordità 7
protocolli 46, 53, 82                  sostituzione dell’anca 59-60
   di ricerca 46                       steroidi 11, 54, 83
psoriasi 89-90                         streptomicina 59
puntura lombare 33                     sulfonamidi 57-59

Q                                      T
qualità della vita 2, 72               talidomide 5-7, 50
                                       terapia ormonale sostitutiva (TOS)
R                                      10-12, 48
radioterapia 18-19, 64, 91             tonsillectomia 61-63
raffreddore 45, 123                    trombi arti inferiori 52-58
randomizzazione 70, 72
ricerca 85-86, 88-89, 92-97, 121-127   U
   AIDS 107-108                        UNICEF 80
   artrite 86
   coinvolgimento dei pazienti 99-     V
   127                                 Variabilità geografica delle terapie
   industria farmaceutica 86-87, 92-   61
   96, 110-127                         Vitamina B12 59, 121-123
   inutile 80-84                       Vitamina C 2
ricerca di laboratorio 88, 92          Vigile attesa nel cancro prostatico
ricerca in gravidanza 78-79, 81-82     91-92
riposo a letto 32
risonanza magnetica (RM) 1-2           Z
riviste elettroniche 52                Zidovudina 108
Finito di stampare nel mese di settembre 2007
            dalle Arti Grafiche Tris s.r.l.
     Via delle Case Rosse, 23 - 00131 Roma
per conto de Il Pensiero Scientifico Editore, Roma

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Come sapere se una cura funziona"

  • 1. S S p p a a z z ii
  • 3. Imogen Evans Hazel Thornton Iain Chalmers COME SAPERE SE UNA CURA Presentazione e cura dell’edizione italiana di Alessandro Liberati FUNZIONA Traduzione di Una migliore ricerca per Silvia Pregno un’assistenza migliore Il Pensiero Scientifico Editore
  • 4. Dedichiamo questo libro a William Silverman (1917-2004), che ci ha ripetutamente incoraggiati a mettere in dubbio l’autorità. Prima edizione: ottobre 2007 © 2006 in original English edition, Imogen Evans, Hazel Thornton and Iain Chalmers © 2007 in first Italian edition, Il Pensiero Scientifico Editore in association with The British Library Il Pensiero Scientifico Editore Via Bradano, 37c – 00199 Roma Tel. 06 862821 – fax 06 86282250 [email protected] www.pensiero.it www.vapensiero.info Tutti i diritti sono riservati. Stampato in Italia dalle Arti Grafiche Tris srl Via delle Case Rosse 23, 00131 Roma Progetto grafico di copertina: Studio Rosa Pantone, Roma Composizione e impaginazione: www.ikona.it Illustrazione di copertina: © Images.com/Dave Cutler, Moon and star in scale ISBN 978-88-490-0208-9
  • 5. INDICE NOTIZIE SUGLI AUTORI VI RINGRAZIAMENTI VI PRESENTAZIONE DELL’EDIZIONE ITALIANA VII Far partecipare i pazienti alle scelte di ricerca Alessandro Liberati PREMESSA ALL’EDIZIONE ITALIANA XIII PREFAZIONE XV Un libro che fa bene alla salute Nick Ross INTRODUZIONE XIX 1 • NUOVO – MA NON NECESSARIAMENTE MIGLIORE O MAGARI ANCHE PEGGIORE 1 2 • UTILIZZATI SENZA ADEGUATA SPERIMENTAZIONE 17 3 • I CONCETTI CHIAVE PER SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA 35 4 • AFFRONTARE L’INCERTEZZA SUGLI EFFETTI DEI TRATTAMENTI 55 5 • LA RICERCA CLINICA: LA BUONA, LA CATTIVA E L’INUTILE 77 6 • MENO RICERCA, METODOLOGIE RIGOROSE E QUESITI RILEVANTI 85 7 • MIGLIORARE QUALITÀ E RILEVANZA DELLE SPERIMENTAZIONI CLINICHE È INTERESSE DI TUTTI 99 8 • IL MANIFESTO PER UNA RIVOLUZIONE 121 BIBLIOGRAFIA 129 RISORSE ADDIZIONALI 139 INDICE ANALITICO 143
  • 6. NOTIZIE SUGLI AUTORI Imogen Evans, prima di diventare giornalista scientifica per The Lancet, ha esercitato ed insegnato medicina in Canada ed in Gran Bretagna. Dal 1996 al 2005 ha lavorato per il Medical Research Council e ultimamente si occupa di etica della ricerca, rappresentan- do il governo inglese al Comitato Etico del Consiglio Europeo. Hazel Thornton, dopo una mammografia di routine fu invitata a partecipare ad uno studio clinico, ma le inadeguate informazioni disponibili per i pazienti la indussero a rifiutare. Questo la incoraggiò a impegnarsi per coinvolgere il pubblico nella ricerca al fine di rag- giungere risultati utili per i pazienti. Ha scritto e tenuto molte confe- renze su questo argomento. Iain Chalmers, ha esercitato la professione medica in Gran Bretagna ed in Palestina prima di diventare ricercatore nel campo dei servizi sanitari e dirigere l’Unità Nazionale di Epidemiologia Perinatale di Oxford. Ha avuto poi un ruolo fondamentale nella nasci- ta della Cochrane Collaboration ed ha diretto per molti anni il Centro Cochrane inglese. Dal 2002 coordina la James Lind Initiative, che promuove il miglioramento delle sperimentazioni cliniche per migliorare l’assistenza sanitaria, puntando soprattutto al più ampio coinvolgimento del pubblico. RINGRAZIAMENTI Ringraziamo Tony Warshaw per averci incoraggiato a scrivere questo libro. Siamo debitori verso Richard Ashcroft, Patricia Atkinson, Hilda Bastian, Michael Baum, Joan Box, Noreen Caine, Harry Cayton, Jan Chalmers, Alison Chapple, Mike Clarke, John Critchlow, Ben Djulbegovic, Gorge Ebers, Robin Fox, Jo Garcia, Paul Glasziou, Bec Hanley, Elina Hemminki, Andrei Herxheimer, Tony Hope, Les Irwig, Debbie Kennet, Richard Lindley, Margaret McCartney, Wilson Ng, Ann Oakley, Michael Parker, Sophie Petit- Zeman, Uccio Querci della Rovere, Nick Ross, Eileen and David Ruxton, Harvey Schipper, Lara Speicer e Blinda Wilkinson per i loro utili commenti sulle precedenti versioni del lavoro e a Theo Chalmers per aver disegnato la copertina della edizione inglese del libro. Iain Chalmers ringrazia il Medical Research Council e il NHS Research and Development Programme per il sostegno dato all’iniziativa.
  • 7. PRESENTAZIONE DELL’EDIZIONE ITALIANA Far partecipare i pazienti alle scelte di ricerca: un passaggio necessario per sapere se le cure funzionano davvero Nick Ross, nella sua Prefazione, scrive che Testing Treatments – che abbiamo deciso di presentare in italiano col titolo di Come sapere se una cura funziona – è un libro che “fa bene alla salute”. Condivido in pieno questo giudizio e, anzi, rilancio. Dicendo che abbiamo di fronte un libro non solo capace di indurre sane riflessioni, ma anche di indi- care una via, non facile, per rendere operativo e fattibile il coinvolgi- mento degli utenti e dei pazienti nella ricerca. Presentare questa edizione italiana che – in coerenza col proprio impegno editoriale per l’indipendenza della ricerca scientifica – Il Pensiero Scientifico Editore ha fortemente voluto, è per me anzitutto un grande onore. L’amicizia e l’ammirazione che mi lega ai tre auto- ri, e soprattutto a Iain Chalmers, la cui conoscenza ha profondamen- te segnato il mio percorso personale e professionale, ha reso più dif- ficile di quanto prevedessi mettere insieme, senza sentirsi eccessiva- mente banale, le brevi riflessioni che vorrei suggerire ai lettori di que- sto libro. Pagine che sono la testimonianza, ed in qualche modo il program- ma operativo, di tre persone che con traiettorie e percorsi diversi hanno dedicato molte delle loro energie a trasformare la medicina e le conoscenze che la ricerca produce, in strumenti utili a migliorare l’assistenza ai pazienti.
  • 8. VIII COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Iain Chalmers, attraverso lo sforzo pionieristico che lo ha portato oltre dieci anni fa a fondare la Cochrane Collaboration, Hazel Thornton che ha sperimentato in prima persona l’angoscia di diven- tare paziente e trovarsi di fronte all’elusività delle informazioni anche quando ti si chiede di entrare in uno studio clinico, e Imogen Evans che dall’interno del mondo medico ha potuto conoscerne a fondo pregi e difetti, ci danno con questo libro una testimonianza preziosa. Dobbiamo ringraziarli, credo, per aver messo insieme un testo che, pur nella sua essenzialità e semplicità di linguaggio, al tempo stesso, stimola riflessioni a tutto tondo sul rapporto tra medicina e potere nella sua espressione economica (quella che influenza le priorità del- l’industria della salute) ed in quella ideologica (quella di chi usa il potere gerarchico e l’idea della superiorità dell’“esperto” per margi- nalizzare l’emergere dei bisogni assistenziali reali). Una riflessione che in Inghilterra ha dato vita ad un progetto con- creto, la James Lind Alliance (http://www.lindalliance.org), mirato a praticare l’obbiettivo di far lavorare insieme operatori sanitari e pazienti per rendere più pregnante e rilevante la ricerca clinica, indi- rizzandola verso le aree di incertezza che davvero stanno a cuore a chi cura, ed a chi è curato. La soddisfazione di presentare l’edizione italiana di questo libro ha molte motivazioni, e suscita altrettanti auspici. Vorrei richiamarne soprattutto tre. Il primo deriva dalla consapevolezza della relativa unicità dei con- tenuti che questo libro propone nel panorama italiano. L’auspicio è che muoversi attraverso i capitoli di Come sapere se una cura funzio- na sia un salutare invito – per chi ha a cuore l’empowerment dei pazienti e la loro partecipazione – ad addentrarsi nei difficili meandri del fare concreto, sapendo che provocare cambiamenti è possibile. Il secondo è che la lettura dei diversi capitoli induca, chi ha respon- sabilità decisionali nel mondo della ricerca e dell’assistenza nel nostro paese, ad un profondo esame di coscienza. Pensare alla ricer- ca, soprattutto quella epidemiologico-clinica, come terreno di esclu- siva pertinenza degli “esperti” e dei ricercatori di professione non è più scientificamente, prima ancora che socialmente, sostenibile. La giusta e legittima richiesta che maggiori disponibilità finanziarie siano destinate alla ricerca non può non accompagnarsi a una grande operazione di trasparenza. Sul come le priorità vengono decise, su chi partecipa a queste decisioni, su come i finanziamenti vengono asse-
  • 9. Presentazione IX gnati in funzione della rilevanza e del merito scientifico, su quali sono i doveri verso i pazienti e la società di chi riceve risorse per pro- durre nuove conoscenze, su come la giusta enfasi verso una sana competizione scientifica basata sulla qualità dei progetti non si con- fonda con l’idea che la conoscenza è un bene privatizzabile, attraver- so cui fare profitti. Terzo auspicio è quello di saper mantenere l’abitudine a scandaliz- zarsi dello status quo. Chi oggi difende e si schiera a favore dell’in- tegrità ed indipendenza della ricerca troverà in questo libro molte buone ragioni per continuare a farlo, ma soprattutto molti buoni argo- menti per evitare che lo scandalizzarsi diventi l’anticamera di cini- smo e rassegnazione. Scorrendo le pagine di Come sapere se una cura funziona trovia- mo diverse cose che è bene che il pubblico sappia, per passare da un’infantile e aprioristica fiducia nel progresso scientifico ad un maturo atteggiamento di vigilanza critica. È bene, anzitutto, che il pubblico abbia una visione d’insieme sui temi della medicina e della scienza, e che possa farsi un’idea bilanciata ed il meno possibile solo emotiva. Il fatto che quasi ogni settimana si sia investiti di “cattive notizie” su effetti collaterali inattesi di trattamenti e farmaci, sull’in- sorgenza di infezioni gravi e poco aggredibili all’interno degli ospe- dali, su incidenti che avrebbero potuto essere prevenuti, non deve farci perdere di vista che la medicina moderna – come dicono Chalmers, Evans e Thornton nel Capitolo 1 – ha portato molti pro- gressi. È proprio perché le metodologie di valutazione dei trattamen- ti sono tutt’altro che perfette, errori o effetti non previsti fanno parte del possibile e possono essere ridotti solo puntando ad una ricerca di migliore qualità e ad una maggiore capacità critica anche dei pazien- ti sui limiti della medicina e sulla necessità continua di monitorarne i possibili effetti avversi. È bene anche che il pubblico sappia che l’incertezza è parte inte- grante del progresso scientifico ed è ineliminabile dalla pratica della medicina. Anche per molti interventi largamente diffusi nella pratica medica esistono poche prove scientifiche di efficacia e sicurezza. Se questo è in parte giustificabile per tanti interventi che sono entrati nella pratica della medicina prima che si affermasse la moderna metodologia della ricerca, assai meno lo è per le più recenti innova- zioni (pensiamo ai nuovi e sempre più “invadenti” test diagnostici) la cui utilizzazione è determinata molto più da consumismo sanitario e interessi commerciali che non da affidabili prove di efficacia e sicu-
  • 10. X COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA rezza. La lettura del Capitolo 4 dà molti utili indicazioni per farsi carico, in positivo, dell’incertezza e indica proprio nella ricerca di buona qualità la strada maestra per poter fornire ai pazienti la miglior assistenza possibile. Anche chi lavora nei Comitati Etici potrà trova- re nei Capitoli 4 e 5 un’utile ispirazione per la propria attività di vigi- lanza e controllo. È bene, anche, che il pubblico sappia che ritardi nella ricerca di cure migliori non sono una fatalità, e che una parte importante dello sbilanciamento nell’agenda di ricerca ha responsabilità che vengono anche dall’interno del mondo della ricerca. Sia per mancanza di un adeguato supporto alla ricerca pubblica e indipendente da parte dei sistemi sanitari, sia per un progressivo “scivolamento etico” che ha caratterizzato il comportamento della professione medica e delle sue rappresentanze scientifiche. La ricerca intesa come “la caccia al quesito innovativo”, “l’occa- sione per l’acquisizione di visibilità e ruolo sociale/mondano” se umanamente comprensibile, non è per questo meno grave e distorsi- va. Partecipare alla ricerca, soprattutto quella commerciale, significa oggi, per molti ricercatori, essere à la page e ben dentro l’establi- shment. Pubblicare su riviste prestigiose, girare il mondo partecipan- do a congressi scientifici, avere spazio sulla stampa laica presentan- dosi come i grandi ricercatori, è una spinta troppo forte per sapergli resistere. E, infatti, molti non resistono. Partecipano alla ricerca così come viene loro proposta, hanno di fatto perso la speranza che debba essere la rilevanza del quesito (soprattutto per i pazienti) la stella polare da seguire. Non si spiegherebbe altrimenti la corsa per parte- cipare a tanti studi la cui non esecuzione non farebbe certo male a nessuno (tranne che magari agli interessi di marketing di chi li finan- zia). Le informazioni e le riflessioni che troviamo nei Capitoli 5 e 6 danno buoni argomenti su necessità e urgenza di una responsabilità sociale collettiva per la ricerca. È bene, infine, che la partecipazione dei pazienti non diventi un mito o un feticcio, immaginando che di per sé essa sia garanzia di ricerca migliore e più indipendente. Da questo punto di vista Chalmers, Thornton e Evans non si nascondono anche i possibili effetti collaterali di un partecipazione non informata e della sua pos- sibile manipolazione. Nel Capitolo 7 gli autori discutono anche dei rischi che una parte- cipazione non adeguatamente informata dei pazienti, e delle loro associazioni, può comportare. In termini, per esempio, di ostacolare
  • 11. Presentazione XI la ricerca che sarebbe necessario fare, o di portare a fare ricerca lad- dove essa non dovrebbe essere prioritariamente fatta. Senza andare a riaprire le ancora non completamente chiuse cicatrici della terapia Di Bella, Come sapere se una cura funziona, appunto nel Capitolo 7, discute il caso dell’interferone nel trattamento della sclerosi multipla e della fortissima pressione esercitata dalle associazioni di pazienti per rendere a tutti disponibile un trattamento la cui reale efficacia era molto dubbia a fronte di costi molto pesanti per il servizio sanitario nazionale. Altro caso che gli autori discutono è quello della ricerca sui farmaci anti HIV, un settore nel quale le associazioni dei pazienti hanno giocato un ruolo molto importante non sempre privo tuttavia di risvolti non unicamente positivi (si veda il Capitolo 7 per un mag- giore approfondimento). In conclusione di questa presentazione vorrei fare a Come sapere se una cura funziona, e a tutti noi che dei suoi contenuti vogliamo essere razionali e appassionati sostenitori, un ultimo augurio. Quello di raggiungere davvero i pazienti e le loro associazioni. Proprio qual- che giorno fa, mentre stavo concludendo questo testo ho incontrato Iain Chalmers che mi chiedeva, con interesse e curiosità, sui tempi di comparsa di Testing Treatments nelle librerie italiane. A mia volta gli ho chiesto se si riteneva soddisfatto di come era stata accolta l’edizio- ne inglese. “We could have done better” (“avremmo potuto fare di più”) – ha detto sorridendo Iain – riferendosi al fatto che ci sarebbe voluto uno sforzo maggiore di diffusione, …uno sforzo militante, verrebbe da dire, usando un termine di moda in un recente passato. È proprio questo augurio mi sento di fare a questo libro al momen- to della sua apparizione italiana. Raggiungere davvero i pazienti, le loro associazioni, le rappresentanze nei Comitati Etici, oltre, natural- mente anche molti ricercatori clinici e molti responsabili delle politi- che della ricerca nel nostro Paese. Un esempio di come promuovere attivamente questo percorso di coinvolgimento lo si può trovare in Partecipasalute (www.partecipa- salute.it) un progetto per molti versi “pilota” che, da circa tre anni, sta cercando di aprire canali sostanziali di comunicazione tra associazio- ni di pazienti e rappresentanti del mondo scientifico e professionale. Canali che dovrebbero portare a esperienze di collaborazione sin dal- l’inizio nell’identificazione delle priorità di ricerca e del modo migliore per realizzare gli studi necessari. È realistico pensare che, insieme alle molte altre esperienze che in Italia esistono, e che sono purtroppo molto frammentate e disperse, si possa arrivare a far diven-
  • 12. XII COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA tare la partecipazione dei pazienti una realtà riconosciuta, anche a livello istituzionale. La decisione assunta dalla Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) di aprire – nel proprio sito – uno spazio accessibile al pubblico per la formulazione di suggerimenti di società scientifi- che ed anche di pazienti e cittadini prima della preparazione del pro- prio bando di ricerca è un primo piccolo ma significativo passo avan- ti nella realtà italiana. Più in generale oggi è necessario impegnarsi perché la ricerca sostenuta dal Servizio sanitario nazionale dia rispo- ste utili e rilevanti per migliorare l’assistenza ai cittadini ed ai pazien- ti e la strada da fare in questo senso è molto lunga. Una ricerca in grado di produrre risposte rilevanti non può evidentemente prescin- dere da una crescente partecipazione, e la diffusione capillare dei principi e dei concetti contenuti in Come sapere se una cura funzio- ne è una condizione necessaria per richiamare la comunità scientifi- ca ai propri doveri. Alessandro Liberati Cochrane Collaboration Vice Presidente Commissione Nazionale Ricerca Sanitaria
  • 13. PREMESSA ALL’EDIZIONE ITALIANA Quando lo stavamo scrivendo, il nostro editore inglese ci chiese quale sarebbe stato il pubblico di questo libro. Senza esitazioni, rispondemmo che pazienti e cittadini erano i nostri interlocutori prio- ritari, sebbene sperassimo che le operatrici e gli operatori sanitari sarebbero anch’essi stati interessati. Il nostro scopo era incoraggiare la valutazione critica delle informazioni sugli effetti delle terapie e spingere il personale sanitario a dialogare per migliorare la ricerca in questo settore. Desideravamo mostrare che il coinvolgimento dei cit- tadini è una cosa realmente possibile e che può davvero fare la diffe- renza: è il modo per garantire che la ricerca messa in atto sia finaliz- zata a rispondere ad interrogativi che riguardano i malati. Per questo, siamo stati comunque molto contenti dei commenti assai positivi letti sulla stampa specialistica, ma ci hanno ancor più emozionato quelli ricevuti da cittadini, pazienti e loro familiari. Sapere che “è il libro da cui più ho imparato e che più mi ha dato forza tra quelli che ho letto” o che “incoraggia soprattutto leggere che la ricerca deve rispondere a priorità dettate da noi malati e non dai ricercatori o dall’industria, e che dobbiamo farci coinvolgere nel pro- gramma della ricerca medica” è stato veramente gratificante. Speriamo che i lettori dell’edizione italiana ricevano stimoli analoghi e che possano lavorare insieme agli operatori della Sanità per migliora- re i modi attraverso i quali sapere veramente se una cura funziona. Imogen Evans, Hazel Thornton, Iain Chalmers
  • 15. PREFAZIONE Un libro che fa bene alla salute Questo è un libro che fa bene alla salute. Cerca soprattutto di chia- rire alcuni misteri su come vengano prese decisioni che riguardano la vita e la morte. Ci mostra come spesso queste decisioni si fondino su valutazioni gravemente errate e fornisce ai medici di tutto il mondo un’occasione per comportarsi meglio. E lo fa senza inutili allarmismi, esprimendo ammirazione per i tra- guardi raggiunti dalla medicina moderna. Il suo scopo ultimo è quel- lo di migliorare l’attività medica e non di screditarla. Ebbi le mie prime esperienze della ormai consolidata trascuratez- za medica negli anni ’80, quando fui invitato a partecipare, come membro laico, ad una conferenza di consenso con il compito di giu- dicare quali fossero le migliori pratiche nella cura del cancro alla mammella. Rimasi scioccato (e potreste esserlo anche voi leggendo di più a questo proposito nel Capitolo 2). Raccogliemmo le prove dai più importanti ricercatori e clinici e scoprimmo che alcuni dei più eminenti medici lavoravano sulla base di impressioni o di veri e pro- pri preconcetti, e che la possibilità di sopravvivenza di una donna, o il fatto di rimanere mutilata dalla chirurgia, dipendeva largamente da chi l’avrebbe curata e dalle sue convinzioni personali. Un chirurgo preferiva interventi molto demolitivi, un altro preferiva la rimozione del solo tumore, un terzo optava per l’aggiunta di una radioterapia aggressiva e così via. Sembrava che l’era della valutazione scientifi- ca fosse scivolata loro addosso. Questo è accaduto spesso e per molti medici è ancora vero. Sebbene le cose siano migliorate, molti medici talentuosi, sinceri e
  • 16. XVI COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA competenti sono sorprendentemente ignoranti su ciò che è una buona prova scientifica. Esercitano la professione in un certo modo perché così è stato loro insegnato alla facoltà di medicina o perché lo fanno gli altri medici o perché nella loro esperienza funziona. Ma l’espe- rienza personale, benché seducente, è spesso terribilmente fuorviante – come questo libro mostra con una chiarezza brutale. Alcuni medici dicono che sia ingenuo applicare il rigore scienti- fico alla cura di ogni singolo paziente. La medicina, asseriscono, è scienza ed arte. Ma per quanto ciò suoni bene, è una contraddizio- ne in termini. Ovviamente la conoscenza medica è finita mentre la complessità di ciascun individuo è pressoché infinita, e da qui nasce l’incertezza. Una buona pratica medica richiede quotidianamente di fare delle ipotesi. Ma troppo spesso, nel passato, molti professioni- sti medici non hanno distinto fra ipotesi e buone prove di efficacia. Talvolta essi proclamano certezze anche laddove i dubbi sono con- siderevoli. Essi ignorano i dati affidabili perché non sanno come interpretarli. Questo libro spiega qual è la differenza fra l’esperienza personale ed i più complessi, ma migliori, modi di distinguere ciò che funziona da ciò che non funziona, ciò che è sicuro da ciò che non lo è. Per quanto può, questo libro, evita i termini tecnici e promuove espres- sioni tipicamente inglesi come ‘fair test’ (che in italiano abbiamo deciso di tradurre con valutazione appropriata, ndt). Ci ricorda che la scienza, così come tutto ciò che è umano, è incline ad errori e pregiu- dizi (a causa di errori, vanità o – specialmente pericoloso in medici- na – interessi commerciali); ma ci ricorda anche che è l’approccio meticoloso della scienza ad aver favorito la maggior parte dei pro- gressi nelle conoscenze umane. I medici (e gli operatori dei media come me) dovrebbero smettere di screditare la ricerca clinica bollan- dola come ‘sperimentazione condotta su cavie umane’. Al contrario per i medici dovrebbe essere un imperativo morale promuovere valu- tazioni appropriate nei loro pazienti e per i pazienti parteciparvi. Questo è un libro importante per tutti coloro che hanno a cuore la propria salute o quella della propria famiglia o le politiche per la salu- te. I pazienti vengono spesso visti come destinatari dell’assistenza sanitaria piuttosto che come partecipanti. Abbiamo un compito arduo da affrontare, che dobbiamo svolgere per coloro nel cui nome si pra- tica la medicina e da cui gli stessi medici vengono pagati sia come cli- nici, sia come ricercatori. Restando consumatori passivi di farmaci non miglioreremo mai la situazione. Se preferiamo risposte semplici-
  • 17. Prefazione XVII stiche, avremo una pseudoscienza. Se non promuoviamo una speri- mentazione rigorosa dei trattamenti, insieme alle sostanze che real- mente funzionano avremo trattamenti inutili e alcune volte dannosi. Questo libro contiene un manifesto per migliorare le cose ed i pazienti ne sono al centro. Ma è un libro importante anche per i medi- ci, gli studenti ed i ricercatori; tutti possono trarne beneficio. In un mondo ideale la lettura di questo libro sarebbe obbligatoria per ogni giornalista, ma dovrebbe anche essere reso disponibile ad ogni paziente, poiché, se i medici non sono in grado di soppesare le prove scientifiche, in generale noi staremo peggio. La nostra vita dipende da questo. Una cosa vi assicuro: se il tema della sperimentazione dei tratta- menti è per voi nuovo, quando avrete letto questo libro non giudiche- rete più allo stesso modo i consigli che vi darà il vostro medico. Nick Ross Giornalista e presentatore radio e TV
  • 19. INTRODUZIONE Non c’è modo di sapere se le nostre osservazioni sugli eventi complessi in natura siano complete. La nostra conoscenza è finita, come sottolineato da Karl Popper, ma la nostra ignoran- za è infinita. In medicina, non possiamo mai essere certi delle conseguenze dei nostri interventi, possiamo solo ridurre l’area d’incertezza. Questa ammissione non è pessimistica come sem- bra: le affermazioni che resistono a sfide energiche e ripetute spesso risultano essere abbastanza affidabili. Queste “verità che si mantengono attive” costituiscono gli elementi fondamen- tali per la costruzione di strutture ragionevolmente solide, capa- ci di supportare ogni giorno le nostre azioni al letto del malato. 1 William A. Silverman. Where’s the evidence? 1998 Siamo stati colleghi per molti anni, condividendo non soltanto la vicinanza professionale, ma anche la profonda convinzione che le cure mediche, nuove o vecchie, dovessero fondarsi su buone prove di efficacia. La nostra esperienza condivisa suggerisce che spesso ciò non avviene. Ed è proprio questa consapevolezza che ci ha spinto a scrivere questo libro. La curiosità di IE sulle prove di efficacia a sostegno dei trattamen- ti che prescriveva ai pazienti è cresciuta durante la sua carriera nella ricerca medica. Quando divenne giornalista scientifica di The Lancet venne a conoscenza di palesi tentativi da parte delle industrie farma- ceutiche e dei ricercatori di fare profitti con la verità, distorcendo o abbellendo i risultati delle loro ricerche.
  • 20. XX COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA L’invito inaspettato che HT ricevette ad essere inclusa in uno stu- dio clinico di dubbia qualità le fece capire che avrebbe dovuto parte- cipare attivamente ai progressi del trattamento della sua malattia e non più rimanere un recettore passivo delle cure. Intraprese quindi una vigorosa campagna per la collaborazione tra gli operatori sanita- ri ed i pazienti, per assicurare una ricerca valida accompagnata da un’informazione di buona qualità per i malati. L’ossessione di IC per la valutazione rigorosa degli effetti di ciò che i medici fanno ai loro pazienti iniziò quando lavorava in un campo profughi in Palestina: ebbe allora l’impressione che alcuni dei malati che aveva assistito fossero morti poiché lui praticava la medicina così come gli era stata insegnata all’Università. Da allora, ha strenuamente promosso l’idea che le decisioni nell’assistenza sanitaria debbano essere prese sulla base di prove non inficiate da errori sistematici, derivanti dalle ricer- che rilevanti ed in particolare dai risultati di revisioni sistematiche di studi controllati. Ogni anno le ricerche sugli effetti delle cure producono una mon- tagna di risultati. Sfortunatamente, molte di esse non offrono infor- mazioni rilevanti per i bisogni dei pazienti e anche quando ciò avvie- ne le prove sono spesso inaffidabili. Speriamo che il nostro libro possa indicare il modo per giungere ad una comprensione più ampia di come le cure debbano essere sperimentate in modo appropriato. Questo libro non è un prontuario delle migliori terapie per specifiche malattie. Piuttosto, qui illustriamo gli elementi essenziali per assicu- rare che la ricerca sia solidamente fondata e disegnata per rispondere ai quesiti d’interesse per i pazienti e per gli operatori sanitari a cui essi chiedono aiuto. Nel Capitolo 1 descriviamo come alcuni nuovi trattamenti abbiano avuto effetti avversi inattesi, come non si siano concretizzati gli effet- ti positivi sperati di altri e come alcune “profezie” su cure che non avrebbero funzionato si siano poi dimostrate errate. Infine, come alcuni risultati utili della ricerca non vengano applicati nella pratica clinica. Nel Capitolo 2 spieghiamo che molte delle cure e dei test di screening più comunemente utilizzati non sono stati sperimentati in modo adeguato. Il Capitolo 3 fornisce alcuni “dettagli tecnici” – dà le basi per una sperimentazione corretta delle terapie, enfatizzando l’importanza dell’essere attenti alla riduzione dei potenziali errori sistematici e di come tener conto del ruolo del caso; introduce, inol- tre, le nozioni di studio clinico randomizzato e di placebo; sottolinea la necessità di condurre revisioni sistematiche delle prove di efficacia
  • 21. Introduzione XXI rilevanti. Nel Capitolo 4 descriviamo alcune delle numerose incertez- ze che pervadono pressoché ogni aspetto dell’assistenza sanitaria e come affrontarle. Il Capitolo 5 mette a confronto le differenze fonda- mentali tra la buona ricerca, quella cattiva e quella inutile. Nel Capitolo 6 mettiamo in luce quanto la ricerca possa essere distorta da interessi commerciali ed accademici e sia spesso incapace di rivol- gersi a quei quesiti che potrebbero fare una reale differenza per il benessere dei pazienti. Il Capitolo 7 offre una mappa delle azioni che i pazienti possono compiere per garantire che le terapie vengano meglio sperimentate. E nel Capitolo 8, infine, presentiamo il nostro manifesto per la rivoluzione nella sperimentazione delle cure – misu- re pratiche da intraprendere immediatamente per realizzarla. Il volume è corredato da un’ampia bibliografia; altre fonti d’infor- mazioni sono contenute nella sezione Risorse addizionali alla fine del libro. Per coloro che vogliono approfondire ulteriormente gli argo- menti, un buon punto di partenza è la James Lind Library disponibi- le sul sito www.jameslindlibrary.org. Questo sito ospita altresì un contatto di posta elettronica per i lettori di questo libro – potete man- dare i vostri commenti all’indirizzo testingtreatments@jameslindli- brary.org. Nonostante la descrizione degli effetti negativi causati da tratta- menti sperimentati in modo inadeguato, non è certamente nostra intenzione minare la fiducia dei pazienti nei loro medici e nel perso- nale sanitario più in generale. Il nostro scopo è quello di migliorare la comunicazione e rinforzare la fiducia. Ma ciò si realizzerà se i pazienti potranno aiutare i loro medici a valutare criticamente le opzioni tra i trattamenti. Noi speriamo che tu, lettore, quando avrai finito di leggere questo libro, condividerai alcune delle nostre passio- ni e che continuerai a fare domande scomode sulle cure, che riuscirai a capire quali sono i vuoti della conoscenza medica e verrai coinvol- to in ricerche che forniranno risposte utili al bene comune.
  • 23. 1• NUOVO – MA NON NECESSARIAMENTE MIGLIORE O MAGARI ANCHE PEGGIORE Praticamente ogni settimana c’è una notizia che getta luce sull’ef- fetto collaterale imprevisto di un farmaco, su un errore chirurgico, su un’infezione dilagante o su una gravidanza non appropriatamente gestita. Alcuni critici vanno oltre: descrivono l’attuale medicina scientifica come disumanizzata, quasi che la macelleria che ha prece- duto la chirurgia moderna o i veleni che in passato venivano usati come farmaci fossero qualcosa di più umano.2 La medicina moderna ha oggi raggiunto importanti traguardi.3 Lo sviluppo di farmaci efficaci ha rivoluzionato il trattamento dell’infar- to e dell’ipertensione ed ha permesso a molte persone ammalate di schizofrenia di uscire dagli ospedali psichiatrici e di vivere a casa. L’efficacia dei farmaci per l’ulcera gastrica ha consentito di evitare molti interventi chirurgici destruenti e sono ormai passati alla storia trattamenti inutili come le diete a base di latte. Le vaccinazioni nel- l’infanzia hanno reso la poliomielite e la difterite un ricordo del pas- sato. Oggi è facile dimenticarsi che la leucemia ed altri tipi di cancro erano un tempo malattie invariabilmente fatali e oggi anche con altri tumori la norma è la sopravvivenza piuttosto che la morte. Una volta una malattia molto diffusa in Africa occidentale ed equatoriale, nota come “cecità dei fiumi”, causata dalla larva di un tipo di mosca, por- tava molte persone a questa condizione. Ora è stata praticamente era- dicata dalla terapia farmacologica. Anche le moderne tecniche di diagnostica per immagine hanno apportato miglioramenti significativi. L’ecografia, la tomografia com- puterizzata, la risonanza magnetica per immagini, sono state d’aiuto nell’assicurare una maggior accuratezza diagnostica e di conseguenza
  • 24. 2 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA un trattamento più appropriato. Ad esempio, la risonanza magnetica è in grado di rivelare il tipo di ictus da cui un paziente è stato colpito. Se l’ictus è causato da un sanguinamento cerebrale (ictus emorragi- co) l’aspirina, utile in altre varianti della malattia, potrebbe essere dannosa. Anche le tecniche chirurgiche e anestesiologiche hanno fatto notevoli passi in avanti. Le protesi articolari ed il trapianto d’or- gano sono diventati di uso comune. Ovviamente molti miglioramen- ti nel campo della salute sono conseguenti a quelli raggiunti in ambi- to sociale e di sanità pubblica, come la distribuzione di acqua potabi- le, le procedure di disinfezione e le migliori condizioni abitative ed alimentari. Nonostante ciò alcuni scettici vorrebbero negare l’im- menso impatto della medicina moderna. Buona parte dell’aumento della nostra aspettativa di vita può essere attribuita, dalla metà del secolo scorso, al miglioramento delle cure sanitarie e lo stesso si può dire del miglioramento della qualità della vita di chi soffre di malat- tie croniche.4 Ma, ancora adesso, troppe scelte fatte in medicina sono basate su prove di efficacia mediocri. Inoltre ci sono ancora troppe terapie mediche che provocano danni ai pazienti e trattamenti validi che invece non sono sufficientemente utilizzati (vedi dopo e Capitolo 5). L’ideazione di nuovi trattamenti si accompagna quasi invariabil- mente ad incertezze relative ai loro effetti e alla loro efficacia – è molto raro che gli effetti dei trattamenti siano chiaramente e indubi- tabilmente evidenti. Ne discende la necessità di utilizzare sperimen- tazioni corrette ed accurate per identificare quali risultati siano affi- dabili (vedi Capitolo 3). Senza una valutazione corretta – priva ossia di errori sistematici – si rischia di considerare utili trattamenti inutili o addirittura dannosi e, per converso, trattamenti utili rischiano di essere abbandonati come privi di efficacia. Non è sufficiente che una teoria sull’efficacia di un trattamento suoni convincente, deve essere provata. Infatti, alcune teorie che avevano predetto l’efficacia di un trattamento sono state smentite da prove successive, così com’è acca- duto anche il contrario. In tutto ciò non vi è nulla di nuovo: nel 18° secolo James Lind uti- lizzò un esperimento adeguato per confrontare i trattamenti utilizzati nel combattere lo scorbuto, malattia mortale per un gran numero di marinai durante i lunghi viaggi. Egli dimostrò che arance e limoni (poiché contengono vitamina C) costituivano la cura più efficace. In sostanza Lind condusse quel che oggi chiamiamo “studio controllato”.
  • 25. Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore 3 Nel 1747, mentre prestava servizio in qualità di medico di bordo sul vascello Salisbury della IV flotta di Sua Maestà, James Lind reclutò 12 dei suoi pazienti, del tutto simili tra loro rispetto allo sta- dio della malattia, li alloggiò nella stessa parte della nave e assicurò loro la stessa dieta di base. Questo permise di realizzare una situazio- ne fondamentale per assicurare la validità di qualsiasi studio, ossia la creazione di un gruppo con le stesse caratteristiche di base (vedi Capitolo 3 e Capitolo 4, riquadro a pagina 72). Poi Lind costituì sei gruppi di due marinai, assegnando ad ogni gruppo uno dei sei tratta- menti che erano allora in uso per lo scorbuto – sidro, acido solforico diluito, aceto, acqua di mare, noce moscata oppure due arance ed un limone. Gli agrumi conseguirono una vittoria schiacciante e più tardi LA MORTE DI RE CARLO II Sir Raymond Crawfurd (1865-1938) ha scritto un vivido racconto della morte di Re Carlo II avvenuta nel 1685. Il Re era stato colpito da un ictus. I suoi medici avevano prontamente intrapreso delle terapie crudeli: “Furono rimosse sedici once di sangue da una vena del braccio destro del Re con immediato beneficio. Seguendo la procedura terapeutica dell’epo- ca, il Re fu lasciato seduto sulla poltrona dove lo colpirono le convulsioni. I suoi denti vennero mantenuti forzatamente aperti per evitare che si mor- desse la lingua. Questo regime terapeutico fu mantenuto dapprima per risvegliarlo e poi per impedirgli di addormentarsi, secondo quanto minuzio- samente descritto da Roger North. Furono inviati dispacci urgenti ai nume- rosi medici personali del Re, che accorsero per prestare assistenza; furono convocati indipendentemente dal credo religioso o politico. Questi ordina- rono che fossero applicate alle spalle del Re delle coppette di vetro e che gli fossero praticate delle scarificazioni profonde da cui rimuovere altre otto once di sangue. Gli fu somministrato un forte emetico antimoniale [un farmaco che causa il vomito], ma dal momento che il Re era in grado di deglutirne solo una minima parte, per essere doppiamente sicuri delle cure prestate, i medici gli somministrarono una dose piena di solfato di zinco. Gli furono somministrati dei forti purganti, completati poi da clisteri. Gli furono rasati i capelli e gli furono conficcati aghi su tutta la testa. E dal momento che tutto ciò non sembrava sufficiente, gli fu anche imposto un cauterio incandescente. Il Re fu grato di essere stato incosciente fino alla morte”. Crawfurd R. Last days of Charles II. Oxford: The Clarendon Press, 1909
  • 26. 4 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA l’Ammiragliato ordinò che fosse fornito succo di limone a tutte le navi, con il risultato che, verso la fine del 18° secolo, la malattia mor- tale fu debellata tra le fila della Reale Marina Britannica. Tra i tratta- menti che Lind aveva messo a confronto, il Royal College of Physicians preferiva l’acido solforico, mentre l’Ammiragliato prefe- riva l’aceto – Lind con una sperimentazione adeguata mostrò che entrambe le autorità si sbagliavano. E non di rado le autorità mediche si sbagliano (vedi dopo e Capitoli 2, 5 e 6). Incertezze simili sugli effetti dei trattamenti vengono oggi spesso messe in luce quando medici diversi scelgono differenti approcci terapeutici per una stessa malattia (vedi Capitolo 4). Nel chiarire tali incertezze sia i pazienti sia i medici giocano un ruolo importante. È indubitabile che sia nell’interesse tanto dei pazienti, quanto dei medi- ci, che la ricerca nel campo dei trattamenti venga condotta in modo rigoroso. Tanto i medici quanto i pazienti dovrebbero assicurarsi che le raccomandazioni di trattamento si basino su prove di efficacia. Solo se si creerà questa alleanza, il pubblico potrà avere fiducia in tutto ciò che la medicina moderna può offrirgli (vedi Capitolo 7). EFFETTI INDESIDERATI INATTESI C’è stata un’epoca in cui i medici erano incerti sull’utilità di som- ministrare a donne gravide, con storia di precedenti aborti o di bam- bini nati morti, un estrogeno di sintesi (non naturale), il dietilstilbe- strolo (DES). Alcuni medici lo prescrivevano, altri no. Il DES diven- ne popolare agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso e venne utiliz- zato per il trattamento delle disfunzioni placentari, allora considerate all’origine dei suddetti esiti negativi della gravidanza. Tale utilizzo fu incoraggiato dalle storie di donne che, avendo avuto precedenti aborti o nati morti, avevano condotto a termine felicemente la gravi- danza dopo il trattamento con DES. Ad esempio, un ostetrico inglese prescrisse il DES fin dall’inizio di una nuova gravidanza ad una donna che nelle due precedenti aveva partorito bambini nati morti. Questa nuova gestazione termi- nò con la nascita di un figlio vivo. Durante la quarta gravidanza l’ostetrico non prescrisse il DES, pensando che nel periodo intercor- so fossero migliorate le “naturali” capacità della donna di portare a termine la gravidanza con successo; il bambino morì in utero per
  • 27. Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore 5 “insufficienza placentare”. Quindi durante la quinta e la sesta gravi- danza né l’ostetrico, né la donna ebbero dubbi sull’utilità di assume- re il DES ed entrambe le gravidanze terminarono con la nascita di due bambini vivi. Sia il medico che la donna giunsero alla conclu- sione che il farmaco era utile. Sfortunatamente questa conclusione non fu mai suffragata da prove di efficacia derivate dagli studi privi di errori sistematici che, invero, furono condotti e descritti negli anni in cui alle donne è stato somministrato il DES.5 Ma ciò che è ancor peggio, circa vent’anni dopo, la madre di una giovane donna colpita da una rara forma di neoplasia vaginale sugge- rì che il cancro della figlia potesse essere attribuibile al DES, che le era stato prescritto durante la gravidanza da cui la ragazza era venu- ta alla luce.6 Da allora numerosi studi hanno evidenziato un’ampia gamma di effetti collaterali del DES, anche gravi, sia in uomini sia in donne esposti in utero al farmaco e che includono non solo un aumen- to della frequenza di forme rare di neoplasia, ma anche anomalie del sistema riproduttivo. Durante il periodo di tempo occorso per dichia- rare ufficialmente che il DES non avrebbe dovuto essere sommini- strato in gravidanza, diversi milioni di uomini e di donne sono stati esposti a questo farmaco durante la vita intrauterina. Alla luce delle attuali conoscenze, se i medici avessero saputo identificare gli studi più affidabili sul DES, già disponibili negli anni ’50, lo avrebbero prescritto molto meno. Inoltre non è mai stato dimostrato che il DES fosse effettivamente efficace nelle condizioni per cui inizialmente veniva prescritto. Tragicamente, questa scarsità di prove sui benefici è stata ampiamente trascurata.7 Un altro esempio agghiacciante di terapia medica che ha prodotto più danni che benefici è quello della talidomide.8 Questa pillola per dormire fu introdotta negli ultimi anni ’50 come un’alternativa sicu- ra ai barbiturici, all’epoca prescritti regolarmente; al contrario dei barbiturici un’overdose di talidomide non induceva il coma. La pre- scrizione della talidomide venne raccomandata nelle donne gravide e fu anche utilizzata per alleviare le nausee mattutine. Poi, nei primi anni ’60, gli ostetrici cominciarono a rilevare nei neo- nati numerosi casi di malformazioni degli arti. Questa condizione, considerata prima rara, si manifestava con arti talmente corti che le mani e i piedi sembravano nascere direttamente dal corpo. Alcuni medici, in Germania e in Australia, associarono questa malformazione
  • 28. 6 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA UNA TRAGICA EPIDEMIA DI CECITÀ NEI BAMBINI Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale furono introdotti numerosi nuovi tratta- menti per migliorare le prospettive di vita dei bambini nati prematuri. Pochi anni dopo divenne dolorosamente chiaro che un certo numero di innovazioni terapeuti- che avevano prodotto effetti dannosi totalmente inattesi. La più evidente di queste tragiche esperienze di cura fu un’epidemia di cecità, causata dalla fibrodisplasia retrolenticolare, negli anni compresi tra il 1942 e il 1954. Si scoprì che la malattia era associata al modo in cui veniva somministrato l’ossigeno necessario alla cura dei neonati non completamente sviluppati. I dodici anni impiegati nella lotta per fermare l’epidemia dimostrarono chiaramente la necessità di pianificare la valuta- zione di ogni innovazione medica prima di accettarla nella pratica generale. Silverman WA. Human experimentation: a guided step into the unknown. Oxford: Oxford University Press, 1985: vii-viii dei bambini con l’assunzione materna della talidomide nelle prime fasi della gravidanza. La mamma di uno dei bimbi tedeschi malati ebbe un ruolo cruciale in questa scoperta – raccontò di aver provato un senso di debolezza associato a parestesie delle mani e dei piedi quando assu- meva il farmaco – inducendo così i medici a riflettere. Alla fine del 1961, l’industria farmaceutica ritirò la talidomide dal commercio. Molti anni più tardi, dopo campagne pubbliche e azioni legali, le vittime cominciarono a ricevere risarcimenti. L’impatto di queste devastanti anomalie fu immenso – in oltre 46 paesi dove la talidomide fu prescritta (ed in alcuni paesi venduta anche senza pre- scrizione medica), migliaia di bambini si ammalarono. La tragedia della talidomide scioccò i medici, l’industria farmaceutica ed i pazienti e portò ad una revisione del processo di sviluppo e di regi- strazione dei farmaci a livello mondiale.9 Il caso del practololo non è famoso come quello della talidomide, ma ha provocato dei danni immensi. Il practololo appartiene ad un gruppo di farmaci detti betabloccanti, usati sia nel trattamento delle patologie cardiache causate da un insufficiente afflusso di sangue al cuore, sia nel controllo delle irregolarità del ritmo cardiaco. Quando il primo betabloccante venne introdotto in commercio, furono nume- rose le avvertenze affinché non venisse usato in pazienti asmatici per- ché peggiorava le difficoltà respiratorie. I betabloccanti possono inol- tre indurre depressione nei pazienti – “depressione da betabloccanti”.
  • 29. Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore 7 Quando il practololo venne commercializzato, fu prescritto dopo spe- rimentazioni su animali e brevi studi clinici su pazienti e venne pub- blicizzato come dotato di una maggior specificità d’azione sul cuore rispetto ai farmaci precedenti e insieme di maggior sicurezza nei pazienti asmatici. Inoltre, causava meno depressione. Alla luce di tutto ciò sembrava essere estremamente promettente. Ma dopo quattro anni venne alla luce una costellazione di effetti collaterali, noti come sindrome da practololo, in alcuni dei pazienti che avevano ricevuto il farmaco.10 Questi comprendevano complican- ze oculari, come secchezza oculare per riduzione della secrezione lacrimale, congiuntiviti e danni corneali che portavano ad una dimi- nuzione della capacità visiva. Furono descritte anche reazioni cuta- nee, sordità e una condizione molto grave nota come peritonite scle- rotizzante, in cui la membrana peritoneale (quella sottile membrana che riveste la cavità interna dell’addome) si organizza in masse di tes- suto fibroso che strozzano l’intestino e gli altri organi addominali. Con il senno di poi, ci si avvide che fin dal primo utilizzo clinico del practololo, i pazienti avevano riferito sintomi oculari ai loro medi- ci di medicina generale, ma questi non li associarono al farmaco. IL PROGETTO YELLOW CARD Il progetto Yellow Card fu lanciato in Gran Bretagna nel 1964, dopo che le mal- formazioni prodotte dalla talidomide nei neonati dimostrarono quanto fosse importante monitorare i danni indotti da un farmaco, anche dopo la sua registra- zione. Da allora, 400.000 segnalazioni sono state registrate dal Comitato per la Sicurezza dei Medicinali (Committee on Safety of Medicine), un’unità del Ministero della Salute che riceve ed analizza i risultati. Inizialmente, solo i medi- ci pratici potevano redigere i rapporti, ma in seguito anche infermieri, farmacisti, medici legali, dentisti, radiologi e oculisti sono stati incoraggiati a registrare e spedire i moduli. E, in seguito ad una revisione del progetto avvenuta lo scorso anno, anche i pazienti e chi presta loro assistenza sono ora invitati a registrare le reazioni avverse sospette nell’ambito di un progetto pilota che ha preso il via il mese scorso sul sito www.yellowcard.gov.uk. Non solo è possibile compilare online il modulo, ma è anche possibile visionare quelli stilati da altre persone. Ciò fornisce la possibilità di avere un quadro generale di quel che accade con l’utiliz- zo di un particolare farmaco, pur ricordando che gli eventi registrati sono solo sospetti. McCartney M. Doctor’s notes, The Guardian: Health, 2005, Feb 8, p. 9.
  • 30. 8 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Questo ritardo nel riconoscimento fu pagato a caro prezzo – quando l’industria ritirò il farmaco nel 1975, aveva fatto almeno 7 mila vitti- me nella sola Gran Bretagna. Trent’anni dopo, le regole per la sperimentazione farmacologica sono diventate considerevolmente più restrittive, quindi com’è possi- bile che questo accada ancora? Le probabilità sono sicuramente infe- riori, ma anche applicando le migliori procedure per le sperimentazio- ni sui farmaci non ci possono essere garanzie assolute sulla sicurezza. La storia del practololo ci fornisce un esempio che rimane valido anche oggi – le osservazioni dei pazienti e gli avvisi dei clinici riman- gono di vitale importanza nell’identificazione delle reazioni avverse sui farmaci.11 EFFETTI SPERATI, CHE POI NON SI REALIZZANO Non pensiate che solo i farmaci possano provocare danni – anche i consigli possono essere letali. Molte persone hanno sentito parlare del pediatra statunitense Benjamin Spock – il suo libro campione di ven- dite, Baby and Child Care, divenne una bibbia sia per i professionisti sia per le famiglie. Nell’offrire una delle sue pillole di saggezza il dot- tor Spock fece un grosso errore. Con una logica apparentemente irre- futabile – e certamente associata ad un certo grado di autorevolezza – nel suo libro, a partire dall’edizione del 1956 in poi, arguiva: “Ci sono due svantaggi nel far dormire il bambino sulla schiena. In caso di vomito è più probabile che ne venga soffocato. Inoltre il bambino tende a tenere il capo girato sempre dallo stesso lato … e ciò potreb- be schiacciare quel lato della testa… io penso che sia preferibile porre il bambino a dormire sulla pancia fin dall’inizio.” Divenne pratica comune in tutti gli ospedali mettere i bambini a dormire sulla pancia e questo consiglio fu rispettosamente seguito anche a casa da milioni di genitori. Ma sappiamo che tale pratica – mai valutata in modo rigoroso – è stata la causa di migliaia di morti in culla che potevano essere evitate.12 Benché non tutte queste morti siano da attribuirsi a quello sfortunato consiglio, quando tale pratica fu abbandonata e fu promosso il suggerimento contrario, ci fu un radicale declino della mortalità per questa causa. Quando negli anni ’80 emersero delle prove chiare sugli effetti dannosi del far dormire il bimbo sulla pancia, i medici ed i media iniziarono a mettere in
  • 31. Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore 9 guardia i genitori su tale pericolo ed il numero delle morti cominciò a calare drasticamente. Il messaggio venne poi rinforzato attraverso la campagna “Dormire sulla schiena” mirata a rimuovere una volta per tutte la cattiva influenza esercitata dal deplorevole suggerimento del dottor Spock. Il consiglio del dottor Spock poteva sembrare logico, ma era basa- to su una teoria non sperimentata. Non è difficile trovare altri esem- pi dei pericoli cui espone un simile modo di pensare. Dopo aver avuto un infarto cardiaco alcune persone possono sviluppare alterazioni del ritmo cardiaco – aritmie. Alcune di queste possono portare rapida- mente a morte, mentre altre no. Poiché ci sono farmaci capaci di fer- mare queste aritmie, sembrerebbe logico supporre che essi siano anche in grado di ridurre la mortalità precoce in seguito ad infarto cardiaco. In realtà tali farmaci hanno l’effetto opposto. Questi farma- ci furono sperimentati in studi clinici controllati, ma solo per verifi- carne la capacità di ridurre le aritmie. Quando le prove accumulate attraverso diversi studi furono riviste in modo sistematico nel 1983, non emersero prove che tali farmaci riducessero la mortalità.13 Nonostante ciò essi continuarono ad essere utilizzati – e ad uccidere persone – per circa un decennio. Al momento del picco del loro uti- lizzo, alla fine degli anni ’80, si stima che avessero causato decine di migliaia di morti premature ogni anno negli USA. Questi farmaci avevano ucciso ogni anno più Americani di quanti ne fossero stati uccisi in azione durante la guerra del Vietnam.14 Più tardi emerse che, per motivi commerciali, non erano mai stati resi noti i risultati di alcuni studi che suggerivano la letalità del farmaco.15 Se esistesse la possibilità di limitare l’entità del danno cerebrale nei pazienti colpiti da ictus, si potrebbe ridurre la disabilità che ne conse- gue. Negli anni ’80, un farmaco chiamato nimodipina, appartenente ai cosiddetti calcioantagonisti, fu sperimentato per questo fine in pazienti colpiti da ictus; alcuni esperimenti sugli animali avevano dato risultati incoraggianti. Quando uno studio clinico, pubblicato nel 1988, suggerì degli effetti positivi sembrò prospettarsi un futuro ful- gido per la nimodipina. Altri studi clinici fornivano tuttavia risultati in contrasto fra loro. Una possibile spiegazione poteva essere legata al maggior beneficio tratto dalla somministrazione precoce del farma- co dopo l’avvenuto ictus e una revisione degli studi sembrò confer- mare tale ipotesi. Ma quando le prove derivate dalle ricerche giunse- ro a coinvolgere circa 8.000 pazienti, non furono rilevati effetti posi-
  • 32. 10 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA tivi del farmaco, anche se somministrato precocemente.16 Com’è potuto accadere che l’uso della nimodipina si sia basato su prove soli- de solo in apparenza? Quando, alla luce degli studi condotti sui pazienti, sono stati rivisti per la prima volta sistematicamente i risul- tati di quelli condotti su animali17 divenne chiaro che essi erano dubbi fin dall’inizio. Quindi già da allora non ci sarebbero state buone ragioni per intraprendere studi su pazienti affetti da ictus (vedi Capitolo 5). Nelle donne che stanno per entrare in menopausa, la terapia ormo- nale sostitutiva (TOS) è molto efficace nel ridurre lo stress dovuto alle vampate, esperienza comune a molte donne, e ci sono prove che potrebbe essere efficace nel prevenire l’osteoporosi. Gradualmente sono stati annunciati sempre più numerosi effetti positivi della TOS, inclusa la protezione dall’infarto cardiaco e dall’ictus. E milioni di donne, consigliate dai loro medici, hanno cominciato ad utilizzare la UNA RACCOMANDAZIONE BASATA SU UNA TEORIA NON VALIDATA PUÒ UCCIDERE La raccomandazione di mettere a dormire i bambini sull’addome prese slancio negli USA con l’edizione del 1956 di A Baby’s First Year del dottor Spock. Una raccomandazione simile fu formulata in Europa ed in Australasia circa dieci anni più tardi e fu seguito da un costante incremento nell’incidenza di SIDS [Sudden Infanth Death Sindrome; morte improvvisa in culla] durante gli anni ’70 e ’80, proporzionale al numero di bambini posizionati sulla pancia. Nel 1970 le prove di efficacia furono riviste in maniera sistematica, dimostrando un rischio di SIDS tre volte più elevato nei bambini messi a dormire sulla pancia rispetto a quelli in qua- lunque altra posizione. Per altro, pochi ricercatori sarebbero potuti venire a cono- scenza di questi risultati perché un primo resoconto fu reso disponibile solo nel 1988. Ma soltanto dai primi anni ’90 fu lanciata la campagna “Dormire sulla schiena”, dopo che l’incidenza della SIDS diminuì di circa il 70% nelle aree in cui i ricercatori avevano fornito il consiglio opposto a quello del dottor Spock. In Gran Bretagna questo avveniva 21 anni dopo la prima prova chiara di danno, al costo di almeno 11 mila morti evitabili tra i bambini. Negli USA, dove dormire sulla pancia è stato comune per più lungo tempo, le morti potrebbero essere state molte di più. Adattato da Gilbert R, Salanti G, Harden M, See S. Infant sleeping position and the sudden infant death syndrome: systematic review of observational studies and historical review of clinicians’ recommendations from 1940-2000.
  • 33. Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore 11 TOS per periodi prolungati proprio per i benefici che si diceva potes- se offrire. Tuttavia le basi di queste affermazioni erano davvero pre- carie. Consideriamo anche solo l’infarto miocardico. Per più di 20 anni è stato detto alle donne che la TOS avrebbe ridotto il rischio di que- sta malattia – però questa raccomandazione era basata sui risultati di studi viziati da errori (vedi sopra e il Capitolo 3, box a pagina 36). Poi nel 1997 fu lanciato un allarme sulla possibilità che questo pare- re potesse essere sbagliato: ricercatori finlandesi ed inglesi rividero sistematicamente i risultati degli studi di buona qualità. Essi trovaro- no che, invece di ridurre la malattia cardiaca, la TOS avrebbe potuto aumentarla. Alcuni commentatori importanti contestarono queste conclusioni, ma quei risultati, allora preliminari, sono stati ora con- fermati da due studi privi di errori sistematici e di grandi dimensio- ni. Se gli effetti della TOS fossero stati valutati in modo appropriato quando venne introdotta la prima volta, le donne non sarebbero state malinformate e molte di esse non sarebbero morte prematuramente. A peggiorare le cose, le prove di buona qualità mostrano ora che la TOS aumenta il rischio di ictus e di sviluppo di cancro della mam- mella.19 In generale, la TOS continua ad essere un trattamento utile per i sintomi della menopausa. Tuttavia, è tragico che sia stata intensamen- te pubblicizzata per il fine specifico di ridurre infarto e ictus. Nonostante che il rischio del verificarsi di queste condizioni perico- lose sia modesto, il numero totale di donne affette è veramente molto grande, in quanto la TOS è stata prescritta diffusamente. Anche quando le terapie non adeguatamente sperimentate non uccidono o non provocano danni, possono far sprecare denaro. L’eczema è un problema della pelle fastidioso che colpisce sia i bam- bini sia gli adulti. Le lesioni della pelle sono sgradevoli alla vista e molto pruriginose. Benché l’uso delle creme a base di steroidi sia efficace in questa condizione, il loro uso non è scevro di preoccupa- zioni sugli effetti collaterali. Nei primi anni ’80, un olio naturale estratto da una pianta – olio di enotera (evening primrose oil) – emer- se come possibile alternativa gravata da minori effetti collaterali.20 L’olio di enotera contiene un acido grasso, detto acido gamma linole- nico (AGL), che potrebbe costituire una ragionevole base per il suo utilizzo. Un’ipotesi sulle cause della malattia era che nell’eczema la via di metabolizzazione dell’AGL fosse alterata.
  • 34. 12 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA NON C’È DA STUPIRSI CHE FOSSE CONFUSA Nel Gennaio 2004 una paziente che era stata sottoposta ad isterectomia scrisse questa lettera al Lancet: ‘Nel 1986 ho subito un intervento di isterectomia a causa di un fibroma. Il chirurgo mi tolse anche le ovaie e mi diagnosticò l’endometriosi. Poiché avevo solo 45 anni e la menopausa avrebbe avuto inizio immediatamente, mi fu prescritta la terapia ormonale sostitutiva (TOS). Per il primo anno assunsi estrogeni coniugati (Premarin), ma dal 1988 fino al 2001 mi furo- no applicati impianti contenenti estrogeni ogni 6 mesi, da parte del chirur- go che mi aveva operato. Ero sempre un po’ in dubbio su questo trattamen- to, perchè sentivo di non aver controllo su quello che mi sarebbe successo una volta che mi fosse stato fatto l’impianto e anche molti anni dopo soffrii di diversi episodi di cefalea. A parte questo mi sentivo bene. Tuttavia, il mio chirurgo mi assicurò che la TOS aveva così tanti vantaggi e che mi faceva così bene, che accettai. Con il passar del tempo, la TOS veniva descritta come capace di dare sempre più benefici e non era solo il farmaco ad uso sintomatico così come era stato prescritto nei primi anni di utilizzo. Faceva bene al cuore, per l’osteoporosi e difendeva dagli ictus. Ogni volta che mi recavo dal mio chirurgo, sembrava avesse sempre più prove sui vantaggi della TOS. Il mio chirurgo andò in pensione nel 2001 e andai dal mio medico del Servizio Sanitario Nazionale. Che shock! Mi disse l’esatto opposto del mio medico privato – che era una buona idea sospendere la TOS: poteva aumen- tare il rischio di malattia cardiaca, di ictus e cancro della mammella ed esse- re la causa della cefalea. Avevo ancora un impianto e poi passai al Premarin per un breve periodo, ma dopo ciò non ho assunto la TOS per circa 8 mesi. Il mio medico mi disse che era una mia decisione se assumerla o meno. Ero così confusa… Non riesco a capire come la TOS e tutti i suoi fantastici vantaggi possano essere stati capovolti in così poco tempo. Come può un profano come me essere in grado di fare una scelta pienamente consapevole? Ho passato molto tempo a discutere e a chiedermi se avrei dovuto continuare ad assu- mere la TOS, sebbene sinora non abbia sofferto di molti effetti negativi. Sono molto confusa da tutto ciò e sono sicura che altre donne stiano pro- vando la stessa sensazione.’ Huntingford CA. Confusion over benefits of hormone replacement therapy. Lancet 2004; 363: 332
  • 35. Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore 13 Così, in teoria, sarebbe stato utile fornire un supplemento di AGL. L’olio di borragine, conosciuto anche come starflower oil, contiene AGL in quantità anche maggiori e anche questo era raccomandato per l’eczema. L’AGL era sicuro, ma era efficace? Furono condotti numerosi studi per scoprirlo, ottenendo risultati contrastanti. Le prove pubblicate furono fortemente influenzate dagli studi sponsorizzati dalle aziende produttrici degli integratori. Nel 1995 il Ministero della Salute ingle- se chiese a ricercatori non legati ai produttori dell’olio di enotera di rivedere 20 studi pubblicati e non pubblicati. Non fu trovata alcuna prova di benefici. Il Ministero non rese mai pubblico il rapporto in quanto i produttori si opposero. Ma, cinque anni dopo, un’altra revi- sione sia dell’olio di enotera, sia dell’olio di borragine, condotta dagli stessi autori e questa volta pubblicata, mostrò che negli studi più ampi e più completi non c’erano prove convincenti del funzionamen- to di questo trattamento.21 C’era ancora un problema da rimuovere – forse l’AGL funzionava solo in dosi molto alte. Nel 2003, anche questi risultati furono risolti da uno studio attentamente condotto.22 Ironicamente, in contempora- nea alla pubblicazione dei risultati, l’Agenzia inglese per il Controllo dei Medicinali (Medicines Control Agency) ritirò nell’ottobre 2002 la autorizzazione al commercio dell’olio di enotera – un farmaco costo- so – in quanto non c’erano prove sulla sua utilità. È altrettanto importante non venire accecati dai clamori legati al successo per l’ultimo ritrovato tecnologico per una malattia poten- zialmente letale. Le gravi infezioni causate da certi batteri possono portare a complicanze molto gravi note come shock settico. Questo generalmente accade in persone con una malattia sottostante o in coloro il cui sistema immunitario non funziona correttamente. Nei pazienti con shock settico la pressione del sangue si abbassa a livelli molto pericolosi e gli organi più importanti ne risentono. Nonostante i trattamenti intensivi per l’infezione, quattro pazienti su cinque pos- sono morire.23 Sebbene non sia ancora noto quale batterio causi lo shock settico, lavori scientifici iniziati negli anni ’80 condussero ad una teoria che lo associava al malfunzionamento del sistema immunitario. Le infe- zioni batteriche più gravi sono causate da batteri gram-negativi (secondo il metodo standard di classificazione dei batteri). I batteri gram-negativi sono più frequentemente causa di shock settico, ma a
  • 36. 14 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA volte lo sono anche quelli gram-positivi. I batteri gram-negativi cau- sano lo shock settico attraverso il rilascio nel sangue di sostanze tos- siche chiamate endotossine e queste stimolano altre cellule a rilascia- re a loro volta delle sostanze chiamate citochine. Queste danneggia- no le pareti dei capillari, i piccoli vasi sanguigni che formano un reti- colo in tutto il corpo, causando in essi una falla, giungendo così allo shock e al calo della pressione. Sulla base del fatto che l’effetto dello shock settico sarebbe dimi- nuito, liberando il sangue dalle dannose endotossine e citochine, gli scienziati usarono gli ultimi ritrovati biotecnologici per creare gli anticorpi specifici al fine di neutralizzare in modo specifico gli effet- ti delle endotossine. Questi anticorpi furono prima testati negli ani- mali, con risultati incoraggianti: si sarebbe potuto prevenire lo shock da gram-negativi fornendo molto precocemente gli anticorpi nel corso dell’infezione. Tuttavia, i medici di fronte ad un paziente con shock settico si trovano nell’impossibilità di stabilire immediatamen- te se siano coinvolti batteri gram-negativi o gram-positivi. Possono essere infatti necessarie anche 72 ore per avere i risultati dei test. FACCIAMO LE COSE PERCHÉ… Noi [medici] facciamo le cose, perché gli altri medici le fanno e non vogliamo essere diversi, così le facciamo; o perché ci hanno insegnato a fare così [insegnan- ti, assistenti e giovani medici (residents)*]; o perché siamo stati costretti a farlo [da insegnanti, amministratori, regolatori, sviluppatori di linee guida] e pensiamo di doverlo fare; o perché i pazienti lo vogliono e noi pensiamo che dovremmo farlo; o a causa di ulteriori incentivi [test inutili (in particolare per le procedure spinte dai medici) e visite] e noi pensiamo che dovremmo farlo; o per paura [del sistema legale, degli audit] e noi pensiamo che dovremmo farlo [il cosiddetto cau- telarsi]; o perché abbiamo bisogno di tempo [per lasciare che la natura faccia il suo corso] e così lo facciamo; infine, e più comunemente, non applicando il buon senso, facciamo le cose perché qualcosa dobbiamo fare [giustificazione] e così lo facciamo. *Questo pezzo si riferisce al Nord America, dove un ‘resident’ è equivalente ad un giovane medico ospedaliero britannico. Parmar MS. We do thing because. British Medical Journal Rapid Response, 2004, March 1
  • 37. Nuovo – ma non necessariamente migliore o magari anche peggiore 15 Tuttavia, i risultati del primo studio privo di errori sistematici e ben condotto su pazienti fu descritto come un successo.24 Ma ben presto cominciarono ad emergere dei dubbi. Ad un’analisi più approfondita fu chiaro che i risultati non erano stati interpretati correttamente. Studi clinici successivi su anticorpi specifici non mostrarono alcun beneficio ed anzi alcune volte misero in luce anche un lieve effetto dannoso. Questi risultati negativi che andavano tutti nella stessa direzione in studi ben condotti misero in dubbio la teoria scientifica sul sistema immunitario nello shock settico, mostrando che la relazione fra endotossine, citochine e shock settico era molto più complessa rispetto a quanto originariamente immaginato. Non stupi- sce quindi che svanì l’entusiamo iniziale per l’uso degli anticorpi. MESSAGGI CHIAVE • Gli studi affetti da errori sistematici (scorretti) possono provocare malattie evitabili e morti premature • Né la teoria, né l’opinione professionale da sole costituiscono una guida affidabile per trattamenti sicuri ed efficaci • Le revisioni sistematiche degli studi sono essenziali per disegnare e comprendere le sperimentazioni sia umane che animali • I pazienti possono attirare l’attenzione sugli effetti inaspettati dei trattamenti.
  • 39. 2• UTILIZZATI SENZA ADEGUATA SPERIMENTAZIONE Nel Capitolo 1 abbiamo visto come alcune nuove terapie abbiano presentato inattesi effetti avversi; come in altre gli effetti sperati non si siano verificati e come fossero errate le previsioni sull’inefficacia di altri trattamenti. Questo capitolo descrive come i trattamenti comu- nemente usati possono non essere stati adeguatamente sperimentati. Come può accadere questo? Le cure per il tumore alla mammella – di cui parlano i media – ci danno alcune importanti lezioni. QUANDO DI PIÙ NON SIGNIFICA NECESSARIAMENTE MEGLIO Per tutto il 20° secolo e anche nel 21°, le donne con il tumore alla mammella hanno dovuto sopportare terapie estremamente brutali e dolorose. Queste terapie – sia chirurgiche sia mediche – andavano ben al di là di quanto fosse necessario per combattere la malattia. Ma erano anche indiscutibilmente popolari fra alcune pazienti e fra alcu- ni loro medici. Le pazienti erano convinte che quanto più la terapia fosse stata radicale o tossica, tanto più probabilmente la malattia sarebbe stata sconfitta. Dopo molti anni spettò a medici coraggiosi e a rappresentanti dei pazienti dare inizio ad un mutamento di corso in questa falsa convinzione. Loro dovettero non solo produrre prove attendibili per bandire il mito che “di più è meglio”, ma dovettero anche sopportare, oltre alla resistenza di eminenti colleghi, anche l’essere ridicolizzati dai loro pari. Ancora oggi sono la paura e la con- vinzione che fare di più corrisponda ad ottenere migliori risultati a
  • 40. 18 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA guidare la scelta dei trattamenti. Questo spinge alcune pazienti ed i loro medici ad adottare trattamenti “tradizionali” mutilanti e doloro- si, per i quali non ci sono prove di benefici maggiori rispetto ad approcci più semplici. Come può succedere tutto ciò? Fino alla metà del 20° secolo, la chirurgia costituì il trattamento principale per il tumore alla mammella. Questa si basava sull’assun- to che il tumore progredisse in modo lento e ordinato, partendo dal sito all’interno della mammella verso i linfonodi locali ascellari. Di conseguenza si pensò che, tanto più radicale e tempestiva fosse stata la chirurgia, tanto maggiori sarebbero state le probabilità di fermare la diffusione del tumore. Il trattamento era basato essenzialmente su di una chirurgia “locale” estensiva – ossia della mammella o delle aree vicino ad essa. Anche se era stata chiamata locale, la mastecto- mia radicale era tutt’altra cosa – infatti comportava la rimozione di ampie aree del muscolo pettorale e di molti dei linfonodi ascellari. Alcuni specialisti del cancro alla mammella attenti e scrupolosi nota- rono che questi interventi sempre più mutilanti non sembravano avere un impatto sulla mortalità per questa malattia. Nacque così una teoria diversa – che il cancro alla mammella, più che propagarsi ordinatamen- te attraverso i linfonodi più vicini, fosse sin dall’inizio una malattia sistemica. In altre parole, essi pensarono che le cellule tumorali, nel momento in cui la massa veniva scoperta, dovevano essere già presen- ti anche in altre parti nel corpo. Suggerirono che la rimozione del tumo- re con l’asportazione di un adeguato margine di tessuto sano, associa- to ad un ciclo di radioterapia, avrebbe avuto la stessa efficacia del trat- tamento radicale e sarebbe stata meno aggressiva per la donna. A quel IL TRATTAMENTO PIÙ AGGRESSIVO NON SEMPRE È IL MIGLIORE È molto facile, per chi di noi cura il cancro, immaginare che i migliori risultati siano conseguenti alle terapie più drastiche. Gli studi randomizzati che confron- tano i trattamenti più aggressivi con quelli che lo sono meno, sono vitali al fine di proteggere i pazienti da inutili rischi e dagli effetti collaterali, sia iniziali sia tar- divi, di inutili terapie aggressive. Il confronto è etico in quanto coloro cui vengo- no negati i possibili benefici, sono anche protetti dai possibili inutili danni – e alla fine nessuno sa quale di questi si verificherà. Rees G, ed. The friendly professional: selected writings of Thurstan Brewin. Bognor Regis: Eurocommunica, 1996
  • 41. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 19 tempo l’introduzione delle “terapie sistemiche” – ossia terapie per combattere lo sviluppo delle cellule tumorali in un’altra parte nel corpo – fu basata anche su questa nuova teoria della diffusione della malattia. Come diretto risultato di questo nuovo modo di pensare, i medici sostennero una chirurgia più limitata detta mastectomia parziale – ossia la rimozione del tumore e di un margine circostante di tessuto sano – seguita da radioterapia e in alcune donne da chemioterapia. Ma incontrarono un’enorme resistenza per confrontare il nuovo approccio con la chirurgia radicale. Alcuni medici credevano fermamente nell’uno o nell’altro approc- cio e i pazienti reclamavano l’uno o l’altro trattamento. Il risultato fu un forte ritardo nella produzione della prova decisiva sui vantaggi e svantaggi del nuovo trattamento proposto rispetto a quello vecchio. LA MASTECTOMIA RADICALE CLASSICA (HALSTED) La mastectomia radicale, inventata nel tardo 19° secolo da Sir William Halsted, fu il più comune intervento per il cancro della mammella fino a metà degli anni ’70. Insieme alla rimozione di tutta la mammella, il chirurgo toglieva anche il muscolo grande pettorale che copre la gabbia toracica. I più piccoli fra i muscoli pettorali minori venivano anch’essi rimossi per permettere al chirurgo un più faci- le accesso all’ascella al fine di svuotarla dei linfonodi e del grasso circostante. MASTECTOMIA RADICALE ESTESA In quel periodo, l’idea che ‘di più è meglio’ portò i chirurghi più estremi ad effet- tuare interventi ancora più estesi, nei quali venivano rimosse anche le catene dei linfonodi al di sotto della clavicola e i linfonodi della catena mammaria interna sotto lo sterno. Per arrivare ai linfonodi mammari interni venivano rimosse diver- se costole e lo sterno veniva spaccato con uno scalpello. Non soddisfatti, alcuni arrivarono ad eliminare il braccio della parte affetta e rimossero diverse ghiando- le nel corpo (le surrenali, l’ipofisi e le ovaie) al fine di sopprimere la produzione di ormoni che si pensava alimentassero la diffusione del tumore. Se una donna sopravviveva a questi interventi rimaneva con la gabbia toracica gravemente mutilata, difficilmente occultabile sotto qualunque tipo di vestito. Se l’intervento veniva fatto sul lato sinistro a coprire il cuore rimaneva solo un pic- colo lembo di pelle. Adattato da Lerner BH, The breast cancer wars: hope, fear and the pursuit of a cure in twentieth-century America. New York: Oxford University Press, 2003
  • 42. 20 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Tuttavia, nonostante queste difficoltà, questi eccessi della chirurgia sarebbero stati comunque messi in dubbio sia dai medici, che non volevano continuare con questi interventi dai benefici dubbi per le loro pazienti, sia dalle donne che non erano più disponibili a sottopor- si a queste mutilazioni. A metà degli anni ’50, George Crile, un chirurgo statunitense, aprì questa via rendendo pubblici i suoi dubbi sull’approccio “di più è meglio”. Credendo che non ci fosse un’altra via per spingere i medi- ci a pensare criticamente, Crile fece loro appello in un articolo sulla rivista Life.25 Ebbe ragione: il dibattito interno alla professione medi- ca si aprì all’opinione pubblica. Poi un altro chirurgo statunitense, Bernard Fisher, lavorando insieme a colleghi di altre specialità, dise- gnò una serie di rigorosi esperimenti per studiare la biologia del can- cro. I loro risultati suggerirono che le cellule tumorali potevano anche liberamente viaggiare attraverso il flusso plasmatico, molto prima della scoperta del cancro primario. Così, aveva poco senso far ricor- so ad una chirurgia sempre più aggressiva se il cancro era già presen- te altrove nel corpo. Mentre Crile usò il suo giudizio clinico per sostenere e adottare una terapia locale meno radicale, Fisher insieme ad un gruppo di ricercatori sempre più nutrito collaborò alla formulazione di un approccio più formale e rigoroso. Cercarono di provare o di negare il valore della chirurgia radicale attraverso il più noto metodo privo di errori sistematici (corretto) – gli studi clinici randomizzati e control- lati (vedi il Capitolo 3). Pensarono che conducendo questo tipo di studi la comunità scientifica e il pubblico si sarebbero convinti per l’uno o l’altro approccio. Nel 1971, Fisher dichiarò che i medici ave- vano una responsabilità morale ed etica nel sperimentare le loro teo- rie attraverso questi studi. E certamente a distanza di 20 anni il fol- low-up degli studi di Fisher mostrò, in termini di rischio di mortalità prematura, come il cancro alla mammella potesse essere trattato con la mastectomia parziale seguita dalla terapia radiante con la stessa efficacia della mastectomia radicale.26 Nel frattempo in Gran Bretagna, all’inizio degli anni ’60, venne condotto da Hedley Atkins e dai suoi colleghi del Guy’s Hospital il primo studio controllato e randomizzato (vedi il Capitolo 3 e il Capitolo 4, box a pagina 72) che confrontava la terapia che conserva- va la mammella con la mastectomia radicale classica. In modo simi- le agli americani, questo studio, nei 20 anni successivi alla diagnosi,
  • 43. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 21 mostrò che c’erano solo piccole differenze negli esiti fra i due tratta- menti. Altri studi randomizzati furono condotti in Svezia e in Italia, come in Gran Bretagna e Stati Uniti, per confrontare molte altre forme di trattamento – per esempio, la terapia radiante dopo la chi- rurgia rispetto alla sola chirurgia e la chemioterapia di breve periodo rispetto a quella di lungo periodo. Dal 1985, l’enorme mole di studi sul cancro alla mammella rese difficile per i medici rimanere aggiornati su tutti i risultati raggiunti. Per risolvere questo problema, Richard Peto e i suoi colleghi a Oxford condussero la prima revisione sistematica (vedi Capitolo 3) analizzando gli esiti di tutte le donne che avevano partecipato agli studi fino ad allora condotti.27 Tutti gli specialisti che curano il can- cro ed i cittadini hanno così la possibilità di accedere alla sintesi più recente delle prove prodotte a livello mondiale. Le revisioni sistema- tiche del trattamento per il cancro alla mammella vengono ora aggiornate e pubblicate regolarmente. Tuttavia, la fine di questa chirurgia mutilante non comportò la fine del pensiero “di più è meglio”. Negli ultimi due decenni del 20° seco- lo, ebbe un considerevole impatto un tipo di trattamento costituito da chemioterapia ad alte dosi seguita dal trapianto del midollo osseo o ‘terapia di salvataggio con cellule staminali’. Un rapporto speciale apparso sul New York Times nel 1999 riassunse le ragioni alla base di questo approccio: ‘I medici tolgono al paziente un po’ di midollo osseo o dei globuli rossi, poi li sottopongono a forti quantità di farmaci tossici, che distruggono il midollo. La speranza è che le alte dosi di farmaco eliminino il cancro e che il midollo salvato, una volta reimmesso nel corpo, si ricostituirà abbastanza velocemente da impedire che il paziente muoia per le infezioni. Una versio- ne di questa procedura, attraverso le donazioni di midollo osseo, si è dimo- strata da tempo efficace nei tumori del sangue, ma solo perché il cancro era nel midollo che veniva sostituito. L’uso di questo trattamento per il cancro alla mammella comporta un ragionamento completamente diverso e non provato.’28 In particolare negli Stati Uniti, migliaia di donne disperate fanno richiesta di questa terapia molto sgradevole a medici e ospedali che non aspettano altro che questo. Cinque pazienti su 100 muoiono in seguito a questo trattamento. Vengono spesi migliaia di dollari e parte
  • 44. 22 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA di questi soldi arrivano direttamente dalle tasche delle pazienti. Nonostante l’assenza di prove, alla fine alcune malate vengono rim- borsate dalle compagnie assicurative, che cedono alle loro pressioni. Molti ospedali e cliniche hanno fatto fortuna con questi soldi. Nel 1998, un ente ospedaliero ricavò 128 milioni di dollari, in gran parte derivanti dai suoi centri per la cura del cancro che facevano trapianti del midollo osseo. Per i medici statunitensi questa era una proficua fonte di reddito e prestigio e forniva anche un terreno molto ricco per le pubblicazioni scientifiche. La domanda insistente dei pazienti ali- mentò il mercato. La competizione fra gli ospedali privati per fornire questo trattamento fu intensa, anche attraverso la pubblicità di offer- te di trattamento a basso prezzo. Negli anni ’90, perfino i centri acca- demici statunitensi, che cercavano di reclutare i pazienti per le speri- mentazioni cliniche, offrivano questi trattamenti. Questi discutibili programmi divennero prodotti ad alta redditività per i centri per la cura del cancro. L’accesso indiscriminato a queste terapie non supportate da prove comportò un altro serio problema: non vi erano abbastanza pazienti disponibili a partecipare alle sperimentazioni per il confronto di que- sti trattamenti con le terapie standard. Ne risultò che per avere rispo- ste affidabili fu necessario aspettare più a lungo. LA DIFFICILE LOTTA PER OTTENERE PROVE DI EFFICACIA AFFIDABILI I ricercatori si aspettavano che si sarebbero impiegati circa tre anni per arruolare 1.000 donne nei due studi. Invece ci impiegarono sette anni… Questa non fu una sorpresa… Le pazienti arruolate negli studi clinici devono firmare un modulo di consenso in cui viene descritto che sono portatrici di una malattia con prognosi infausta e in cui si dice che non ci sono prove che i trapianti di midollo osseo diano risultati migliori rispetto alle terapie standard. Per entrare nello studio biso- gna affrontare questa realtà che non è mai facile. Ma se la paziente è sottoposta al trapianto al di fuori di uno studio con un gruppo di controllo, noto come studio randomizzato, medici entusiasti potrebbero dirle che il trapianto è in grado di sal- varle la vita. Benché queste pazienti abbiano il diritto a sapere la verità, è com- prensibile che non vadano dai medici che tolgono loro questa speranza. Adattato da Kolata G, Eichenwald K. Health business thrives on unproven treatment, leaving science behind. New York Time Special Report, 2 Ottobre 1999
  • 45. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 23 Nonostante la difficoltà nell’ottenere prove prive di errori sistema- tici in mezzo a simili pressioni, furono condotti alcuni studi clinici e altre prove furono riviste criticamente. Nel 2004, una revisione siste- matica dei risultati sino ad allora accumulati sulla chemioterapia ad alte dosi, seguita dal trapianto del midollo osseo, utilizzata come trat- tamento generale del cancro alla mammella, rilevò che non c’erano prove convincenti della sua utilità.29, 30 FARE UNO SCREENING PER SCOPRIRE UNA MALATTIA IN FASE INIZIALE IN PERSONE EVIDENTEMENTE SANE Lo screening rivolto a persone evidentemente sane per individuare i primi segni di una malattia sembra essere una cosa sensata – cosa potrebbe esserci di meglio per evitare le gravi conseguenze di una malattia e rimanere così in salute? Già molte patologie, specialmente i tumori, sono l’obiettivo di programmi di screening nazionali e numerose cliniche private promuovono controlli sulla salute – gene- ralmente una batteria di test di screening – sostenendo che questi aiu- teranno i loro clienti a stare bene. Così come alcuni screening sono utili – ad esempio, misurare la pressione del sangue – altri possono essere dannosi. Così, prima di buttarsi a capofitto in screening ad ampio raggio, è utile fermarsi un momento a considerare qual è il loro obiettivo. Il prin- cipale obiettivo degli screening individuali o di popolazione è quello di ridurre il rischio di morte o di serie disabilità legate ad una patologia, attraverso l’offerta di un test teso a identificare le persone che potran- no beneficiare di un trattamento.31 I criteri basilari per valutare il valo- re di un test di screening furono delineati nel 1968 in un documento della Organizzazione Mondiale della Sanità che è utile ricordare: • La malattia ricercata dovrebbe essere legata ad un problema di salute importante • Dovrebbe essere disponibile un trattamento efficace ed accettabile • Ci dovrebbero essere adeguate possibilità per la diagnosi e il trattamento delle anomalie identificate • Dovrebbe esserci uno stadio iniziale identificabile della malattia
  • 46. 24 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA • Ci dovrebbe essere un test valido • Il test dovrebbe essere accettabile per la popolazione • La storia naturale della malattia dovrebbe essere adeguatamente conosciuta • La probabilità di danni fisici o psicologici per i pazienti sottoposti allo screening dovrebbe essere inferiore alla probabilità dei benefici che ne derivano • Lo screening dovrebbe essere un processo continuo e disegnato in modo specifico per ogni progetto • Il programma di screening dovrebbe essere costo-efficace.32 Oggi, con il senno di poi si possono identificare tre importanti que- stioni contenute in questi principi. Primo, gli effetti negativi dello screening non vengono sufficientemente enfatizzati. Pochi test, se non nessuno, sono privi di rischi – nel senso che sono imperfetti nella loro capacità di identificare con certezza la malattia in esame. Per esempio, possono non identificare tutte o la maggior parte delle per- sone con la malattia e allora non sono abbastanza sensibili. O posso- no sovra-diagnosticare la malattia e allora non sono abbastanza spe- cifici. E quando una persona viene etichettata come portatrice di una certa malattia si trova spesso travolta in un vortice di altre indagini, ansie e a volte discriminazioni non giustificate, ad esempio da parte delle assicurazioni. Secondo, questi criteri sottolineano che dovrebbe essere disponibile un trattamento efficace e accettabile per la malat- tia – ancora molti trattamenti che sono accettati sono di valore non DA PERSONA A PAZIENTE Lo screening inevitabilmente trasformerà le persone positive al test in pazienti – una cosa da non prendere alla leggera. “Se un paziente chiede aiuto ad un medi- co, egli deve fare il massimo possibile e non sarà responsabile per i difetti nella conoscenza medica. Se, tuttavia, il medico avvia delle procedure di screening, si pone in una situazione molto diversa. Il medico, secondo noi, dovrebbe avere prove conclusive che lo screening può modificare la storia naturale della malattia in una quota significativa dei pazienti ad esso sottoposti”. Cochrane AL, Holland WW. Validation of screening procedures. British Medical Bulletin 1971; 27: 3-8
  • 47. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 25 provato. I trattamenti raccomandati che si basano sui risultati di que- sti screening imperfetti, inevitabilmente espongono a dei rischi. Terzo, questi criteri non enfatizzano il fatto che la decisione di intro- durre un programma di screening dovrebbe essere basata su prove di buona qualità.33 Quali lezioni si possono trarre dagli attuali programmi di scree- ning? L’esperienza dello screening per il neuroblastoma è istruttiva – un raro tumore maligno che colpisce prevalentemente i bambini. Questa malattia fu un allettante bersaglio per lo screening per quattro ragioni: (1) i bambini cui viene fatta diagnosi prima di un anno di vita hanno migliori prospettive di quelli diagnosticati più tardi; (2) i bam- bini con malattia avanzata stanno molto peggio rispetto a quelli con la malattia iniziale; (3) esiste un test di screening semplice e poco costoso che può essere effettuato misurando una sostanza nelle urine ricavata dai pannolini dei bambini e (4) il test identifica 9 bambini su 10 con il neuroblastoma.34 Lo screening di massa per il neuroblastoma venne introdotto per la prima volta in Giappone negli anni ’80, ma 20 anni più tardi non c’erano prove che esso riducesse la probabilità di morire per questo tumore. In Giappone lo screening venne iniziato senza il supporto di prove derivanti da studi clinici ben condotti e privi di errori. Al con- trario, studi clinici condotti in Canada e in Germania, che hanno coinvolto in tutto circa tre milioni di bambini, suggerirono che gli screening non offrivano benefici certi, mentre procuravano sicura- mente dei danni.35 I danni includevano trattamenti chirurgici e che- IL VERDETTO DELLA RIVISTA WHICH? SUGLI SCREENING Gli screening sanitari privati sono un affare enorme: spendiamo circa 65 milioni di sterline ogni anno per test che promettono di scoprire malattie nascoste. Molti di noi non capiscono esattamente cosa fa il test ma si fidano comunque. “È come portare la tua auto per un controllo periodico”, spiega il Dr Muir Gray, Direttore del Comitato Screening del Servizio Sanitario britannico (NHS). “Potresti non aver ben chiara l’utilità di tutti questi controlli, ma sai che ti potranno aiutare ad evitare un incidente”. Ma, in questo caso, così come per le cliniche private che ti farebbero credere che pagare per una montagna di controlli sanitari sia la chiave per mantenerti in salute, ci sono poche prove che ciò sia vero. Consumers’ Association. Health screens fail our tests. Which? Agosto 2004, pag. 10-12
  • 48. 26 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA mioterapia ingiustificati, entrambi gravati da importanti effetti avver- si non desiderati. Uno specialista, commentando i risultati canadesi e tedeschi, disse chiaramente: “Lo screening per il neuroblastoma mostra quanto facilmente si possa cade- re nella trappola di pensare che, poiché una malattia può essere identificata precocemente, lo screening debba necessariamente essere utile … I due studi dimostrano quanto lo screening per il neuroblastoma non solo fosse privo di valore, ma come portasse alla “sovra-diagnosi”, andando a identi- ficare tumori che sarebbero spontaneamente regrediti. Entrambi gli studi hanno mostrato come i bambini del gruppo sottoposto allo screening hanno sofferto di importanti complicanze legate al trattamento … La speranza è che questa esperienza sia di lezione, quando si considererà l’implementazio- ne di altri programmi di screening, come per esempio lo screening del can- cro alla prostata.”36 Il cancro della prostata è molto diverso dal neuroblastoma – è un cancro comune che colpisce gli uomini adulti (in Inghilterra e in Galles è il secondo cancro più comune fra gli uomini).37 Anche qui dovrebbero essere applicati gli stessi principi dello screening. Così che valore ha lo screening per il cancro alla prostata? Un aumento nel sangue del livello di una sostanza detta antigene prostatico specifico (PSA) è associato ad un aumento del rischio di morte per questo tumore. Ma non ci sono studi pubblicati privi di errore e ben condot- ti che mostrino che l’identificazione precoce migliori gli esiti.38 Tuttavia, è chiaro che il test del PSA può causare dei danni. Alcuni uomini saranno sottoposti a cure inutili, quando i loro tumori sono troppo avanzati; altri saranno trattati inutilmente, in caso di cancro della prostata che non avrebbe rappresentato per loro un pericolo per la salute o per la vita. In entrambi i casi, la terapia effettuata come risultato di un aumento del PSA può causare dolorosi effetti collate- rali come incontinenza e impotenza. Negli Stati Uniti e in Italia, ad esempio, è stato misurato il PSA ad almeno un terzo degli uomini sani con più di 50 anni. Negli Stati Uniti la lobby a favore del PSA– che include il pubblico, i pazienti ed i medici – è particolarmente potente. Nel 2001, il San Francisco Chronicle pubblicò un articolo sul manager della squadra locale di baseball. Era stato da poco sottoposto al trattamento chirurgico per il cancro della prostata dopo che i risultati del test PSA erano risultati
  • 49. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 27 COME LE PERSONE VALUTANO I BENEFICI E I DANNI DEGLI SCREENING Le persone valuteranno in modo diverso i benefici e i danni degli screening. Ad esempio, una donna incinta che sta considerando lo screening per la sindrome di Down, può fare scelte diverse sulla base del valore che dà al rischio di avere un bambino con sindrome di Down rispetto al rischio di avere un aborto iatrogeno (causato inavvertitamente dal medico) in seguito all’amniocentesi. Gli individui che scelgono di partecipare ai programmi di screening traggono beneficio (secondo il loro punto di vista) dal parteciparvi, mentre altri individui traggono beneficio (secondo il loro punto di vista) dal non parteciparvi. Gli indi- vidui possono fare la scelta giusta solo se hanno accesso ad una informazione di qualità elevata sui rischi e sui danni dello screening e se sono in grado di valuta- re questa informazione. Barratt A, Irwig L, Glasziou P, et al. Users’ guides to the medical literature. XVII. How to use guidelines and recommendations about screening. Journal of the American Medical Association 1999; 281: 2029-33 ‘positivi’. L’articolo presentava lo screening per il PSA sotto una luce molto positiva, mentre gli svantaggi non venivano citati. Cercando di correggere l’opinione eccessivamente ottimistica di questo screening che i lettori avrebbero potuto farsi dalla lettura dell’articolo, due medici contattarono la rivista sostenendo che esso non rifletteva la forte controversia intorno a questo screening. Così furono invitati a scrivere un articolo che discutesse le ragioni per cui gli uomini non dovevano sottoporsi allo screening. Questo articolo provocò una levata di studi. In poche ore dalla pub- blicazione risposero in massa le associazioni per il cancro della pro- stata, i gruppi di supporto ai pazienti e gli urologi. I medici che ave- vano scritto l’articolo furono sommersi da messaggi di posta elettro- nica ingiuriosi, che li comparavano al medico nazista Mengele, accu- sandoli della responsabilità della morte di centinaia di migliaia di uomini. Si stupirono per aver provocato questa feroce reazione e scrissero: ‘Un motivo è che i gruppi a sostegno del PSA sono ferma- mente convinti che il test di routine sia positivo per la salute degli uomini. Vorrebbero pensare che lo screening faccia realmente molta differenza. Abbiamo irritato questo gruppo perché abbiamo messo in dubbio la loro convinzione. Abbiamo pestato i piedi ad una ricca e potente lobby a favore degli screening, che fa soldi invitando gli
  • 50. 28 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA uomini a sottoporsi al test. Anche alcuni dei gruppi di supporto dei pazienti hanno un conflitto di interesse, poiché contano sul supporto dell’industria farmaceutica.’39 LA MEDICINA BASATA SULLE PROVE SOTTO ACCUSA Nel 1999, uno specializzando in medicina generale negli USA sottopose un 53enne ad un esame obiettivo. Discusse con lui, come documentò nella sua car- tella clinica, l’importanza dello screening per il cancro del colon retto, dell’uso delle cinture di sicurezza, delle cure dentarie, dell’esercizio fisico, della dieta e dell’uso degli occhiali da sole. Descrisse anche i rischi e i benefici dello screening del cancro alla prostata. Poi non lo rivide mai più. Il paziente andò da un secondo medico, che gli ordinò il test per il PSA senza discutere con lui i possibili benefici e rischi dello screening. Il livello di PSA risultò molto elevato e all’uomo fu riscontrato successivamente un cancro avan- zato della prostata non curabile. Sebbene non ci siano prove che la scoperta pre- coce avrebbe cambiato l’esito di questo paziente, egli citò in giudizio il primo medico e tutto il programma di formazione dei medici in medicina generale. Le parole del medico ci raccontano il resto della storia: “Sebbene disponessimo di raccomandazioni da parte di diversi gruppi a livello nazionale che supportano il mio approccio, e la letteratura fosse chiara sulle controversie rispetto allo scree- ning della prostata, l’avvocato di parte civile la pensò diversamente…Il problema posto dal querelante era che non avevo applicato gli standard assistenziali prati- cati nello Stato della Virginia. Quattro medici testimoniarono che quando visita- no un paziente con più di 50 anni, non discutono con lui sullo screening della pro- stata: semplicemente prescrivono il test. Questa fu un’argomentazione convincen- te, in quanto con tutta probabilità più del 50% dei medici si comporta in questo modo. Si sarebbe potuto sostenere che essi stavano operando al di sotto gli stan- dard assistenziali, ma non c’erano precedenti legali per tale argomentazione… sette giorni dopo l’inizio del processo, fui prosciolto. Il programma di formazio- ne fu indicato responsabile per 1 milione di dollari... Per come la vedo io, l’unica via per praticare la medicina è utilizzare le migliori prove disponibili e fornirle ai miei pazienti. Per come la vedo io, l’unica via per rapportarsi ai pazienti è attra- verso l’uso del modello decisionale condiviso. Per come la vedo io, l’unica via per stare dentro uno studio medico è quello di vedere il paziente nella sua interez- za e non come ad un potenziale querelante. Per come la vedo io, non sono sicuro di voler fare ancora il medico in futuro.” Merenstein D. Winners and losers. Journal of the American Medical Association 2004; 291: 15-16
  • 51. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 29 Cosa dire dello screening per la fibrosi cistica dei neonati? Questa malattia che mette a rischio la vita generalmente produce sintomi dalla prima infanzia. Fra le altre complicanze, porta a infezioni pol- monari croniche e debilitanti con possibili danni permanenti ai pol- moni, incapacità di assorbire il cibo, arresto della crescita e insuffi- cienza epatica. La fibrosi cistica è una malattia genetica, che si mani- festa generalmente quando il bambino ha due mutazioni geniche che codificano per la malattia. Chi ha una sola mutazione è detto portato- re ma non ha sintomi. In realtà non è così semplice – quanto più si scopre sulle basi genetiche della fibrosi cistica, tanto più se ne rivela la complessità. Attualmente si conoscono numerosi varianti ‘atipi- che’ di fibrosi cistica.40 Negli anni, l’aspettativa di vita delle persone affette da fibrosi cistica è indubbiamente aumentata in modo sostanziale, grazie LO SCREENING DELLA FIBROSI CISTICA NEI NEONATI Benefici • Fornire ad ogni famiglia con un bambino affetto da fibrosi cistica l’opportunità di un’assistenza specialistica • Ridurre le preoccupazioni associate alla diagnosi ritardata • Offrire la possibilità a tutti i casi di fibrosi cistica di essere inclusi in un registro nazionale • Offrire l’opportunità di condurre studi clinici randomizzati e controllati di ampie dimensioni sui trattamenti Rischi • Non esiste uno screening perfetto per la fibrosi cistica nei neonati – i casi possono essere non identificati e i medici dovranno porre attenzione alle possibili diagnosi negli adulti • L’identificazione di uno status di portatore può causare preoccupazione • I famigliari possono essere ancora più turbati se i risultati dello screening non vengono comunicati in un modo premuroso ed empatico • I parenti di bambini clinicamente ‘sani’ con fibrosi cistica troveranno la situazione stressante (in un certo modo è più difficile vivere sapendo che in futuro la malattia peggiorerà) Southern KW. Newborn screening for cystic fibrosis: the practical implications. Journal of the Royal Society of Medicine 2004; 97 (suppl 44): 57-9
  • 52. 30 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA all’uso più intenso della fisioterapia, degli antibiotici e dei supple- menti nutrizionali. In teoria, la diagnosi precoce attraverso lo scree- ning dovrebbe avere molto da offrire, specialmente prima che i pol- moni siano seriamente danneggiati. Sebbene non ci sia un consenso universale sulla migliore combinazione dei test di screening, parec- chie nazioni lo hanno già introdotto per i neonati. Dal punto di vista dei benefici, i bambini diagnosticati precoce- mente dallo screening hanno più possibilità di raggiungere un’altez- za e un peso normali rispetto a quelli diagnosticati tardi quando pre- sentano già i sintomi.41 Tuttavia, l’effetto sulla prevenzione del danno polmonare sono molto meno certi. E non devono essere sottostimati i problemi derivanti nell’identificazione dei bambini portatori di fibrosi cistica. Ci saranno implicazioni nel corso della loro vita se questi portatori decideranno di avere figli propri e più immediata- mente ci sono implicazioni per i parenti che possono essere anche loro affetti. Così come due ricercatori hanno detto: ‘Lo screening for- nisce un’opportunità per raggiungere buoni risultati, ma non fornisce automaticamente la garanzia di buoni esiti’.42 I LIMITI CHE SI INCONTRANO QUANDO SI CERCA DI IDENTIFICARE I PORTATORI DEI GENI DELLA FIBROSI CISTICA La famiglia può essere sollevata nell’apprendere che il bambino non è affetto da fibrosi cistica; tuttavia la diagnosi di essere un portatore può indurre reazioni ansiose e angosciate che espongono la famiglia a rischio di sviluppare un inade- guato legame genitore-bambino, problemi di personalità, relazioni spezzate o alcune varianti della sindrome del bambino vulnerabile. Altri potenziali problemi dell’identificazione dello status di portatore sono il riconoscimento della non- paternità (e la conseguente disgregazione della famiglia), lo stigma del bambino, la difficoltà di stipulare assicurazioni sulla salute o sulla vita e le discriminazioni sul lavoro (dovute ad un fraintendimento dei potenziali danni dello stato di porta- tore) e la svalutazione del bambino rispetto all’essere un potenziale partner matri- moniale. Infine, se la mutazione genetica della fibrosi cistica non è inclusa nello screening standard per la fibrosi cistica, esiste il rischio che un risultato negativo possa essere falsamente rassicurante. David TJ. Newborn screening for cystic fibrosis. Journal of the Royal Society of Medicine 2004; 97: 209-10
  • 53. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 31 È SAGGIO FARE LO SCREENING PER IL DENTE DEL GIUDIZIO OCCLUSO? Uno dei programmi di screening più diffusi è la visita di routine dal dentista. Già da diversi anni c’erano prove che esso poteva causare più danni che benefici. Questo screening procura danni quando porta alla rimozione del dente del giudizio. Questi sono gli ultimi denti per- manenti ad apparire, generalmente fra i 18 e i 24 anni. Alcune volte, tuttavia, essi rimangono occlusi, ossia per diverse ragioni non emer- gono dalle gengive. In molti casi i denti del giudizio ritenuti non cau- sano alcun problema, mentre in alcune persone provocano compli- canze come l’infiammazione della gengiva circostante e la distruzio- ne dei denti e dell’osso circostante. Benché non ci siano dubbi sulla rimozione di questi denti quando causano problemi, altra cosa è rimuoverli quando sono sani. E la loro rimozione è dolorosa e costo- sa – solo in Inghilterra e Galles, il NHS ha speso milioni di sterline per questo tipo di chirurgia dentale. Così, è stato chiesto al National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE), che è incaricato di valutare imparzialmente le prove di efficacia, di studiare il proble- ma e fornire un parere al NHS. Dopo la revisione delle prove, le con- clusioni pubblicate nel 2000 furono categoriche: i denti del giudizio occlusi che sono sani non devono essere rimossi. Il NICE fornì due ragioni a sostegno delle proprie conclusioni: (a) non ci sono ricerche affidabili che suggeriscano che questa pratica sia di beneficio per i pazienti; (b) i pazienti ai quali vengono rimossi i denti del giudizio sani sono esposti ai rischi dell’intervento. Questi possono includere danni ai nervi e agli altri denti, infezioni, sanguinamenti e, raramen- te, la morte. Inoltre, a questa chirurgia potrebbe far seguito edema, dolore ed incapacità di aprire completamente la bocca.43
  • 54. 32 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA E ADESSO A LETTO Abbiamo visto come eccedere nell’uso di terapie o di screening può causare più danni che benefici, ma anche il raccomandare qual- cosa di apparentemente innocuo come il restare a letto può essere controproducente. Si suppone che il rimanere a letto faccia bene nella maggior parte delle malattie. Tuttavia, se è prescritto come un tratta- mento per accelerare la guarigione – ed è stato così per un ampio numero di malattie e dopo gli interventi chirurgici – i benefici e i danni dovrebbero essere valutati come per qualunque altra terapia. I dubbi sul valore del restare a letto emersero la prima volta negli anni ’40, quando studi condotti in pazienti sottoposti a interventi chirurgi- ci non mostrarono che un assoluto riposo a letto portasse vantaggi, suggerendo invece potenziali danni come la formazione di trombi negli arti inferiori e piaghe da decubito. Così quali sono le prove prive di errori, se esistono, che mostrano i benefici e i danni del restare a letto inteso come trattamento? Nel 1999, alcuni ricercatori australiani decisero di rivedere sistematica- mente le valutazioni prive di errori (corrette) al riguardo.44 Trovarono un totale di 39 studi clinici condotti in 15 diverse condizioni, che coinvolgevano in tutto circa 6.000 pazienti e cercarono i possibili effetti del trattamento – positivi e negativi. Il riposo a letto era inteso come trattamento secondo due modali- tà principali. Nella prima come misura preventiva dopo una procedu- ra medica o chirurgica e nella seconda come trattamento di prima linea. In 24 studi controllati in cui il riposo a letto seguiva un tratta- mento non fu identificato alcun chiaro beneficio. In nove studi il I PERICOLI DELL’ANDARE A LETTO Insegnaci a vivere con la paura di trascorrere del tempo inutile a letto. Fai alzare la persone, così potremo salvare i nostri pazienti da una fine prematura. Asher R. The dangers of going to bed. British Medical Journal 1947; 14 Dec. Riprodotto in: Jones FA. Ed. Richard Asher talking sense. London: Pitman Medical, 1972
  • 55. Utilizzati senza adeguata sperimentazione 33 restare a letto mostrò risultati peggiori dopo alcune procedure, anche dopo la puntura lombare e l’anestesia spinale. In 15 studi in cui veni- va usato come terapia di prima linea per varie patologie, ancora una volta non si evidenziavano chiari benefici. E in nove studi sono emer- se prove di effetti avversi soprattutto in chi era affetto da mal di schie- na, nel parto e nell’attacco di cuore. Complessivamente, le prove sugli effetti del restare a letto, nelle condizioni in cui è stato studiato, suggeriscono che questo intervento potrebbe effettivamente ritardare la guarigione e anche essere dannoso. MESSAGGI CHIAVE • I trattamenti più intensivi non presentano necessariamente più benefici • Cercare le malattie nelle persone apparentemente sane può provocare più danni che benefici.
  • 57. 3• I CONCETTI CHIAVE PER SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Nei primi due capitoli abbiamo visto come non sperimentare cor- rettamente i trattamenti possa provocare seri danni. È ovviamente vitale che la sperimentazione sia rigorosa per poter decidere se una cura possa essere offerta ai pazienti. Dal momento che le affermazioni ingannevoli sui trattamenti sono frequenti, è necessario per tutti noi avere le competenze per decidere se tali affermazioni siano valide. Senza queste conoscenze, rischiamo di pensare che trattamenti inutili sono invece utili e viceversa. Per valutare correttamente gli interventi sanitari e per ottenere la reale informazione sulla loro efficacia devono essere presi degli accorgi- menti. Fra i più importanti, l’assoluta necessità di ridurre gli errori sistematici e l’effetto del caso. Come ottenerlo?
  • 58. 36 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA RIMUOVERE LE SCIOCCHEZZE DALLA STRADA DELLA CONOSCENZA Quando James Lind (vedi il Capitolo 1) iniziò a leggere la letteratura sullo scor- buto, si rese conto che l’unica descrizione esistente della malattia era stata data da marinai non competenti in medicina e da medici che non erano mai stati per mare. ‘Nessun medico che si fosse impratichito in mare su questa malattia ha fatto chia- rezza su di essa’. Lind pensò che questa fosse una delle ragioni di tanta confusio- ne su diagnosi, prevenzione e cura della malattia. Come scrisse in modo chiaro, ‘Ancora prima di porre questo problema in una luce chiara e appropriata, è neces- sario rimuovere una gran quantità di sciocchezze.’ Lind J. A treatise of the scurvy. In three parts. Containing an inquiry into the nature, causes and cure of that disease. Together with a critical and chronological view of what has been published on the subject. Edinburgo: Printed by Sands, Murray and Cochran for A Kincald and A Donaldson, 1753, p. viii. COMPRENDERE LA NATURA DEGLI ERRORI SISTEMATICI Gli errori sistematici nella sperimentazione dei trattamenti sono quelle influenze e quei fattori che possono indurre a trarre conclusioni sistematicamente errate sugli effetti di una cura e non soltanto per l’effetto del caso. Benché siano molti i tipi di errore che possono distorcere i risultati della ricerca medica, quelli che devono essere assolutamente minimizzati per valutare correttamente i trattamenti sono: • errori sistematici legati alle differenze nelle popolazioni confrontate • errori sistematici dovuti a differenti modalità di valutazione dell’efficacia • descrizioni errate delle prove di efficacia disponibili • selezioni errate dalle evidenze disponibili I temi di cui ora ci occuperemo alla maggior parte di voi non sono familiari e alcuni lettori troveranno questo capitolo il più interessan- te di tutto il libro. Le informazioni complete e le illustrazioni relati- ve ai punti chiave sono contenute nella James Lind Library (www.jameslindlibrary.org) e ci auguriamo troverete utile questo materiale integrativo.
  • 59. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 37 LE SPERIMENTAZIONI CORRETTE DEI TRATTAMENTI MEDICI I confronti sono la chiave di ogni corretta sperimentazione terapeu- tica e sono essenziali per verificare se un trattamento causi o meno un certo effetto. A volte sono confrontate due o più terapie, oppure un trattamento viene confrontato con un altro non attivo. Qualunque sia il confronto, esso dovrebbe rispondere ad una reale incertezza sull’ef- ficacia del trattamento, ossia affrontare un problema che fino a quel momento la ricerca non è stata in grado di risolvere con prove con- vincenti (abbiamo introdotto il concetto di incertezza sull’effetto di un trattamento nel Capitolo 1 e nel Capitolo 4 discuteremo di come affrontarla). Perché i confronti siano corretti essi devono essere il più possibile privi di errori sistematici. Perché i confronti sono essenziali Se ci si sofferma a pensare per un momento diventa facile capire perché è necessario confrontare fra loro i trattamenti. Il vecchio detto che la Natura è una grande guaritrice è vero a volte – le persone spes- so guariscono dalle malattie senza terapie specifiche. Così, quando si valutano i trattamenti si dovrebbero sempre tenere in considerazione sia il progresso ‘naturale’ sia il modo in cui evolve una malattia senza cure specifiche. Il trattamento potrebbe migliorare, o peggiorare, l’esito che si avrebbe avuto naturalmente; ma potrebbe anche non avere alcun effetto. NIENTE A CHE VEDERE CON ME L’eccellente risultato ottenuto non ha naturalmente niente a che fare con la tera- pia ricevuta o con le mie capacità cliniche. Semplicemente dimostra molto chia- ramente la relativa irrilevanza della terapia rispetto alla autonoma capacità di recupero del corpo umano. Cochrane A. Sickness in Salonica: my first, worst, and most successful clinical trial. British Medical Journal 1984; 289: 1726-7
  • 60. 38 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Le persone, sia medici sia pazienti, a volte confrontano mentalmen- te gli effetti di un trattamento. Si fanno l’idea che loro o altri stiano rispondendo diversamente ad una nuova terapia rispetto alle preceden- ti. A queste impressioni devono far seguito indagini formali, ad esem- pio inizialmente attraverso l’esame dei dati clinici. Da queste analisi possono poi scaturire accurati confronti fra nuovi e vecchi trattamenti. Il pericolo sta nell’utilizzo delle sole impressioni per guidare le raccomandazioni al trattamento (vedi Capitolo 1, pag. 4). I confronti dei trattamenti basati su impressioni o analisi parziali sono raramen- te affidabili. Potrebbero esserlo solo se gli effetti del trattamento fos- sero davvero marcati – come ad esempio nell’uso dei farmaci oppia- cei per il controllo del dolore, dell’insulina nel diabete o la sostituzio- ne dell’anca nell’osteoartrite (vedi Capitolo 4). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, gli effetti del trattamento sono più modesti e biso- gna quindi essere molto prudenti per evitare confronti errati e conclu- sioni sbagliate. Paragonare somministrazioni avvenute oggi rispetto a quelle avve- nute nel passato è spesso inaffidabile perché nel frattempo possono essere mutati altri fattori rilevanti. Uno degli esempi che abbiamo citato nel Capitolo 1 – l’uso dell’ormone dietilstilbestrolo (DES) per la prevenzione della natimortalità ricorrente – illustra bene questo punto. La ricorrenza di natimortalità è più frequente nelle prime gra- vidanze rispetto a quelle successive. Così il confronto dei tassi di natimortalità nella seconda e nelle successive gravidanze in cui era stato prescritto il DES, con i tassi di natimortalità nelle prime gravi- danze in cui il farmaco non era stato prescritto, fornì risultati forte- mente confondenti, che suggerivano come il DES riducesse il rischio di natimortalità. E in questo caso le conseguenze per alcuni dei bam- bini alle cui madri era stato dato il farmaco furono gravi. Quando possibile, quindi, il confronto dovrebbe essere fra diversi trattamenti somministrati all’incirca nello stesso momento. Quali sono i motivi per cui i confronti devono rispondere ad una vera incertezza Prima di imbarcarsi in nuove sperimentazioni di un trattamento è essenziale stabilire quanto si sa già. Sebbene sembri ovvio, molte incertezze sull’effetto di una cura derivano dal fatto che si è ignoran-
  • 61. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 39 ti su quali siano le conoscenze già disponibili. Per essere sicuri che la nuova valutazione proposta del trattamento risponda ad una attuale e reale incertezza, è necessario che le prove di efficacia vengano rivi- ste in modo sistematico e critico. Se vengono saltati questi primi pas- saggi chiave, le conseguenze possono essere gravi – i pazienti soffri- ranno inutilmente e verranno dissipate preziose risorse per la cura e per la ricerca. Come mai questo accade? Nei primi anni ’90, un gruppo di ricercatori statunitensi cercò le rac- comandazioni riguardo il trattamento dell’infarto cardiaco espresse in un periodo di 30 anni sui testi di medicina e sulle riviste scientifiche.45 Poi confrontarono queste raccomandazioni con le prove che avrebbe- ro potuto essere disponibili se fossero state condotte revisioni sistema- tiche di sperimentazioni ben condotte. I ricercatori osservarono conse- guenze gravi per i pazienti; erano dovute al fatto che gli autori dei testi non si erano preoccupati, nel rivedere la letteratura, di ridurre l’effet- to confondente degli errori sistematici e dell’effetto del caso. In alcu- ni casi ai pazienti è stato negato l’accesso alle informazioni su farma- ci salva vita (per esempio, i farmaci fibrinolitici per l’infarto miocar- dico), alcune volte per più di un decennio; in altri casi, i medici hanno continuato a raccomandare trattamenti anche dopo che valutazioni corrette ne avevano mostrato la nocività (ad esempio, i farmaci antia- ritmici nell’infarto cardiaco – vedi Capitolo 1). I ricercatori che non effettuano una revisione critica dei preceden- ti studi su di un trattamento prima di iniziare quelli nuovi, possono non rendersi conto che esistono già risposte convincenti alle incertez- ze sugli effetti di una cura. Questo significa che alcuni pazienti stan- no prendendo parte a ricerche inutili e che a loro vengono negati trat- tamenti che potrebbero aiutarli. Ad esempio, i ricercatori continuaro- no a condurre sperimentazioni di confronto, negando gli antibiotici a metà dei pazienti partecipanti allo studio, anche dopo la dimostrazio- ne affidabile che gli antibiotici somministrati ai pazienti sottoposti a chirurgia intestinale riducevano la mortalità per le complicanze del- l’intervento (vedi Capitolo 5). Al contrario, nuovi studi sono indub- biamente necessari quando la revisione degli studi esistenti mostra chiaramente che mancano ancora prove affidabili. I pazienti possono subire conseguenze negative anche quando i ricercatori non intraprendono una revisione sistematica delle prove derivanti dalla ricerca animale prima di avviare una sperimentazione di un trattamento sull’uomo (vedi Capitolo 1 – pag. 9). Nell’esempio
  • 62. 40 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA della nimodipina, se i risultati della sperimentazione animale fossero stati passati in rassegna, gli studi clinici nei pazienti con ictus non sarebbero mai stati neppure iniziati. L’idea di rivedere le prove disponibili in modo sistematico è ben lungi dall’essere nuova. Il sottotitolo mostra che nel Treatise of the scurvy di James Lind del 1753, in cui riportò la sua corretta sperimen- tazione dei rimedi allora in uso (vedi Capitolo 1), il testo contiene ‘Una critica e cronologica visione di quanto era stato pubblicato sul- l’argomento.’ EVITARE I CONFRONTI ERRATI Per assicurarsi che i confronti siano corretti, devono essere identi- ficate e minimizzate le diverse fonti di errori sistematici; se non lo si fa, il nuovo trattamento potrebbe apparire migliore rispetto a quello esistente, anche quando nella realtà non lo è. Nel giudicare i singoli studi questo errore di valutazione potrebbe derivare dal: • confrontare il decorso di pazienti in condizioni di salute relativamente buone a cui viene somministrato un nuovo trattamento, con il decorso di pazienti che stanno peggio e ai quali viene somministrato il trattamento standard; • valutare in modo errato i risultati dei trattamenti – ad esempio confrontando le opinioni di pazienti e medici che sanno di aver fatto uso un nuovo costoso trattamento, e che pensano sia migliore, con le opinioni di quelli che sanno di aver invece ricevuto un trattamento standard già esistente. E nel fare una revisione di numerosi studi simili fra loro, il suddet- to errore potrebbe derivare da: • considerare solo gli studi che mettono in luce positiva il nuovo trattamento, senza includerne altri ‘negativi’, che non mostrano i benefici o che ne suggeriscono la potenziale nocività (gli studi ‘negativi’ spesso non vengono riportati); • una errata selezione e interpretazione delle prove disponibili. Spesso, nel decidere quali trattamenti usare, non si riconosce che questi errori possono portare a distorte sperimentazioni dei trattamenti.
  • 63. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 41 Sfortunatamente, tuttavia, le persone con degli interessi in gioco alcune volte sfruttano questi errori per dare l’impressione che certe terapie siano migliori di quello che sono in realtà. Questo succede quando i ricercatori, spesso ma non sempre per ragioni commerciali, ignorano deliberatamente le prove esistenti. Disegnano, analizzano e pubblicano gli studi per mostrare sotto una luce positiva i risultati di un trattamento. SFRUTTARE GLI ERRORI SISTEMATICI È più probabile che la ricerca sponsorizzata dall’industria farmaceutica dia risul- tati favorevoli al farmaco dell’azienda che la sponsorizza, rispetto agli studi finan- ziati da altre fonti. Ciò è avvenuto per più di vent’anni in un ampio range di malat- tie, farmaci e classi di farmaci, indipendentemente dal tipo di ricerca valutata. Lexchin J, Bero LA, Djulbegovic B, Clark O. Pharmaceutical industry sponsorship and research outcome and quality: systematic review. British Medical Journal 2003; 326: 1167-70 Quando gli errori sono dovuti alle differenze tra i pazienti messi a confronto Il confronto di due trattamenti non è corretto se pazienti in condizio- ni di salute relativamente buone hanno ricevuto uno dei trattamenti e i pazienti in condizioni di salute peggiori hanno ricevuto l’altro tratta- mento. Talvolta si può far fronte a questo problema confrontando nello stesso paziente trattamenti diversi, somministrati in tempi differenti – uno studio cross-over. Ma ci sono molte circostanze in cui questo dise- gno di studio non è applicabile. È, ad esempio, quasi sempre impossi- bile confrontare in questo modo trattamenti chirurgici differenti. Le cure sono generalmente sperimentate confrontando gruppi di pazienti che ricevono trattamenti diversi. Affinché questi siano cor- retti, i gruppi dei pazienti devono essere simili, in modo da fare con- fronti alla pari. Se i pazienti che ricevono il trattamento hanno più probabilità di avere un esito positivo o negativo rispetto a coloro che ricevono l’altra terapia, allora questo impedisce di poter attribuire le differenze nei risultati ad un reale effetto del trattamento, piuttosto che a qualcosa che comunque sarebbe successo. Il chirurgo del 18°
  • 64. 42 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA secolo William Chelseden era conscio di questo problema. A quel tempo, i chirurghi confrontavano i tassi di mortalità nei loro pazienti a seguito dell’intervento di rimozione di calcoli vescicali. Chelseden notò che i pazienti più anziani avevano più probabilità di morire. È quindi importante tener conto delle età dei pazienti nel confrontare la mortalità tra gruppi di persone sottoposte da chirurghi differenti a interventi di vario genere. Per valutare l’effetto del trattamento ancora oggi si usa confronta- re esperienze ed esiti di pazienti che hanno ricevuto nel passato trat- tamenti diversi (cosiddetti controlli storici, ndt). In questo caso il pro- blema è sapere se i gruppi di confronto fossero sufficientemente simi- li prima di ricevere i trattamenti. Ad esempio, i tentativi di valutare gli effetti della terapia ormonale sostitutiva (TOS) confrontando le frequenze di incidenza di specifiche patologie delle donne che ne facevano uso, con quelle che non la assumevano, mostra quanto que- sto approccio possa essere pericolosamente ingannevole. Mentre questi confronti suggerivano che la TOS potesse ridurre il rischio di infarto miocardico e di ictus, i successivi studi controllati e randomiz- zati mostrarono che essa aveva esattamente l’effetto opposto (vedi Capitolo 1). Questo dimostra come la ricerca può non solo essere inu- tile ma anche dannosa. Il miglior approccio è quello di definire i confronti prima di comin- ciare a trattare. Prima di intraprendere il confronto dei sei trattamen- ti per lo scorbuto a bordo del HMS Salisbury, nel 1747, James Lind selezionò attentamente i pazienti allo stesso stadio di questa malattia spesso letale (vedi Capitolo 1). Egli si assicurò anche che essi seguis- sero la stessa dieta e che fossero alloggiati nelle stesse condizioni. Lind riconobbe chiaramente che fattori diversi dalla terapia potevano influenzare la probabilità di guarigione dei marinai. La stessa attenzione dovrebbe essere oggi essere adottata per assi- curare che i gruppi di malati assegnati ai diversi trattamenti siano composti da soggetti con caratteristiche simili. E vi è un solo modo per ottenerlo: per formare i gruppi bisogna utilizzare dei metodi di assegnazione basati sul caso. Questa ‘assegnazione casuale’ è l’unica caratteristica, di importanza cruciale, delle corrette sperimentazioni note come ‘randomizzate’ (vedi Capitolo 4, box a pagina 72). La tecnica del tirare a sorte, usando per esempio i dadi, assicurerà che i gruppi siano composti da pazienti simili, non solo in termini di fattori importanti e misurabili come l’età, ma anche di fattori non
  • 65. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 43 misurabili che possono influenzare la guarigione dalla malattia, come la dieta, l’occupazione, altri fattori sociali, lo stato d’ansia provocato dalla malattia e il trattamento proposto. Il miglior modo per evitare errori nell’allocazione dei pazienti per il confronto tra gruppi è quel- lo di assicurare che né i pazienti, né i loro medici sappiano a quali gruppi i primi saranno assegnati. Dopo aver evitato il rischio di costituire gruppi di confronto dissi- mili fra loro, è importante evitare di introdurre un altro errore siste- matico non tenendo conto del decorso di tutti i pazienti che sono stati originariamente inclusi nello studio. Questo significa che, per quanto possibile, tutti i pazienti inclusi in un gruppo dovrebbero essere seguiti e conteggiati nell’analisi principale del gruppo a cui erano stati assegnati, indipendentemente da quale trattamento abbiano poi realmente ricevuto – è questa la cosiddetta analisi ‘intention to treat’ (che si basa sul principio di analizzare il trattamento che si era deci- so di utilizzare, piuttosto che quello effettivamente utilizzato, ndt). Questo approccio potrebbe sembrare illogico, ma è stato dimostra- to che ignorarlo può portare a gravi errori. Prendete l’esempio dei pazienti a rischio di ictus dovuto all’ostruzione di un vaso sanguigno che irrora il cervello. I ricercatori conducono una sperimentazione per sapere se un intervento chirurgico destinato a sbloccare il vaso sangui- gno può ridurre gli ictus nei pazienti con attacchi di vertigine causati dall’occlusione – confrontano le persone candidate ad avere l’inter- vento con quelle non allocate ad averlo. Se registrassero la frequenza di ictus solo fra i pazienti sopravviventi agli effetti immediati del- l’operazione, la valutazione non permetterebbe di capire se sia la stes- sa chirurgia causa di ictus e morte. Di conseguenza questa sarebbe una sperimentazione scorretta degli effetti dell’operazione. PERCHÉ RANDOMIZZARE Un medico che contribuisce alla randomizzazione negli studi clinici non dovreb- be essere considerato un ricercatore, ma semplicemente come un clinico che assolve ad un dovere etico verso i suoi pazienti nel non somministrar loro terapie senza aver fatto il possibile per valutarne il vero valore. Rees G, a cura di. The friendly professional. Selected writings of Thurstan Brewin. Bognor Regis: Eurocommunica, 1996
  • 66. 44 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Quando gli errori sono dovuti alla valutazione degli esiti dei trattamenti La maggior parte dei pazienti e dei medici spera che i trattamenti medici saranno utili. Questo ottimismo può avere un effetto molto positivo sulla soddisfazione di tutti rispetto all’assistenza sanitaria, come il medico britannico Richard Asher notò in uno dei suoi saggi: ‘Se riesci a credere ardentemente nella terapia che prescrivi, anche se dei test controllati mostrano che è del tutto inutile, i tuoi risultati saranno di gran lunga migliori, i tuoi pazienti staranno molto meglio e anche il tuo reddito aumenterà parecchio. Credo che questo spieghi il notevole successo di alcu- ni colleghi di minor talento e più convinti e spieghi anche la forte antipatia nei confronti della statistica e degli studi controllati spesso mostrata dai medici più alla moda e di successo.’ 46 Anche quando i medici sanno di prescrivere una terapia che non ha una specifica efficacia, lo fanno nella speranza che sarà di beneficio ai pazienti attraverso l’effetto psicologico. In altre parole i pazienti che pensano che la terapia li aiuterà a migliorare i loro sintomi, anche quando si tratta di un farmaco finto (un placebo), potrebbero registra- re dei miglioramenti nella loro malattia. Così, nella corretta sperimentazione dei trattamenti è essenziale ridurre gli errori che si possono verificare quando i medici e i pazien- ti stessi valutano i risultati. La tecnica generalmente usata a questo scopo, conosciuta come ‘mascheramento’, ha una storia interessante. Nel 18° secolo, Luigi XVI di Francia propose una valutazione sulle dichiarazioni di Anton Mesmer circa i benefici effetti del cosiddetto magnetismo animale (mesmerismo). Il Re voleva sapere se l’effetto era dovuto ad una qualche forza ‘reale’ o ad una ‘illusione della mente’. Ad alcune persone bendate fu detto che stavano ricevendo o meno il mesmerismo, quando nello stesso tempo veniva fatto il con- trario. Le persone rispondevano di sentire degli effetti solo quando veniva detto loro che stavano ricevendo il trattamento. Per alcuni esiti, come ad esempio la morte, le valutazioni errate sono molto improbabili in quanto non c’è molto margine di dubbio riguardo la morte di una persona. Tuttavia nella valutazione della maggior parte degli esiti, come per i sintomi del paziente, è corretto tener conto della soggettività. Ad esempio, le persone possono prefe-
  • 67. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 45 rire un trattamento rispetto ad un altro: possono prestare più attenzio- ne ai segni di possibili effetti positivi quando credono che un tratta- mento faccia loro bene e sono anche più pronti ad ascrivergli possi- bili effetti dannosi se ritengono di assumere una terapia di cui sono preoccupati. Poiché queste situazioni sono frequenti, per condurre sperimenta- zioni corrette è desiderabile mantenere una condizione di cecità. Ciò significa che i due trattamenti messi a confronto devono apparire identici. A volte uno di questi è il cosiddetto placebo – un trattamen- to farmacologicamente inattivo (finto). Ad esempio, quando il Medical Research Council testò negli anni ’40 e ’50 per la prima volta le terapie per il raffreddore, sarebbe stato in grande difficoltà nell’interpretare i risultati delle sperimentazioni se non fossero stati usati dei placebo, perfettamente simili ai farmaci del trattamento atti- vo, per evitare che sia i medici sia i pazienti, fossero a conoscenza di chi stesse ricevendo il nuovo farmaco o il placebo. Questo tipo di stu- dio è conosciuto come ‘doppiocieco’. Il doppiocieco è così importante che vale la pena di considerare un altro esempio. I ricercatori hanno proprio voluto valutare l’impatto degli effetti del mascheramento sui medici (il tenerli all’oscuro su quali pazienti ricevevano il farmaco o il placebo) sui risultati di uno studio clinico per il trattamento della sclerosi multipla. Durante lo studio tutti i pazienti venivano visitati ad ogni valutazione sia da un medico in cieco, sia da un collega non sottoposto a cecità: ognuno di essi riportava i risultati. Solo i risultati del medico non cieco mostra- vano dei benefici per uno dei due trattamenti. Fu l’uso dei dati del medico sottoposto a cecità ad evitare di trarre conclusioni sbagliate dallo studio.47 In generale, tanto maggiore è il livello di soggettività nella valutazione degli esiti, tanto maggiore sarà la necessità di valu- tare in cieco per avere sperimentazioni corrette. Alcune volte, tuttavia, è semplicemente impossibile mascherare i pazienti e i medici rispetto alla natura dei trattamenti da confrontare: ad esempio, è difficile mascherare la differenza fra un trattamento chirurgico e una terapia farmacologica. Alcuni esiti poco ambigui, come la morte, lasciano poco spazio a valutazioni errate. E tuttavia, anche la valutazione delle cause di morte, che è passibile di errori, in uno studio ben condotto dovrebbe essere fatta da persone ignare di quale trattamento ciascun paziente abbia ricevuto.
  • 68. 46 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA COME INTERPRETARE CONFRONTI CORRETTAMENTE ESEGUITI Tener conto delle differenze fra i trattamenti designati e i trattamenti ricevuti Avrete visto, per tutti i motivi che prima vi abbiamo spiegato, che le sperimentazioni corrette necessitano di una pianificazione accura- ta. I documenti che presentano questi esperimenti programmati sono detti protocolli. Fra le altre cose, i protocolli specificano i dettagli dei trattamenti da porre a confronto. Tuttavia, anche i migliori piani pos- sono non funzionare bene come desiderato: alcune volte, ad esempio, le terapie somministrate al paziente sono diverse da quelle che avreb- be dovuto ricevere. Ad esempio, i pazienti possono non assumere le terapie così come è stato pianificato o uno dei trattamenti potrebbe diventare non disponibile. Se discrepanze simili vengono scoperte è necessario capirne le implicazioni e porre attenzione all’analisi e interpretazione dei risultati. Tener conto del ruolo del caso Quando si confrontano due trattamenti ogni differenza nei risultati può essere semplicemente dovuta al caso. Supponiamo che cinque persone migliorino con il nuovo trattamento e sette migliorino con il trattamento standard. Nessuno può essere certo che il nuovo tratta- mento fosse peggiore rispetto a quello standard. Se il test venisse ripetuto, il numero di pazienti che migliora potrebbe essere il contra- rio (sette contro cinque), o essere lo stesso (sei contro sei) o in altri modi. Tuttavia, se 50 persone migliorano con il nuovo trattamento e 70 migliorano con quello standard, è meno probabile che le differenze siano spiegate dal caso. Se 500 persone migliorano con il nuovo trat- tamento e 700 con quello standard, il nuovo trattamento è chiaramen- te peggiore dell’altro (di circa la metà rispetto a quello nuovo). Nelle sperimentazioni corrette dei trattamenti il modo per rendere meno probabile che i risultati siano dovuti al caso è quello di basare le conclusioni su un numero sufficientemente ampio di pazienti che migliorino, peggiorino o né l’uno, né l’altro.
  • 69. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 47 Per valutare il ruolo del caso nei risultati delle sperimentazioni ben condotte i ricercatori usano il ‘test di significatività statistica’. Questo aiuta ad evitare di trarre conclusioni sbagliate, ossia di vedere diffe- renze nei trattamenti quando non ci sono e, pericolo più comune, che non ci siano differenze fra i trattamenti quando nella realtà esse esi- stono. Quando ricercatori e statistici parlano di differenze significati- ve fra i trattamenti, si riferiscono alla significatività statistica. È importante ricordare che quest’ultima non è necessariamente ‘signi- ficativa’ nell’uso comune del termine. Una differenza nei trattamenti che è molto probabilmente non dovuta al caso – una differenza stati- sticamente significativa – potrebbe non avere nessun significato pra- tico. Ad esempio una revisione sistematica degli studi randomizzati che confrontavano le esperienze di decine di migliaia di uomini sani che assumevano giornalmente l’aspirina con quelle di decine di migliaia di uomini che non assumevano il farmaco, trovò un tasso di infarto cardiaco più basso nel primo gruppo. Questa differenza era statisticamente significativa, ossia, difficilmente spiegabile dal caso. Tuttavia questi risultati possono non avere significato pratico. Se il rischio di un uomo sano di avere un infarto del miocardio è già molto basso, potrebbe non apparire giustificato prendere un farmaco per abbassare ulteriormente questo valore, tenendo conto degli effetti collaterali dell’aspirina.48 Un modo per ridurre la probabilità di essere ingannati per effetto del caso è stimare quello che viene chiamato intervallo di confiden- za. Esso fornisce l’intervallo all’interno del quale si pone il valore vero dell’effetto del trattamento (che non è mai noto con esattezza) con un certo livello di certezza (generalmente 95% o 99%). Questo è simile a fare la domanda ‘Quanto ci impieghi per andare al lavoro?’ ed avere la risposta ‘da 20 minuti a un’ora, dipende dal traffico’. Così, i test statistici ci aiutano a tener conto del ruolo del caso e ad evitare di concludere che si vedano differenze fra i trattamenti quan- do non ci sono o viceversa. SCOPRIRE E RICERCARE EFFETTI NON PREVISTI DEI TRATTAMENTI Gli studi preliminari di un trattamento, come ad esempio quelli richiesti per la registrazione di nuovi farmaci, includono al massimo
  • 70. 48 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA poche centinaia o poche migliaia di persone trattate per periodi di tempo rapidi. Solo gli effetti che compaiono in tempi rapidi e quelli non previsti ma frequenti, possono essere identificati in quel lasso di tempo, mentre gli effetti rari e quelli che necessitano di tempo per manifestarsi, non saranno scoperti fintanto che il trattamento non sarà stato ampiamente utilizzato. Quando i medici prescrivono un farma- co in modo routinario, i loro pazienti possono essere diversi da quel- li inclusi negli studi clinici: possono essere più vecchi o più giovani, di sesso diverso, più o meno malati o soffrire di altri problemi di salu- te oltre a quelli della malattia cui la terapia è mirata. I primi a sospet- tare gli effetti non previsti di una terapia, positivi o negativi, sono spesso operatori sanitari o i pazienti. Ma quali di queste intuizioni riflette il mondo reale? Medici e pazienti hanno l’immediata percezione che qualcosa non funzioni quando dopo l’utilizzo della terapia l’effetto imprevisto è molto insolito e frequente. Questo è ciò che accadde con la talidomi- de (vedi Capitolo 1), in quanto non si era verificata prima la nascita di bambini senza arti. Effetti positivi imprevisti vennero scoperti in modo simile, per esempio quando si scoprì che un farmaco usato per la schizofrenia abbassava anche il colesterolo. Quando vengono nota- te delle relazioni così sorprendenti, vengono poi spesso confermate come effetti non previsti del trattamento. Tuttavia, la maggior parte delle impressioni sugli effetti imprevisti dei trattamenti è basata su prove poco convincenti. Così, come negli studi disegnati per trovare gli effetti attesi dei trattamenti, la pianifi- cazione delle sperimentazioni di conferma o meno del sospetto di effetti inattesi meno evidenti, implica evitare i confronti inficiati da errori sistematici. Anche queste valutazioni devono osservare il prin- cipio del confrontare ‘simile con simile’. Talvolta i ricercatori possono condurre analisi successive (follow- up) su soggetti che parteciparono ai primi studi in cui gruppi simili erano stati generati attraverso una allocazione casuale (vedi sopra). Ma di solito questo è molto difficile da fare. Mettere insieme nuovi gruppi di confronto non distorti è molto più che una sfida. Il fatto che questi effetti fossero realmente inattesi, in realtà aiuta a identificarli. Questo effetto inatteso è generalmente rappresentato da una diversa condizione o patologia rispetto a quella per cui il trattamento era stato prescritto. Ad esempio, quando la terapia ormonale sostitutiva (TOS) venne prescritta per la prima volta per ridurre i sintomi della
  • 71. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 49 INTERVALLI DI CONFIDENZA Supponete di avere una borsa (in cui non potete guardare) contenente 30 caramel- le che potrebbero essere sia arancioni che bianche e quindi il numero di caramel- le arancioni nella borsa all’inizio potrebbe essere compreso fra zero e 30. L’intervallo di confidenza (IC) per il numero di caramelle arancioni è 0-30. Se tirate fuori dalla borsa una manciata di caramelle ed in mano ne avete quattro arancioni e due bianche, sapete che all’inizio, di arancioni ce n’erano almeno quattro e non più di 28, ossia che all’inizio c’erano 30 caramelle e ora voi sapete che almeno due di quelle erano bianche. Così l’IC per il numero di caramelle arancioni che erano presenti all’inizio, è ora diventato 4-28. Se prendete un’altra manciata di caramelle (senza reintrodurre la prima mancia- ta) e ne tirate fuori tre arancioni e sei bianche, allora l’IC per le caramelle aran- cioni nella borsa all’inizio è 7-22. La manciata successiva contiene 3 caramelle arancioni e cinque caramelle bianche, dando luogo ad un IC di 10-17 per il nume- ro di caramelle arancioni iniziali. La manciata successiva contiene solo 4 caramel- le arancioni, con un IC di 14-17. Quando le ultime tre caramelle vengono tirate fuori, due sono arancioni e una bianca. Potete così concludere che all’inizio c’era- no 16 caramelle arancioni. Tanto più è ampio il numero di caramelle estratte, tanto più l’IC diventa piccolo. Questo esempio calcola gli IC assoluti e ad ogni passag- gio si può essere assolutamente certi che il numero di caramelle arancioni si col- lochi all’interno dei due estremi degli intervalli di confidenza. Il diagramma illustra questo esempio mostrando come gli IC si restringano ad ogni successivo passaggio. 0 30 4 28 7 22 10 14 16 Adattato da Critical Appraisal Skills Programme, Cochrane Consumer (UK) Consumers commenting on Cochrane Reviews. Post workshop pack, 2003-4, pag. 23.
  • 72. 50 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA menopausa, non era stato considerato che vi potesse essere un aumento di rischio di cancro alla mammella. In altre parole, non c’erano ovvie ragioni per attendersi che le donne che ricevevano la TOS avessero un rischio maggiore di sviluppare il cancro alla mam- mella rispetto a quelle che non l’assumevano. Questo costituì la base per disegnare sperimentazioni ben condotte che hanno poi dimostra- to come la TOS aumentasse il rischio di cancro alla mammella.49 Quando l’effetto inatteso con un nuovo trattamento per una condi- zione frequente come l’infarto non si verifica spesso, esso sarà iden- tificabile soltanto indagando un grande numero di persone a cui il nuovo trattamento venga somministrato. Ad esempio, sebbene alcuni ricercatori pensassero che l’aspirina potesse ridurre il rischio di infar- to cardiaco e a fine anni ’60 avessero cominciato a sperimentare in modo corretto la loro teoria sui pazienti, la maggior parte dei medici pensava che questo fosse altamente improbabile. Questi ultimi cominciarono a cambiare idea quando uno studio disegnato per tro- vare gli effetti avversi dei farmaci mostrò che nei pazienti ricoverati con infarto era meno frequente l’assunzione recente di aspirina rispetto a pazienti con le loro stesse caratteristiche che non avevano assunto la medicina. Le regole di fondo per individuare e indagare gli effetti inattesi dei trattamenti medici furono definite in modo chiaro alla fine degli anni ’70 sulla scia del disastro della talidomide. Con i moltissimi trattamen- ti efficaci introdotti da allora, la necessità di sperimentazioni affidabi- li sui trattamenti sanitari rimane ancora oggi una sfida importante. TENER IN CONSIDERAZIONE TUTTE LE PROVE RILEVANTI Uno dei pionieri della buona sperimentazione, lo statistico Austin Bradford Hill, disse che chi legge i rapporti di ricerca cerca risposte a quattro domande: • Perché hai cominciato? • Che cosa hai fatto? • Che cosa hai trovato? • Cosa significa?
  • 73. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 51 La risposta all’ultima domanda è particolarmente importante poi- ché questo è quello che influenza le scelte reali, le decisioni sulla cura e sulla futura ricerca. Una singola sperimentazione ben condotta molto raramente produce da sola una prova sufficientemente forte da poter essere considerata una risposta sicura. Un singolo studio rigo- roso è soltanto uno dei tanti modi che sono necessari per dare una risposta convincente ad un quesito. Quindi, per rispondere alla domanda ‘cosa significa?’, i risultati di un singolo studio devono essere interpretati alla luce delle prove degli altri buoni studi disegna- ti per rispondere alla stessa o a domande simili. Più di un secolo fa, il presidente dell’Associazione Britannica per il Progresso della Scienza, Lord Rayleigh, si espresse sulla necessità di osservare questo principio: ‘Se, come a volte si suppone, la scienza consistesse in nient’altro che l’accumulo laborioso dei fatti, andrebbe rapidamente in stallo e si schianterebbe sotto il suo stesso peso. Due processi vanno di pari passo, l’accettazione del nuovo materiale e la digestione e l’assimilazione del vecchio; poiché entrambi sono essenziali ci possiamo risparmiare la discussione sulla loro relativa importanza. Un appunto va tuttavia fatto. Il lavoro che merita la maggior parte del credito, e che purtroppo non sempre lo riceve, è quello in cui le scoperte e le spiegazioni passano di mano in mano, in cui non solo sono presentati nuovi fatti, ma in cui viene sottolineata la relazione con quelli vecchi.’50 Ancora oggi, tuttavia, il saggio consiglio di Rayleigh è normal- mente ignorato. Di conseguenza, è spesso impossibile per i lettori di una nuova ricerca ottenere una risposta affidabile alla domanda ‘che significa?’. Riportare i risultati di nuove sperimentazioni di tratta- mento senza che esse vengano interpretate alla luce delle prove rile- vanti, riviste in modo sistematico, può ritardare l’identificazione sia dei trattamenti utili che di quelli nocivi. Ad esempio, fra gli anni ’60 e i primi anni ’90, i ricercatori condussero più di 50 sperimentazioni corrette su farmaci destinati a ridurre le anomalie del ritmo cardiaco in pazienti che avevano avuto un infarto prima di riuscire a capire che questi farmaci aumentavano la mortalità (vedi Capitolo 1). Se fosse- ro stati valutati i risultati dei nuovi rapporti alla luce delle prove pre- cedenti, si sarebbero potuti identificare gli effetti fatali di questi far- maci una decina di anni prima.
  • 74. 52 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Come comportarsi quando le prove non sono descritte correttamente È facile sostenere che i risultati delle nuove ricerche dovrebbero essere interpretati alla luce di una revisione sistematica di tutte le altre prove attinenti e attendibili, ma in realtà questo è tutt’altro che semplice, non ultimo in quanto alcuni studi non vengono pubblicati. Gli studi con risultati ‘deludenti’ o ‘negativi’ hanno meno probabili- tà di essere pubblicati rispetto agli altri. Questo errore sistematico di pubblicazione è imputabile principalmente ai ricercatori che non scri- vono o non sottomettono i risultati delle loro ricerche per la pubbli- cazione quando giudicano i loro risultati “poco interessanti”. A volte sono le riviste che sbagliano perché non accettano gli articoli che vengono loro inviati (solo perché i risultati sono ritenuti poco interes- santi perché negativi, ndt). C’è poi anche un altro problema quando i ricercatori selettivamente eliminano i risultati che vanno contro la loro convinzione sugli effetti dei trattamenti. Al fine di ridurre questi errori, tutte le sperimentazioni dei tratta- menti ben condotte devono essere registrate al loro inizio (vedi www.controlled-trials.com). Inoltre, tutti gli studi clinici dovrebbero essere pubblicati, anche se risultano ‘deludenti’ per lo sponsor della ricerca o per gli stessi ricercatori. L’errore sistematico del non rende- re pubblici e disponibili i risultati della ricerca è non scientifico e non etico. Casi recenti di eliminazione di prove sgradite sull’effetto di far- maci hanno condotto ad enormi scandali pubblici e ad azioni legali contro case farmaceutiche. Questi eventi hanno dato forza alla perdu- rante domanda che gli studi clinici siano registrati pubblicamente fin dall’inizio e che tutti i risultati vengano pubblicati. Prima dell’avven- to dell’editoria elettronica era difficile costringere all’adesione a que- sti principî, ma l’avvento delle riviste elettroniche open access, come quelle pubblicate da BioMed Central (www.biomedcentral.com) e la Public Library of Science (www.plos.org), ha fatto superare questo ostacolo. Evitare l’errata selezione delle prove disponibili Gli errori sistematici, oltre a creare distorsioni nelle singole speri- mentazioni dei trattamenti e portarli a conclusioni errate, possono
  • 75. I concetti chiave per sapere se una cura funziona 53 anche distorcere le revisioni sistematiche della letteratura. Queste ultime sono importanti in quanto molte persone vi fanno affidamen- to, ma esse devono essere condotte in modo sistematico per evitare di essere ingannevoli. Ad esempio, i revisori potrebbero usare solo gli studi di cui sono a conoscenza; questo porterebbe molto probabil- mente a conclusioni errate. Per evitare questi problemi, i metodi per condurre le revisioni sistematiche devono essere definiti in protocolli, chiarendo quali misure saranno adottate per ridurre gli errori sistematici. Queste includeranno la specificazione di: a quali domande sul trattamento risponderà la revisione; quali sono i criteri di eleggibilità degli studi per l’inclusione nella revisione; in che modo gli studi potenzialmen- te eleggibili saranno identificati e quali saranno le misure intraprese per minimizzare gli errori di selezione degli studi per l’inclusione nella revisione. Revisioni sistematiche su domande apparentemente simili spesso giungono a conclusioni diverse. A volte perché la domanda è sottil- mente diversa; a volte perché i revisori utilizzano metodologie diffe- renti. In quest’ultima circostanza è importante giudicare quali revi- sioni hanno ridotto l’effetto degli errori sistematici e del caso nel modo migliore. Cosa succede se i revisori hanno degli interessi che possono influenzare la conduzione o l’interpretazione del loro lavoro? Erano, ad esempio, in rapporti con l’azienda che ha prodotto il farmaco che stanno valutando? Nel valutare le prove di efficacia dell’effetto di un olio di enotera sull’eczema, i revisori che avevano rapporti con l’in- dustria giunsero a conclusioni decisamente più entusiastiche sull’ef- fetto del trattamento rispetto a quelli che non li avevano (vedi Capitolo 1). Gli interessi commerciali non sono i soli a indurre a errori sistema- tici nella selezione delle prove disponibili per l’inclusione in una revisione. Tutti siamo portatori di pregiudizi che possono indurci a questo – ricercatori, operatori sanitari e pazienti.
  • 76. 54 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA L’uso delle metanalisi per ridurre il rischio che i risultati siano dovuti al caso Per ridurre il peso della casualità si possono combinare statistica- mente i risultati di tutti gli studi rilevanti attraverso un metodo noto come metanalisi. Benché questi metodi siano stati sviluppati dagli statistici già da molti anni, è solo dopo gli anni ’70 che cominciaro- no ad essere applicati in modo più ampio, prima nelle scienze socia- li e poi dai ricercatori in medicina. Una decina di anni fa si conven- ne che le metanalisi rappresentassero un elemento importante nelle buone sperimentazioni dei trattamenti. Le metanalisi costituiscono un ulteriore aiuto per evitare conclu- sioni errate su trattamenti che apparentemente non abbiano effetto, quando essi possono in realtà mostrarsi utili o dannosi. Consideriamo l’esempio della terapia con steroidi somministrata a donne in attesa di avere un parto prematuro che è di breve durata e poco costosa. Il primo studio randomizzato e controllato venne pubblicato nel 1972 e mostrò una riduzione della probabilità di morte nei neonati. Un decennio più tardi sono stati condotti altri studi, ma di piccole dimen- sioni e dai singoli risultati non chiari e che non vennero sintetizzati in una revisione sistematica con una metanalisi. Se farlo fosse stato pra- tica comune, i risultati avrebbero mostrato delle prove molto più con- sistenti a favore degli steroidi. Infatti, nessuna revisione con metana- lisi è stata pubblicata fino al 1989 e così molti ostetrici non hanno potuto cogliere l’efficacia del trattamento e decine di migliaia di bambini prematuri hanno sofferto e sono morti inutilmente.51 MESSAGGI CHIAVE • È facile concludere che alcuni trattamenti sono utili quando non lo sono e viceversa, se non si fa attenzione agli errori sistematici e al ruolo del caso • I confronti sono la chiave per tutte le sperimentazioni dei trattamenti ben condotte • Non pubblicare i risultati della ricerca danneggia i pazienti • Le revisioni sistematiche di tutte le prove rilevanti dovrebbero essere la base per valutare l’effetto delle cure.
  • 77. 4• AFFRONTARE L’INCERTEZZA SUGLI EFFETTI DEI TRATTAMENTI Il Capitolo 3 ha descritto a grandi linee come sperimentare corret- tamente i trattamenti. In questo capitolo approfondiremo il tema del- l’incertezza che inevitabilmente accompagna l’effettiva utilità di ogni trattamento. Negli anni ’70 uno degli autori (IC), mentre era in vacanza negli USA, si ruppe una caviglia e fu curato da un ortopedico. Questi gli fece una steccatura temporanea, raccomandandosi che il passo suc- cessivo, una volta diminuita la tumefazione, fosse l’ingessatura del- l’arto inferiore per le successive sei settimane. Un paio di giorni dopo, una volta fatto ritorno a casa, IC si recò presso la locale clini- ca ortopedica, dove un medico inglese, senz’alcuna esitazione, fu di tutt’altro avviso. L’ortopedico gli disse che l’ingessatura della gamba sarebbe stata assolutamente inappropriata. Alla luce di queste ovvie incertezze su quale fosse il miglior trattamento, IC chiese di poter partecipare ad uno studio clinico controllato che potesse offrire una risposta. L’ortopedico inglese rispose che gli studi clinici sono desti- nati alle persone che nutrono dubbi su ciò che è giusto fare e ciò che non lo è – mentre lui era sicuro. Come possono convivere opinioni professionali così diverse e cosa dovrebbe fare un paziente? Ciascun ortopedico era individualmente certo della correttezza del proprio modo d’agire. I loro punti di vista, tanto marcatamente differenti, rivelavano l’incertezza professionale sul miglior modo di trattare una comune frattura. C’era qualche prova affidabile per valutare quale trattamento fosse effettivamente miglio- re? Se fosse stato così, nessuno dei due ortopedici ne era a conoscen- za? Oppure proprio nessuno sapeva dire quale trattamento fosse il
  • 78. 56 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA migliore? Forse i due ortopedici avevano una diversa valutazione relativa a specifici esiti dei trattamenti: è possibile che quello ameri- cano si preoccupasse particolarmente di ridurre il dolore – da qui la raccomandazione di ingessare – mentre è possibile che la sua contro- parte britannica fosse più preoccupata del danno muscolare che pote- va prodursi con l’immobilizzazione prolungata dell’arto. Se così fosse stato, perché nessuno dei due ortopedici ha chiesto a IC qual era l’esito che interessava di più a lui, ossia al paziente? Ci sono diverse questioni su cui riflettere. Primo, c’erano studi affi- dabili che confrontassero i due differenti approcci terapeutici racco- mandati? Se sì, questi studi mostravano specifici effetti su esiti (ridu- zione del dolore o del danno muscolare, ad esempio) che avrebbero potuto essere d’interesse per IC o per altri pazienti e che, rispetto ad essi, avrebbero potuto esprimere preferenze diverse? E se non ci fos- sero state delle prove in grado di fornire le informazioni necessarie? Alcuni clinici hanno ben chiaro cosa fare quando non ci sono prove affidabili. Ad esempio, uno specialista nella cura di pazienti colpiti da ictus ha scelto questo atteggiamento: ‘Io posso rassicurare i pazienti dicendo loro che sono un esperto nella diagnosi e nella valutazione clinica dell’ictus, che sono capace di interpretare le immagini cere- brali in maniera appropriata e di prescrivere le indagini corrette. Ma so anche dalla ricerca corrente che i miei pazienti potrebbero avere esiti migliori se curati in una unità di terapia intensiva dedicata ai pazienti con ictus (stroke unit). Peraltro, ci sono aspetti della cura del paziente su cui né io, né i miei colleghi abbiamo certezze, e ciò è par- ticolarmente vero nel caso della prescrizione di farmaci trombolitici: L’EVOLUZIONE DELL’INCERTEZZA MEDICA L’importanza dell’incertezza nella moderna pratica medica come concetto teore- tico, fenomeno empirico ed esperienza umana mi fu inculcata dal mio docente, Talcott Parsons. Egli mi ha anche comunicato il paradosso e la cogenza – sia per i medici che per i pazienti – del fatto che i nostri grandi progressi del 20° secolo nelle scienze mediche e tecnologiche ci hanno aiutato a comprendere quanto ancora siamo ignoranti, disorientati e in errore su molti aspetti della salute e della malattia, della vita e della morte. Fox R. The evolution of medical uncertainty. Milbank Fund Quarterly 1980; 58: 1-49
  • 79. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 57 questi potrebbero dare più benefici che danni, ma in realtà fare anche il contrario. In queste circostanze penso che sia mio dovere, per ridur- re l’incertezza, spiegare ai miei pazienti che io sono disponibile a pre- scrivere quel determinato farmaco, ma esclusivamente nel contesto di un accurato studio clinico controllato che permetta di capire qual è il comportamento migliore.’52 In questo capitolo prenderemo in esame questo genere di incertezza – quella cioè che si genera nel momento in cui le informazioni relative alle alternative terapeutiche siano ina- deguate e non ci siano forti preferenze da parte dei pazienti. EFFETTI ECLATANTI: RARI E FACILMENTE IDENTIFICABILI Che ci siano incertezze riguardo agli effetti dei trattamenti è quasi inevitabile – solo raramente i risultati sono tanto eclatanti da non far sorgere alcun dubbio. Se ciò accade, l’effetto del trattamento è dav- vero ovvio. Questo il caso della scoperta negli anni ’30 delle sulfona- midi, un gruppo di antibiotici, utilizzati per il trattamento di una con- dizione che inevitabilmente portava alla morte e all’epoca era molto comune tra le partorienti – la febbre puerperale. Questa era causata da un’infezione batterica delle vie genitali, in genere sostenuta da un microrganismo noto come Streptococcus pyogenes. Nonostante l’in- troduzione di più rigorose pratiche antisettiche verso la fine del XIX secolo, la febbre puerperale uccideva ancora migliaia di donne in tutto il mondo. L’uso delle sulfonamidi ebbe un effetto eclatante – il tasso di mortalità si ridusse drasticamente. Una risposta simile si ebbe quando le sulfonamidi furono utilizzate per il trattamento di alcune forme gravi di meningite batterica (un’infiammazione delle membra- ne che rivestono il cervello) nota come meningite meningococcica. Di nuovo, il tracollo del tasso di mortalità non lasciava spazio a dubbi. In questi casi non ci fu necessità di condurre attenti studi cli- nici controllati per dimostrare gli effetti incontrovertibili delle sulfo- namidi – gli effetti erano marcatamente evidenti se confrontati con ciò che il destino riservava alla vita dei pazienti prima che le sulfona- midi divenissero disponibili per l’uso. Altri due casi in cui gli effetti del trattamento emergono al di là di ogni ragionevole dubbio sono quelli già citati nel Capitolo 3 – l’uso dell’oppio per la riduzione del dolore e l’insulina per il diabete. Negli
  • 80. 58 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA anni ’20 del secolo scorso, quando i medici canadesi Banting e Best scoprirono l’insulina (un ormone prodotto dal pancreas), i pazienti avevano una breve aspettativa di vita e soffrivano immensamente, per le devastanti complicanze prodotte dagli elevati livelli di glucosio nel sangue. I primi risultati degli esperimenti sugli animali condussero molto rapidamente all’uso dell’insulina nei pazienti, con un successo eccezionale – che a quel tempo sembrò quasi un miracolo. IL MIRACOLO DELLA PENICILLINA All’inizio del 1943, presso il British General Hospital di Bangalore, nell’ India del Sud, avevamo ricevuto istruzione di mantenere rapporti amichevoli con le perso- ne del luogo. Il direttore dell’Istituto delle Scienze e della Tecnologia della città mi condusse in una visita che si rivelò di notevole interesse. Fui molto colpito dal- l’incontro con due giovani biochimici che con molta prudenza mi mostrarono un flacone contenente qualcosa di simile al porridge e che loro dissero essere peni- cillina: “abbiamo letto tutti gli articoli”. A fianco c’era un contenitore con una notevole crescita di colonie di streptococchi, come loro affermarono, ed un altro, quasi completamente pulito, che mi assicurarono essere stato ripulito dalla “peni- cillina”. Nel 1943 le poche informazioni che avevamo sulla penicillina ci giunge- vano dai giornali che ci arrivavano da casa e dagli USA e avevamo grandi aspet- tative su di essa. Poco dopo ricoverammo un cadetto dell’Accademia Militare, in fin di vita, colpi- to da una trombosi del seno cavernoso di origine infettiva e ormai setticemico [la setticemia è un’infezione batterica diffusa a tutto l’organismo, che colpisce anche i vasi sanguigni del cervello]. Nessuno dei nostri numerosi chirurghi volle inter- venire. Provammo di tutto, inutilmente. Ci sembrò un’idea folle, ma quali alternative avevamo? Dopo infinite discussio- ni decidemmo, medici ed infermieri insieme, che non c’erano risposte. Nel frat- tempo il paziente scivolava verso uno stato comatoso sempre più profondo. Ci decidemmo a dargli una possibilità. Così presi la mia bicicletta e mi diressi verso l’Istituto. Spiegai la situazione e loro mi diedero immediatamente un flacone di quella mistura, leggermente diluita. Prendemmo l’ago più grosso che avevamo a disposizione in ospedale, riempim- mo una siringa capiente, ed io stesso feci l’iniezione intramuscolare. La mattina seguente il paziente chiese del tè. Il miglioramento fu ineguagliabile. Una singo- la dose sembrò essere sufficiente. Morris JN. Recalling the miracle that was penicillin: two memorable patients. Journal of the Royal Society of Medicine 2004, 97:189-90
  • 81. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 59 Un altro esempio è rappresentato dall’uso del fegato – poi ricono- sciuto quale fonte di vitamina B12 – nei soggetti affetti da anemia perniciosa. In questo tipo di anemia fatale, i globuli rossi del sangue scendono col tempo a livelli disastrosamente bassi, lasciando i pazienti in una condizione di pallore cereo e di profonda stanchezza. Quando a questi pazienti furono somministrati degli estratti di fegato i risultati furono rapidi ed efficaci ed ora la vitamina B12 viene pre- scritta abitualmente. In modo simile, negli anni ’40, gli effetti bene- fici della streptomicina nel trattamento della meningite tubercolare e della penicillina per diverse infezioni batteriche sono emersi in modo inconfutabile. Più recentemente, gli effetti evidenti dei trapianti d’organo in pazienti affetti da insufficienza renale, epatica o cardiaca e della pro- tesi d’anca in pazienti affetti da dolore di origine artritica hanno reso superflua la conduzione di sperimentazioni cliniche controllate. Ed intorno all’inizio di questo secolo simili eclatanti risultati sono stati visti in pazienti cui veniva somministrato l’imatinib per la leucemia mieloide cronica.53 Prima dell’introduzione dell’imatinib questo tipo di leucemia rispondeva scarsamente ai trattamenti tradizionali. Quando il nuovo farmaco fu sperimentato in pazienti che non aveva- no risposto alla terapia standard, i risultati furono clamorosi. EFFETTI MODERATI DEI TRATTAMENTI: FREQUENTI E NON COSÌ FACILI DA INTERPRETARE Molti dei trattamenti disponibili non producono effetti eclatanti e per poterne stabilire l’efficacia devono essere sperimentati attraverso accurati studi clinici controllati. Inoltre, alcune volte una terapia ha un effetto molto visibile in alcune condizioni, ma non in altre. Ad esempio, le sulfonamidi hanno dimostrato un’efficacia nella cura della febbre puerperale, una malattia considerata un vero e proprio ‘killer’ di neo-mamme e nella meningite meningococcica, ma un effetto assai più modesto in quelle patologie che presentano un alto tasso di sopravvivenza anche in assenza di terapia farmacologica. È stato quindi necessario far ricorso a studi clinici controllati accurati per sapere quali fossero gli effetti delle sulfonamidi in queste condi- zioni. Negli anni ’30 e ’40 sono stati condotti diversi studi clinici controllati che hanno mostrato effetti soddisfacenti delle sulfonamidi
  • 82. 60 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA nell’erisipela (una grave infezione cutanea) e nella polmonite, ma anche la loro sostanziale inefficacia nella scarlattina.54 In modo simile, benché non ci siano dubbi sull’efficacia della vita- mina B12 nella terapia dell’anemia perniciosa, si continua ancora oggi a discutere se quest’ultima debba essere somministrata con un’iniezione mensile o trimestrale. A questo dubbio si potrà trovare una soluzione soltanto confrontando le due opzioni nell’ambito di un accurato studio clinico controllato. E, mentre appare chiara l’effica- cia della protesizzazione dell’anca nella riduzione del dolore artico- lare, è assai più difficile, ma non meno importante, stabilire quali vantaggi o svantaggi derivino dall’utilizzare tipi diversi di protesi. Alcune, ad esempio, potrebbero deteriorarsi più rapidamente di altre. QUANDO I MEDICI HANNO OPINIONI E CONVINZIONI DIVERSE Un’ampia variabilità d’uso nelle terapie per una certa malattia dimostra che esistono dubbi sull’uso dei migliori trattamenti. Un altro esempio di incertezza è il trattamento dell’ingrossamento benigno della ghiandola prostatica. Questa malattia – nota come iperplasia prostatica benigna (IPB) – è comune negli uomini anziani. I sintomi più fastidiosi sono l’aumentata frequenza della minzione o la difficol- tà nel passaggio delle urine. Ci sono diversi modi di trattare l’IPB, compreso lasciare che la natura faccia il proprio corso – alcune volte chiamato ‘vigile attesa’ o ‘monitoraggio attivo’ – in quanto i sintomi possono migliorare spontaneamente. Altre opzioni non chirurgiche includono la tradizionale terapia farmacologica (diversi farmaci sono attualmente prescritti per la IPB) e un prodotto derivato da una pian- ta naturale, la Serenoa Repens, che è un estratto della American saw palmetto o palma nana. Poi c’è la chirurgia – e i tassi di interventi per l’IPB variano considerevolmente. Negli Usa, ad esempio, quando nel 1996 alcuni ricercatori raccolsero i dati inerenti il tasso di interventi chirurgici nei diversi Stati, trovarono variazioni di quattro volte tra uno Stato e l’altro – dal 6 al 23 per cento tra i soggetti che facevano parte del maggior schema assicurativo pubblico statunitense (Medicare).55 Sappiamo che la scelta tra le diverse terapie per la IPB dipende dal bilanciamento tra rischi e benefici offerti dalle terapie stesse e dalle
  • 83. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 61 preferenze individuali: ciascuno di noi ha il proprio modo di definire quale sia l’esito di tale bilancio. Chi sceglie la chirurgia ha le mag- giori probabilità di liberarsi dai sintomi, ma anche di andare incontro a tutte le complicanze dell’intervento chirurgico come l’incontinen- za, l’eiaculazione retrograda e l’impotenza. La terapia farmacologica è meno efficace nel ridurre i sintomi, ma evita i rischi che sono asso- ciati alla chirurgia. Un comportamento attendistico non espone ai rischi, sia della chirurgia sia della terapia con i farmaci, ma facilmen- te non migliora la sintomatologia. Per poter avere informazioni utili per compiere una scelta informata tra queste differenti strategie è necessario confrontarle tra loro in uno studio clinico controllato. Quando un uomo vuol sapere qual è il modo migliore per risolvere questa sintomatologia così fastidiosa, il suo medico dovrebbe offrir- gli spiegazioni sui pro ed i contro di ogni trattamento in modo chia- ro, cosicché egli possa scegliere quello che ritiene più appropriato per sé. Su questa base ci si potrebbe ragionevolmente attendere che negli Stati Uniti le proporzioni di uomini che scelgono tra i diversi tratta- menti siano abbastanza simili tra loro. Ad oggi, i tassi di interventi chirurgici, così ampiamente differenti tra loro nei diversi Stati, dimo- strano invece come i medici siano ancora incerti su quando e in quale situazione far ricorso alla chirurgia. DIPENDE DALLA GEOGRAFIA ‘Come spesso accade in sanità, ‘il destino dipende dalla geografia’. Ad esempio, nel Vermont in una comunità viene sottoposto a tonsillectomia l’8 per cento dei bambini, mentre in un’altra il 70 per cento. Nel Maine la proporzione di donne settantenni che vengono isterectomizzate varia da meno del 20 per cento a più del 70. In Iowa, la proporzione di uomini ottantacinquenni che vengono sottoposti ad intervento chirurgico per ipertrofia prostatica varia dal 15 a più del 60 per cento.’ Gigerenzer G. Reckoning with risk: learning to live with uncertainty Londra, Penguin Books , 2002, pag. 101 Anche nel cancro della prostata, come già detto nel secondo capi- tolo, regna grande incertezza sull’utilizzo dello screening e, di conse- guenza, sulle opzioni di trattamento. Un altro campo in cui vi è incertezza fra i professionisti è quello della modalità di impiego della tonsillectomia (intervento chirurgico
  • 84. 62 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA per asportare le tonsille) per il trattamento della tonsillite cronica (persistente) o degli episodi ripetuti di tonsillite acuta. Nel passato la tonsillectomia era un trattamento di routine nei bambini, indipenden- temente dal fatto che i sintomi ne suggerissero o meno l’impiego. Attualmente viene utilizzata in maniera più selettiva, ma continua ad essere un intervento chirurgico molto frequente nei bambini ed in aumento negli adulti. Peraltro, non c’è accordo su quali siano le indi- cazioni alla chirurgia. Infatti in molti Paesi sono numerosi i pazienti che vengono sottoposti a tonsillectomia, sia che siano affetti da ton- sillite acuta ricorrente, sia da tonsillite cronica, o da episodi di farin- gite acuta aspecifica ricorrente. IL DILEMMA DELLA PROSTATA Gentile Signore, se c’è qualcosa di certo riguardo a screening, diagnosi e trattamento del cancro della prostata è l’incertezza che li accompagna. Il cancro della prostata è letale per alcuni uomini, ma non per molti altri. Sebbene potenzialmente ‘curabile’ in alcu- ni casi, potrebbe non essere necessario preoccuparsene affatto in altri. Un recente carteggio rivela quanto sia difficile per un uomo cercare di conciliare le prove scientifiche e le opinioni degli esperti medici. Migliaia di uomini ci pro- vano ogni settimana. Uno di questi, Jeremy Laurance, mi ha detto che per ora si terrà la sua prostata, ignorando i suoi sintomi che sfuggirebbero ad una diagnosi di cancro, dal momento che una visita dal medico di medicina generale avrebbe confermato che con molta probabilità si tratta di un problema prostatico benigno e trattabile piuttosto che un cancro. Il Professor Robert Eisenthal sembra essere grato che gli sia stata tolta. E a parte che a Jeremy non interessa essere aiutato dal suo medico, non ci sono molti urologi o oncologi che direbbero che l’uno o l’al- tro abbiano sicuramente ragione o torto. Finché non emergeranno prove scientifi- che affidabili, questo è tutto ciò che questi uomini, e tutti coloro che ogni settima- na affrontano questo dilemma, possono fare. La soluzione sarebbe informare quanto più possibile in modo completo le perso- ne. L’unico modo per ridurre l’incertezza è supportare la ricerca nel lungo perio- do. Nel frattempo, ci vorrebbe una politica sanitaria di più ampio respiro mirata ad aumentare la consapevolezza verso la propria salute e a diventare più compe- tenti, tanto per dirla nel gergo utilizzato nel recente documento Wanless sulla salute pubblica. Dr Chris Hiley, Head of Policy and Research, The Prostate Cancer Charity Hiley C. Prostate dilemma (Letter). The Independent, 2004, Jun 7, pag. 26
  • 85. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 63 Benché, in genere, si giustifichi l’intervento chirurgico con la pre- senza di infezione, frequenza e gravità della stessa sono in realtà estremamente variabili. Non bisogna inoltre trascurare che l’inter- vento chirurgico espone il paziente non solo ai rischi legati all’ane- stesia generale, ma anche a dei rischi specifici associati alla chirurgia, quale quello di una grave emorragia. Di fronte a questa variabilità di impiego della tonsillectomia un gruppo di ricercatori ha deciso di rivedere, in modo sistematico, tutti gli studi controllati così da cerca- re di definire quest’area di incertezza. Essi hanno trovato che nel- l’adulto non era mai stato condotto nessuno studio clinico controlla- to sulla tonsillectomia. Nei bambini la situazione non era migliore: i ricercatori identificarono due studi controllati ed entrambi con grossi limiti metodologici. In uno studio, ad esempio, i bambini assegnati al trattamento chirurgico – sia a tonsillectomia da sola che associata a rimozione delle adenoidi (adenoidectomia) – avevano caratteristiche diverse rispetto a quelli che non venivano sottoposti a trattamento chirurgico: i primi infatti avevano mostrato un pattern di infezioni della gola diverso rispetto ai secondi e provenivano da famiglie più povere. Era evidente che non era possibile confrontarli. I ricercatori conclusero, di conseguenza, che l’efficacia della tonsillectomia non era stata valutata in maniera adeguata e che, per poter trarre qualsiasi con- clusione, era necessario condurre ulteriori studi clinici controllati.56 UNA CONVERSAZIONE FRA MEDICI SUI DUBBI NELLA PRESCRIZIONE In una conversazione immaginaria fra due medici, un medico di medicina gene- rale fa la seguente considerazione: Molte delle cose che facciamo sono dei tenta- tivi e non credo che tu o io ci sentiamo a nostro agio in questa situazione. L’unico modo per sapere se qualcosa funziona è condurre uno studio appropriato, ma è ben difficile poter fare così. Così cosa facciamo? Escogitiamo delle soluzioni. E sono sicuro che alcune volte funzionano – l’esperienza clinica e tutto il resto. Ma altre volte potrebbe andare sia bene sia male, ma dal momento che non stiamo facendo qualcosa che si possa definire uno studio, non ha regole e non imparia- mo niente da tutto ciò. Adattato da Petit-Zeman S. Doctor, what’s wrong? Making the NHS human again. Londra: Routledge, 2005, pp. 79-80
  • 86. 64 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Ancora una volta è la terapia per il carcinoma della mammella (vedi Capitolo 2) a fornirci un esempio esaustivo di incertezza pro- fessionale. Nonostante la grande mole di ricerche condotte per la dia- gnosi e la terapia di questo tipo di tumore nel corso degli anni, a testi- moniare l’incertezza in questa area medica permane la grande varia- bilità sia nell’interpretazione dell’utilità dello screening mammogra- fico che nell’applicazione della terapia chirurgica, della radio e della chemioterapia. Sono numerose le domande senza risposta sulle basi biologiche della malattia e sul ruolo di geni ed enzimi nel metaboli- smo di ciascun paziente. Un altro problema ancora irrisolto è quale sia il miglior trattamento per il carcinoma della mammella in stadio ancora molto iniziale e del cosiddetto ‘pre-cancro’, così come quale sia il numero ideale di linfonodi del cavo ascellare che dovrebbero essere rimossi. È ancora oggetto di discussione quale sia la migliore organizzazione sanitaria sia per lo screening sia per il trattamento del cancro della mammella e sono necessarie più prove per migliorare la pratica clinica. E come se questa lista non fosse già sufficientemente lunga, altri elementi che sono particolarmente importanti per le pazienti, come il sollievo dalla fatica associata alla terapia o il miglior trattamento per il linfedema – una complicazione particolarmente dolorosa e disabilitante della chirurgia e della radioterapia a livello del cavo ascellare – non sono ancora stati adeguatamente studiati. Quali conclusioni trarre da tutto ciò? Primo, i medici devono valuta- re, rispetto a ciascun trattamento, le migliori prove disponibili origi- nate dall’esperienza di tutta la collettività scientifica, così come le revisioni sistematiche dei migliori studi disponibili. Poi devono discutere le diverse opzioni con i loro pazienti ed essere il più chiari possibile rispetto alle loro preferenze. Se, nonostante tutto ciò, rimangono ancora delle incertezze devo- no essere preparati a spiegarne le cause ai malati. Si dovrebbe consi- derare l’ammissione dell’incertezza non come una sconfitta, ma piut- tosto come un prerequisito per progredire, un aiuto per rendere le cure sempre più appropriate e sicure. I medici ed i pazienti devono inoltre collaborare per progettare insieme una ricerca via via miglio- re (vedi capitolo 7). Nel frattempo i malati devono comprendere che se, guardando alle prove disponibili, il loro medico dice loro “Non so”, questo non vuol dire che si debbano mettere alla ricerca del secondo parere di un medico che dia loro delle certezze quando è palese che queste non esistono.
  • 87. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 65 LE REAZIONI DEI PAZIENTI ALL’INCERTEZZA Nel 2002, una donna di 58 anni del New Jersey in USA, commentò: ‘Tristemente, come sempre nella mia esperienza, è stato impossibile avere un colloquio adeguato con un medico, dove i miei dubbi rispetto alla mam- mografia fossero tenuti in considerazione, come un articolo del New York Times sostiene essere diritto di ogni paziente. I medici diventano aggressi- vi e alquanto ostili quando dico che ho delle riserve a fare la mammografia ogni anno. La conclusione è che non credo di avere un buon rapporto con il medico e questo non va bene. Un buon scienziato non è spaventato dal- l’esprimere l’incertezza su un problema o dal discuterne apertamente. Io sono invece spaventata dai medici, che non hanno questa forma mentis scientifica.’ Diane Palacios, in una lettera al Dr. DA Berry del MD Anderson Cancer Center, Università del Texas, 2002 (riproduzione autorizzata). La Signora Palacios scrisse anche una lettera direttamente al New York Times, concludendo: ‘Io posso vivere con l’incertezza. Non voglio convivere con la diso- nestà.’ Palacios D. Re: Senators hear from experts, then support mammography (news article March 1). New York Times, 2002 Mar 4, pag. 20 Scrivendo nel 2005, una giovane dottoressa inglese, che più tardi divenne essa stessa una paziente, annotò: ‘Avendo lavorato nel NHS avevo aspettative realistiche rispetto alle attese, alle incertezze diagnostiche e alle pressioni che la mancanza di tempo eser- cita sui medici. Quello che apprezzai innanzitutto era che la diagnosi e la cura fosse stata fatta da medici in cui credere, che descrissero i fatti e le incertezze come tali, parlandomi dei passi successivi da compiere, senza dipingermi le cose migliori di quello che fossero e non distraendomi con il parlare di ciò che sarebbe potuto andare male o con il chiedermi continua- mente come mi sentivo…“Sono fortunata” dissi a mio padre (un pediatra); ma lui sottolineò che non dovevo considerarmi fortunata – la mia esperien- za avrebbe dovuto essere la norma.’ Chambers C. Book review. Hippocratic oaths – medicine and its discontents. Journal of the Royal Society of Medicine 2005; 98: 39-40
  • 88. 66 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Come possiamo quindi confrontarci con l’incertezza che sempre si associa agli effetti di nuovi farmaci o nuove tecnologie? Una risposta ovvia è quella di provare a ridurre l’incertezza – utilizzando, ad esempio, le nuove tecniche di cura soltanto nel contesto di una ricer- ca disegnata appositamente per sapere di più sui loro effetti. Un medico che si occupa di etica propone questo: ‘Se non siamo certi di quali siano i benefici intrinseci di ciascun trattamen- to, non possiamo nemmeno essere sicuri di quali siano i vantaggi nell’uso specifico di uno di questi – come nella cura di un singolo paziente. Appare quindi tanto irrazionale, quanto non etico, perseverare nell’applicare un trat- tamento piuttosto che un altro, prima di aver concluso un valido studio che li confronti. Così, la risposta alla domanda: “qual è il miglior trattamento per il paziente?” è: “Lo studio”. Lo studio è il trattamento. Questa è speri- mentazione? Si. Ma ciò che ne traiamo è che facciamo una scelta in un ambito di incertezza, associata alla raccolta dei dati. Questo significa che la scelta è “casuale”? Logicamente no. C’è un miglior meccanismo per fare scelte in condizioni di incertezza?’57 Se non ci sono studi disponibili, tutti i risultati importanti raggiun- ti da una nuova terapia non ancora sperimentata dovrebbero essere raccolti in maniera sistematica e standardizzata, così da contribuire al corpo delle conoscenze sui benefici che può offrire ai pazienti che la stanno ricevendo o ai cittadini più in generale. Dal momento che milioni di sterline dei contribuenti sono stati investiti nel sistema informativo del NHS, non sarebbe irragionevole aspettarsi che ven- gano utilizzate a beneficio della salute pubblica attraverso le modali- tà dette prima. Ci sono diversi esempi di professionisti sanitari che utilizzano que- st’approccio responsabile. Negli anni ’80 i ginecologi canadesi e bri- tannici concordarono sull’utilizzo del prelievo dei villi coriali – una tecnica invasiva utilizzata per la diagnosi prenatale delle anomalie fetali congenite – soltanto nell’ambito di studi clinici controllati, fin- ché non si fossero avute più informazioni sulla sua sicurezza rispetto ad altri test alternativi, come l’amniocentesi (vedi Capitolo 7). In modo simile, negli anni ’90, i pediatri inglesi raggiunsero un accordo sulla necessità di trattare con una nuova apparecchiatura cuore-pol- moni i bambini nati con insufficienza respiratoria solo nel contesto di uno studio controllato. Così facendo, medici e genitori sarebbero stati
  • 89. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 67 in grado di capire rapidamente se queste nuove apparecchiature sarebbero state più efficaci nel ridurre la mortalità o la disabilità grave rispetto ai trattamenti standard fino ad allora utilizzati. Più recentemente i pediatri hanno fatto uso dello stesso approccio per capire la fondatezza di alcune suggestioni riguardanti l’abbassare la temperatura corporea ai neonati per aiutarli a prevenire il danno cere- brale. La scelta di un approccio così rigoroso da parte dei medici nasce dalla consapevolezza che, quando ci sono incertezze rispetto ad un trattamento, è troppo facile produrre effetti dannosi inspiegabili, anche con le migliori intenzioni. DUE URRÀ PER L’INCERTEZZA Solo perché non sappiamo cosa ci riservi il futuro, possiamo nutrire delle speran- ze e fare le nostre scelte. Nel contesto dell’informazione al paziente sugli effetti di una terapia, pensiamo che un suo diritto fondamentale sia se accettare l’incer- tezza esistente (che in pratica spesso significa non essere d’accordo con il proprio curante) e il metodo proposto per risolverla (che include l’arruolamento in uno studio clinico controllato almeno come una possibilità per risolvere le incertezze). Pertanto non si dovrebbe guardare all’incertezza solo come ad un nemico, ma piuttosto come ad un’amica (o come ad un’opportunità). Una volta che l’incertez- za è stata identificata e riconosciuta, possono essere progettate soluzioni più effi- caci. Perciò, due urrà per l’incertezza. Djulbegovic B. Paradox esists in dealing with uncertainty. British Medical Journal 2004;328:1018 Nonostante ci sia un interesse sempre maggiore nel promuovere quest’attitudine, particolarmente per le terapie nuove e spesso molto costose, purtroppo vanno comunque perse molte buone occasioni. Ad esempio, attualmente non c’è nessun trattamento efficace noto per una malattia che distrugge rapidamente il sistema nervoso, nota come malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD), patologia che probabil- mente origina dall’assunzione di carne di mucche affette dalla forma bovina dello stesso male (BSE). Incomprensibilmente, anche quando si sa poco o nulla sul bilan- cio tra i possibili benefici ed i possibili rischi, alcune persone cerca- no di liberarsi dalla malattia facendo ricorso a qualsiasi trattamento che possa dare loro la sensazione di avere una speranza (vedi
  • 90. 68 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Capitolo 7). Ad oggi, quanto si potrebbe sapere di più, a tutto van- taggio dei pazienti, se certi trattamenti fossero stati sperimentati in studi condotti correttamente… RIDURRE LE INCERTEZZE SUGLI EFFETTI DELLE TERAPIE Qualcosa cambierà se le incertezze sui trattamenti verranno ridot- te in modo più efficace ed efficiente. Discuteremo alcune di queste modalità – in particolare il sempre maggior coinvolgimento dei pazienti – negli ultimi due capitoli del libro. C’è comunque un parti- colare aspetto – cui già abbiamo accennato in precedenza – da cui vorremmo cominciare. Quando non ci sono informazioni sufficienti sugli effetti di una terapia, la conoscenza può essere aumentata assi- curandosi che i medici offrano quel trattamento nel contesto di una valutazione formalmente condotta, fino a che non si sappia di più sul suo valore e sui possibili effetti collaterali. Perché fino ad oggi è pre- valso un comportamento che ha scoraggiato questo approccio capace di limitare i rischi? Questo problema ossessionava un pediatra inglese più di 30 anni fa che non sapeva farsi una ragione del fatto che fosse necessario ottenere un’autorizzazione per somministrare una terapia a metà dei suoi pazienti (per capirne gli effetti nell’ambito di uno studio con- trollato, somministrando la nuova terapia a metà dei pazienti ed il farmaco già in uso all’altra metà), mentre invece non ci voleva alcun tipo di autorizzazione per somministrarla a tutti come prescrizione standard.58Questo illogico doppio standard di riferimento si ripeteva continuamente, scoraggiando i clinici che volevano affrontare e ridurre le incertezze sugli effetti delle terapie. Ad esempio il General Medical Council (GMC), rispetto alle terapie offerte routinariamen- te nella pratica clinica, dà ai medici questi consigli: “la quantità di informazioni da dare ai pazienti può variare, in relazione ai fattori di rischio associati al trattamento o alle procedure e ai desideri propri dei pazienti”. Questa flessibilità non è esplicitata nella guida del GMC per il consenso informato alla partecipazione ad una speri- mentazione clinica, in cui invece si stabilisce che alle persone invi- tate a partecipare debba essere fornita un’informazione il più com- pleta possibile”.
  • 91. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 69 CHI DICE CHE LA RICERCA CLINICA FA MALE ALLA SALUTE? La maggior parte delle discussioni sull’etica della ricerca medica si è concentrata su come essa dovrebbe essere regolata. In effetti, la ricerca medica ha regole assai più stringenti della pratica clinica. Ad un esame attento delle innumerevoli linee guida che sono state scritte per regolamentare la ricerca, uno quasi sarebbe porta- to a concludere che essa, al pari del fumo di sigaretta, faccia male alla salute. Hope T. Medical ethics: a very short introduction. Oxford: Oxford University Press, pag. 99 È importante – ed etico – rispettare gli interessi di ciascuno dei pazienti che stanno assumendo una terapia nella pratica di tutti i gior- ni e non soltanto di quei pochi che entrano a far parte di uno studio clinico.60 È ovvio che le informazioni più rilevanti su un trattamento dovrebbero essere disponibili su richiesta, in ogni caso, ma sarebbe altresì desiderabile “dimensionare” le informazioni rilevanti sulle richieste e preferenze individuali, che potrebbero modificarsi nel tempo. Un’insistenza dogmatica sul fornire un’informazione comple- ta e sul consenso in ogni circostanza potrebbe essere una bella inter- ferenza con il buon senso e la buona pratica clinica.61 Tanto nelle sperimentazioni cliniche quanto nella pratica medica corrente, i pazienti che necessitano di terapie e di presa in carico sono verosimilmente molto diversi fra loro rispetto alla richiesta di infor- mazioni, alla loro abilità di comprensione delle stesse nel breve tempo messo a loro disposizione e al loro livello di ansia e di paura. Quando i clinici sforzandosi di ridurre i dubbi sugli effetti di una terapia sono costretti a fornire “le più complete informazioni disponibili”, potreb- bero seriamente sconvolgere quei pazienti che preferirebbero “crede- re al dottore”.62 Un investimento per migliorare la capacità di comu- nicazione degli operatori sanitari potrebbe essere una strategia migliore rispetto ad una rigida insistenza a spiegare tutto. Ancora più utile potrebbe essere un approccio flessibile ancorato alla convinzio- ne che quello che davvero porta ad una soddisfacente relazione tra medico e paziente è la fiducia reciproca. IL GMC (vedi prima), che sta rivedendo ora la sua linea guida al consenso informato, farebbe meglio a raccomandare che alle persone invitate a partecipare ad una sperimentazione clinica vengano fornite tutte le opportunità di acce- dere facilmente alle informazioni più complete disponibili.
  • 92. 70 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA LE DISTORSIONI DELL’ETICA Se un clinico sperimenta una nuova terapia con l’idea di studiarla in maniera accurata, valutandone gli esiti e pubblicandone i risultati, allora sta facendo ricer- ca. I soggetti di una ricerca di questo tipo vengono particolarmente protetti. Il pro- tocollo di ricerca deve essere rivisto da un Institutional Review Board (IRB) [l’equivalente dei comitati etici per la ricerca in Gran Bretagna]. Il modulo per il consenso informato viene accuratamente esaminato in tutti i particolari e la ricer- ca potrebbe anche non essere autorizzata. D’altro canto, un clinico potrebbe pro- vare ad utilizzare una nuova terapia senz’alcuna intenzione di avviare un proget- to di ricerca, soltanto perché è convinto che sarà di beneficio ai suoi pazienti. In questa situazione, provare il nuovo trattamento non è di per sé far ricerca, non è necessaria l’approvazione dell’IRB e il consenso informato potrebbe essere otte- nuto solo per proteggersi dal rischio di incorrere in una causa legale per cattiva pratica medica. I pazienti coinvolti nella seconda situazione (di non ricerca) sono di fatto esposti ad un rischio molto più elevato rispetto a quelli della prima (essere parte di una ricerca clinica). Peraltro, i clinici della prima situazione sembrano più rispettosi dei principi di comportamento etico. I medici che stanno conducendo una ricerca clinica stanno valutando una terapia, mentre quelli della seconda situazione stan- no usando il trattamento sulla base di loro convinzioni. Tuttavia, poiché i codici etici, cercando di proteggere i pazienti si focalizzano sulla creazione di una cono- scenza generalizzata, regolano la responsabilità degli sperimentatori ma non la mancanza di responsabilità di medici più spregiudicati. Lantos J. Ethical issues – how can we distinguish clinical research from innovative therapy? American Journal of Pediatric Hematology/Oncology 1994; 16: 72-5 Essere capaci di spiegare in modo chiaro l’incertezza richiede com- petenze ed un certo grado di umiltà da parte dei medici. Molti medici provano disagio quando provano a spiegare ai pazienti che stanno per partecipare ad uno studio in cui nessuno sa quale dei trattamenti con- frontati sia il migliore.63, 64 Ma l’attitudine del pubblico è cambiata: i medici arroganti che vogliono mostrarsi onnipotenti hanno sempre meno spazio. È necessario concentrarsi sulla formazione dei medici, che non sono stati abituati ad ammettere di essere degli esseri umani e di aver bisogno dell’aiuto e della partecipazione dei pazienti alla ricerca, per poter disporre di più certezze sulla scelta dei trattamenti. Uno dei maggiori ostacoli per molti professionisti sanitari e per i pazienti è la difficoltà nel comprendere il significato della randomiz-
  • 93. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 71 zazione – perché è necessaria e qual è il suo significato in termini pra- tici (vedi Capitolo 3). Ciò evidenzia l’urgenza di avere a disposizio- ne informazioni chiare e comprensibili sugli studi clinici e sulle moti- vazioni che li rendono necessari. Ci sono due necessità che devono essere distinte: primo, quella di un’educazione generale che consenta la comprensione dello studio clinico randomizzato e controllato e del perché viene fatto; secondo, quella della spiegazione delle motivazioni per cui uno specifico trat- tamento viene offerto al paziente soltanto nell’ambito di uno specifi- co progetto di ricerca. Nelle sale d’attesa delle cliniche, ai pazienti dovrebbe essere data la possibilità di comprendere la necessità di condurre studi clinici attraverso opuscoli semplici.65 Questi dovreb- UN APPROCCIO INTERATTIVO E PERSONALIZZATO AL CONSENSO INFORMATO ‘Buongiorno Signor Jones, sono il dottor Smith. Prego, si sieda e si metta como- do. Il suo medico di medicina generale mi ha chiesto d’incontrarla perché la sua mancanza di fiato non sembra migliorare e si chiedeva se io potessi suggerire un modo per aiutarla. Spero di essere in grado di farlo, ma questo potrebbe voler dire incontrarci più volte nei prossimi mesi e lavorare insieme per trovare la miglior cura per il suo disturbo. Ho più probabilità di riuscire ad aiutarla se so di più su di lei, su cosa è più impor- tante per lei e sulle sue preferenze. Essendo la prima volta che ci incontriamo, ritengo che sia utile che le dica brevemente come intendo provare a fare quanto abbiamo appena detto. I pazienti hanno opinioni molto diverse rispetto alla quan- tità di informazioni che desiderano siano fornite, o che ricevono, dai loro medici. La maggior parte dei pazienti sembra ricevere dai loro curanti meno informazio- ni di quelle che vorrebbe ma ce ne sono altri che preferirebbero non sentire nes- suna delle cose che invece il loro medico pensa dovrebbero voler conoscere. Dal momento che noi non ci conosciamo ancora, avrò bisogno del suo aiuto per impa- rare quanto lei vuol sapere del suo problema e delle possibili alternative terapeu- tiche. La prego di spingermi a fornirle più informazioni, se lei pensa che non sia stato abbastanza chiaro, o di dirmi che ne ha avuto abbastanza, se lei pensa che la sto stancando. Lei deve sapere che, in risposta ad una sua domanda diretta, le dirò sempre la verità e se non so la risposta farò del mio meglio per documentarmi e potergliela fornire al più presto. Pensa che sia un modo accettabile per procedere? Oxman AD, Chalmers I, Sackett DL. A pratical guide to informed consent to treatment. British Medical Journal 2001; 323: 1464-6
  • 94. 72 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA RANDOMIZZAZIONE – UNA SPIEGAZIONE SEMPLICE La randomizzazione serve a ridurre l’errore sistematico assicurando che i pazien- ti siano il più possibile simili in ogni gruppo di trattamento per tutti i fattori noti ed ignoti. Ciò assicurerà che ogni differenza trovata fra i gruppi rispetto all’esito/i di interesse sia attribuibile alle differenze nell’effetto dei trattamenti e non alle differenze tra i pazienti che ricevono ciascuno dei trattamenti. La randomizzazione allontana la possibilità che un clinico assegni, in maniera conscia o inconscia, un trattamento ad un particolare tipo di paziente, e un altro trattamento ad un altro, oppure che pazienti con determinate caratteristiche scel- gano un trattamento mentre quelli con altre ne scelgano uno diverso. Harrison J. Presentation to Consumers’ Advisory Group for Clinical Trials, 1995 bero aiutare a spargere il seme della comprensione e ridurre lo shock iniziale del momento in cui i pazienti vengono invitati a partecipare ad una sperimentazione clinica. Soprattutto, gli studi controllati dovrebbero essere promossi come un’attività in cui professionisti sanitari e pazienti si alleano per migliorare le possibilità di scelta tra le cure e la qualità della vita. Quindi, ai pazienti invitati a partecipa- re ad uno studio dovrebbe essere spiegato cosa questo comporterà e perché sono stati scelti. Ci piacerebbe arrivare a vedere il giorno in cui i pazienti non saranno stupiti nel ricevere tale invito: anzi, quello in cui saranno loro a chiedere automaticamente per quale studio sarebbero eleggibili66 e saranno anche in grado di scegliere quali tra i quesiti della ricerca sono quelli davvero importanti per loro. ETICA, COMITATI ETICI E INTERESSI DEI PAZIENTI Anche se può sembrare strano, gli esperti in etica medica ed i comi- tati etici per la ricerca hanno contribuito al mantenimento di un dop- pio standard sul consenso in presenza di incertezza sugli effetti delle terapie.67 Gli esperti di etica sembrano spesso più interessati a proteg- gere ‘la vulnerabilità’ piuttosto che ad incoraggiare un appropriato contributo dei pazienti per una partecipazione consapevole. Come un esperto di etica medica ha recentemente notato, ‘se gli esperti di etica e tutti gli altri volessero trovare qualcosa da criticare negli studi clini- ci, dovrebbero guardare all’inadeguatezza del lavoro scientifico, alle
  • 95. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 73 inutili ripetizioni e soprattutto alle esclusioni ingiustificabili e all’uso ingiusto ed irrazionale delle risorse. Il dibattito attuale è distorto per- ché non si riflette a sufficienza su cosa rende necessari gli studi clini- ci: migliorare la sicurezza dei trattamenti in uso e dimostrare che un trattamento è migliore rispetto alle alternative. Non ci sono scorciato- ie nell’etica – non più di quante ve ne siano nella programmazione degli studi clinici.’68 I comitati etici – comitati indipendenti che valu- tano gli aspetti etici delle proposte di nuove ricerche – si sono evoluti in risposta a numerosi scandali verificatisi in sperimentazioni su esse- ri umani chiaramente non etiche, dagli anni ’30 in poi. Questi comita- ti sono stati molto importanti nel proteggere le persone dagli abusi per- petrati in nome della ricerca e nell’esaminare con cura i tipi di ricerca destinati ad aumentare le conoscenze scientifiche, ma non nella valu- tazione dell’efficacia delle terapie. Se valutiamo il loro comportamen- to rispetto al tema specifico degli studi clinici controllati dobbiamo invece concludere che essi sono stati poco utili ai pazienti:69 • non distinguendo sufficientemente tra la ricerca destinata a valutare gli effetti delle terapie ancora poco utilizzate (che vuol dire che potrebbero non essere state ancora registrate) e quelle invece ampiamente utilizzate; • hanno prestato poca o nulla attenzione al doppio standard sul consenso al trattamento di cui abbiamo discusso prima; • non stabilendo che nuove proposte di ricerca giustificassero il proprio razionale su revisioni sistematiche di ricerche già esistenti; • non obbligando i ricercatori a dichiarare i conflitti di interesse; • non avendo fatto nulla per ridurre il problema del non riportare tutti i risultati di tutte le ricerche. Appare quindi lecito chiedersi se i comitati etici stiano davvero facendo il meglio per tutelare l’interesse del pubblico. Il Servizio Sanitario Nazionale inglese sta cercando soluzioni per rendere più facilmente disponibili al pubblico i risultati degli studi approvati. Ad esempio, ogni comitato etico dovrebbe ora tenere un registro delle proposte da esso valutate e richiedere un rapporto finale ai ricercato- ri, da rilasciarsi entro tre mesi. Ma ci sono ancora molti problemi che necessitano di risposte per assicurare che il lavoro dei comitati etici
  • 96. 74 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA di ricerca sia adeguato e trasparente. Solo allora i pazienti invitati a partecipare ad uno studio clinico controllato avranno fiducia della sua utilità e il loro contributo sarà fattivo. UNA GUIDA DIRETTA DAI PAZIENTI SUGLI STUDI CONTROLLATI DI BUONA QUALITÀ Adesso che è stato creato un meta-registro internazionale degli studi clinici con- trollati (www.controlled-trials.com, ultimo accesso 9 Agosto 2000), esiste la strut- tura per creare una Guida degli Studi Controllati di buona qualità (Good Controlled Trials Guide) in forma elettronica per aiutare chi sta pensando di par- tecipare ad un studio clinico a fare scelte ben informate. Le informazioni per i potenziali partecipanti agli studi inclusi nel registro potrebbero contemplare, ad esempio, se si stia rispondendo a domande rilevanti, se ad esse sia già stata data una soddisfacente risposta in ricerche precedenti, se il disegno dello studio sia robusto da un punto di vista scientifico ed etico, se gli esiti primari scelti siano importanti per i pazienti e se siano stati presi accordi per comunicare i risultati della ricerca a chi vi ha partecipato. In questo modo la mobilitazione dei cittadini e dei rappresentanti dei pazienti, con la loro influenza, potrebbe aiutare a riorien- tare l’agenda della ricerca clinica per servire meglio gli interessi dei pazienti, così come ha fatto la Good Birth Guide di Sheila Kitzinger, che ha aiutato i reparti di maternità ad essere più consapevoli della percezione da parte del pubblico delle cure da essi prestate. Chalmers I. A patient-led Good Controlled Trials Guide. Lancet 2000; 356: 774 La situazione attuale del comitati etici (CE) in Italia riflette in larga parte la realtà descritta precedentemente. Dal punto di vista istituzio- nale, la storia dei CE inizia in Italia nel 1988 con il decreto ministe- riale istitutivo dei CE locali mirato a favorire una maggiore rapidità nella realizzazione delle sperimentazioni cliniche nelle strutture del SSN e a promuovere una capillare diffusione della valutazione etica e scientifica sia in ambito di sperimentazione clinica sia di pratica cli- nica. Il numero di CE è andato da allora crescendo in modo progres- sivo e disomogeneo nelle diverse Regioni italiane ed alla fine del 2006 operavano in Italia oltre 300 CE locali. Se questa crescita quantitativa ha contribuito fortemente alla presa di coscienza dell’importanza della vigilanza etico scientifica sulla sperimentazione, è altresì vero che l’assenza di un indirizzo
  • 97. Affrontare l’incertezza sugli effetti dei trattamenti 75 LA RICERCA DOVREBBE ESSERE PARTE INTEGRANTE DELLA PRATICA CLINICA Da un punto di vista etico, la ricerca e la pratica clinica non dovrebbero essere considerate come due attività separate. Questo vale sia per le nuove forme di trat- tamento che si pensano essere utili al paziente (ma di cui non sono noti i poten- ziali rischi e benefici), così come per terapie più consolidate, di cui si può avere più esperienza, ma il cui valore è ancora da provare. Per il servizio sanitario bri- tannico, l’imperativo etico è incoraggiare la ricerca per sapere come utilizzare al meglio le proprie limitate risorse per il massimo vantaggio di tutti. Advisory Group on Health Technology Assessment. Assessing the Effects of Health Technologies: Principles, Pratice, Proposals. Londra: Department of Health, 1992, pag. 25 preciso e di chiara definizione di compiti e ruoli dei CE ha fatto emer- gere molte preoccupazioni sulla loro effettiva efficacia ed utilità. Ad aprile 2007, è stata completata una sistematica riorganizzazio- ne dei CE locali sulla base del nuovo Decreto Ministeriale di fine 2006, che ha introdotto una maggior responsabilizzazione delle Regioni e delle AUSL nel supporto e sostegno a favore dell’attività dei CE e nella vigilanza rispetto alla autoreferenzialità ed ai conflitti di interessi interni dei CE stessi. In Italia, uno strumento potenzial- mente in grado di migliorare la trasparenza nel campo della quantità e qualità delle sperimentazioni cliniche è dato dall’Osservatorio Nazionale Sperimentazioni Cliniche (http://www.oss-sper-clin.agen- ziafarmaco.it). All’interno dell’Osservatorio deve essere registrato un set di informazioni essenziali relative a tutte le sperimentazioni clini- che autorizzate dai CE e dal 2006 alcune di queste informazioni sono completamente disponibili al pubblico (nota del Curatore dell’edizio- ne italiana).
  • 98. 76 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA MESSAGGI CHIAVE • Le incertezze sugli effetti dei trattamenti sono molto frequenti • Quando scopriamo che nessuno sa come rispondere ad importanti incertezze sugli effetti di un trattamento, abbiamo bisogno di intraprendere un percorso capace di ridurre l’incertezza • È essenziale una buona conduzione degli studi clinici, insieme ad una loro attenta registrazione e valutazione • I doppi standard relativi al consenso del trattamento, entro e fuori gli studi clinici, non rispondono agli interessi dei pazienti • Molto può essere fatto per aiutare i pazienti a contribuire alla riduzione delle incertezze sugli effetti dei trattamenti • I comitati etici oggi non tutelano nel modo più efficace gli interessi dei pazienti.
  • 99. 5• LA RICERCA CLINICA: LA BUONA, LA CATTIVA E L’INUTILE Nei capitoli precedenti abbiamo sottolineato le ragioni per cui la ricerca debba essere disegnata in modo appropriato e rispondere a domande importanti per i pazienti e il pubblico. Quando questo acca- de, ognuno di noi può essere fiero e soddisfatto dei risultati, anche quando gli effetti sperati non si siano realizzati, in quanto saranno stati fatti importanti passi avanti, riducendo l’incertezza. Molta ricer- ca clinica è fatta bene – ed è in costante miglioramento in quanto si attiene comunque ai migliori standard di disegno e di presentazione dei risultati degli studi. Per varie ragioni, tuttavia, continua ad essere condotta e pubblicata anche ricerca inutile o malfatta. LA BUONA RICERCA L’ictus è una delle cause più importanti di morte e di disabilità di lungo termine. Durante il primo episodio di ictus muoiono da uno a due su sei pazienti; la mortalità cresce fino a quattro pazienti su sei nelle recidive che possono verificarsi negli anni successivi, la mag- gior parte delle quali si registra entro un anno dal primo evento, col- pendo la stessa regione del cervello. Una delle cause sottostanti l’ictus è il restringimento (stenosi) dell’arteria carotide che porta il sangue al cervello. Il materiale adiposo che riveste l’interno della carotide si stacca, bloccando le arterie tributarie più piccole, cau- sando l’ictus. Negli anni ’50 i chirurghi cominciarono ad usare un intervento chiamato endoarteriectomia della carotide per rimuovere questi depositi di grasso. La speranza era che la chirurgia riducesse
  • 100. 78 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA il rischio di ictus. Come per ogni altro intervento, ad esso si associa un rischio di complicanze. Sebbene l’endoarteriectomia della carotide sia diventato un inter- vento sempre più comune, fu solo negli anni ’80 che furono avviati degli studi randomizzati e controllati per valutarne rischi e benefici. Quest’informazione sarebbe stata chiaramente di vitale importanza per i pazienti e per i medici. Due studi ben disegnati, uno in Europa e uno in Nord America, furono condotti in pazienti che avevano già i sintomi della stenosi della carotide (ictus minori o sintomi di ictus transitori) per confrontare la chirurgia con il migliore trattamento disponibile non chirurgico. Molte migliaia di pazienti presero parte a questi studi di lunga durata. I risultati, pubblicati negli anni ’90, mostrarono che la chirurgia poteva ridurre il rischio di ictus o morte, ma che i benefici dipendevano dal grado di stenosi della carotide. I pazienti con restringimenti relativamente minori, a conti fatti, erano danneggiati dalla chirurgia che poteva causare essa stessa degli ictus. Queste importanti scoperte ebbero dirette implicazioni per la pratica clinica.70, 71 Un altro esempio rilevante di buona ricerca riguarda le donne gra- vide. In tutto il mondo, 600 mila donne muoiono ogni anno per le complicanze della gravidanza. La maggior parte di queste morti avviene nei Paesi in via di sviluppo e molte sono associate alle crisi convulsive dovute ad una complicazione della gravidanza, nota come eclampsia. Questa è una malattia devastante che può uccidere sia la mamma sia il bambino. Le donne con la condizione predisponente – pre-eclampsia (conosciuta anche come tossiemia) – presentano iper- tensione e presenza di proteine nelle urine. Nel 1995, la ricerca mostrò che le iniezioni di magnesio solfato, un farmaco semplice e poco costoso, potevano prevenire questi attacchi nelle donne affette eclampsia (vedi Capitolo 6). Lo stesso studio mostrò che il magnesio solfato era più efficace, rispetto ai farmaci standard anticonvulsivanti standard, nel fermare le convulsioni. Così, i ricercatori si resero conto che sarebbe stato importante scoprire se il magnesio solfato sarebbe stato in grado di prevenire le convulsioni in donne con pre-eclampsia. Lo studio Magpie, disegnato per risponde- re a questa domanda, fu un importante successo, che coinvolse più di 10.000 donne gravide con pre-eclampsia in 33 nazioni in tutto il mondo. Oltre all’assistenza standard, metà delle donne ricevette un’iniezione di magnesio solfato e metà un placebo (un farmaco iner-
  • 101. La ricerca clinica: la buona, la cattiva e l’inutile 79 te). Lo studio, con risultati chiari e convincenti, mostrò che il magne- sio solfato riduceva di più della metà il rischio di convulsioni. Inoltre, benché il trattamento non sembrasse ridurre il rischio di morire del bambino, vi erano prove che potesse ridurre il rischio di morte della madre. E, a parte alcuni lievi effetti collaterali, questo farmaco non sembrava danneggiare né la madre, né il bambino.72, 73 I risultati di studi ben condotti stanno facendo una reale differenza per le vite dei bambini infettati dallo HIV (virus da immunodeficien- za acquisita), la causa dell’AIDS. Nel mondo ogni giorno muoiono più di 1.000 bambini per le malattie legate ad HIV e AIDS. Le infe- zioni batteriche, come la polmonite, insieme al debole sistema immu- nitario di questi bambini, sono una causa comune di morte. Il cotri- mossazolo è un antibiotico di basso costo, ampiamente disponibile, che è stato usato per molti anni nella cura di bambini e adulti con infezioni polmonari non legate all’AIDS. Studi in adulti affetti da HIV hanno mostrato che il farmaco riduceva anche altre complican- ze da infezioni batteriche.74 Quando i dati preliminari suggerirono che le infezioni in bambini con HIV potevano essere ridotte, un gruppo di ricercatori britannici collaborò con i colleghi in Zambia per sperimentare, in uno studio di ampie dimensioni da condurre in quel paese, l’efficacia preventiva del cotrimossazolo. Lo studio cominciato nel 2001 e durato circa due anni, confrontò l’antibiotico con un placebo in più di 500 bambini. I risultati furono presto chiari: il farmaco riduceva del 43% le morti legate all’AIDS e i ricoveri del 23%. A quel punto un comitato indi- pendente, che monitorava i risultati dello studio, ne raccomandò LA MIA ESPERIENZA DI MAGPIE Sono stata molto contenta di far parte di questo studio. A 32 settimane ho comin- ciato a sviluppare edemi che sono diventati sempre più importanti, finché non mi è stata diagnosticata la pre-eclampsia e a 38 settimane sono stata ricoverata. Il mio bambino è nato con un taglio cesareo e sono grata che entrambi siamo completa- mente guariti. La pre-eclampsia è una malattia spaventosa e spero vivamente che i risultati dello studio possano essere utili a donne come me. Calir Giles, partecipante allo studio Magpie MRC News Release. Magnesium sulphate halves risk of eclampsia and can save lives of pregnant women. Londra: MRC, 31 Maggio 2002
  • 102. 80 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA l’interruzione. Il primo risultato fu che il governo dello Zambia deci- se di dare a tutti i bambini coinvolti nello studio il cotrimossazolo. Una conseguenza importante fu che l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’UNICEF cambiarono prontamente le loro raccoman- dazioni sui farmaci efficaci per i bambini con HIV.75, 76 LA CATTIVA RICERCA Purtroppo la ricerca non sempre è ben condotta o affronta temi realmente rilevanti. Consideriamo l’esempio di una seria e problema- tica malattia come la discinesia tardiva. Si tratta di una conseguenza grave dovuta all’uso prolungato di farmaci neurolettici (antipsicotici) prescritti per problemi psichiatrici e in particolare per la schizofrenia. I segni più caratteristici delle discinesia tardiva sono i movimenti involontari e ripetitivi della bocca e della faccia come smorfie del viso, schiocco delle labbra, protrusione frequente della lingua, corru- gamento e gonfiamento delle guance. Ogni tanto tutto ciò è accom- pagnato da movimenti involontari delle mani e dei piedi. Un pazien- te su cinque, che assuma per più di tre mesi questi farmaci, presenta questi effetti collaterali. Negli anni ’90, un gruppo di ricercatori si mise alla ricerca siste- matica di quali trattamenti fossero stati usati per la discinesia tardi- va nei precedenti 30 anni. Nel 1996 essi scrissero di essere rimasti piuttosto sorpresi nell’aver identificato più di 500 studi randomizza- ti e controllati su 90 diverse terapie farmacologiche. Nessuno di questi studi aveva tuttavia prodotto risultati utili. Alcuni di essi ave- vano incluso un numero troppo piccolo di pazienti per poter dare risultati utili; in altri il trattamento era stato così breve da essere insignificante.77 Lo stesso gruppo di ricerca pubblicò una revisione completa sui contenuti e sulla qualità degli studi controllati sul trattamento gene- rale della schizofrenia. Analizzarono 2.000 studi e restarono sconcer- tati. Negli anni i farmaci hanno certamente migliorato le prospettive delle persone con schizofrenia per alcuni aspetti. Ad esempio, alcuni pazienti possono ora vivere a casa o in comunità. Ma negli anni ’90 (e ancora oggi) la maggior parte degli studi sui farmaci è stata con- dotta su pazienti ospedalizzati, rendendo quindi incerta la trasferibi- lità dei risultati ai pazienti trattati ambulatorialmente. Ma più di tutto
  • 103. La ricerca clinica: la buona, la cattiva e l’inutile 81 risultò sorprendente l’incongruenza tra i criteri di valutazione degli esiti dei trattamenti. I ricercatori scoprirono che erano stati sperimen- tati più di 600 trattamenti – principalmente farmaci, ma anche la psi- coterapia – e che erano state usate 640 diverse scale per valutare i risultati, di cui 369 usate in un solo studio e mai replicate in altri. Ciò rese di fatto impossibile confrontare i risultati degli studi fra loro, che non furono interpretabili né dai medici, né dai pazienti. Fra i molti problemi identificati i ricercatori si accorsero che molti studi erano troppo piccoli o di durata troppo breve per fornire risultati utili. Inoltre, i nuovi farmaci venivano spesso confrontati con farmaci già noti per i loro effetti collaterali – una valutazione ovviamente scorret- ta. Gli autori di questa revisione conclusero che mezzo secolo di studi di limitata qualità, durata e utilità clinica avevano sottratto spazio a studi ben disegnati, condotti in modo appropriato e descritti a regola d’arte.78 L’importanza di valutare gli esiti rilevanti per i pazienti è chiara- mente illustrata – nei suoi aspetti più negativi – dai primi studi sul- l’analgesia epidurale somministrata alle donne per il dolore durante il parto. Negli anni ’90 alcuni ricercatori fecero una revisione degli studi controllati dell’analgesia epidurale rispetto a quella non-epidu- rale. Stimarono che, nonostante a milioni di donne fosse stata offer- ta l’analgesia epidurale nei precedenti 20 anni, tra queste meno di 600 avevano partecipato a confronti ben condotti con altre forme di controllo del dolore. Essi identificarono nove studi che potevano essere analizzati in modo affidabile. Gli esiti venivano generalmen- te misurati attraverso il livello di ormoni e di altre sostanze che riflettevano il grado di stress durante il travaglio. Venivano talvolta valutati anche gli esiti nel neonato. La misurazione della percezione ESSERE MEGLIO INFORMATI Anche nel caso in cui non ci siano prove affidabili dell’efficacia degli interventi o queste ci siano ma solo di bassa qualità è importante evitare uno scetticismo eccessivo. Proprio le revisioni sistematiche ci aiutano a mettere in luce quali prove di elevata qualità esistono o meno, così i clinici, i ricercatori, i decisori sani- tari e i pazienti quantomeno saranno informati meglio. Soares K, McGrath J, Adams C. Evidence and tardive dyskinesia. Lancet 1996; 347; 1696-7
  • 104. 82 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA del dolore riferito dalle donne stesse era presente solo in due studi. In altri termini, chi aveva condotto gli studi aveva sicuramente tra- lasciato un esito di primaria importanza – se le donne provassero meno dolore o no.79 Nel Capitolo 3 abbiamo spiegato come presentare i risultati della ricerca in maniera selettiva possa condurre ad errori gravi. Alcuni studi ‘negativi’ vengono completamente occultati quando i risultati non rispondono alle aspettative degli sperimentatori o dei finanziato- ri. Senza una documentazione pubblicata che ne tenga traccia questi studi scompaiono. Un altro problema riguarda il riferire in maniera selettiva i risultati nell’ambito degli studi pubblicati – ossia, alcuni dei risultati vengono esclusi in quanto non supportano le interpreta- zioni dei ricercatori o dei finanziatori dello studio sull’effetto del trat- tamento testato. Questo è imperdonabile. Ma perché errori di questo tipo sono così importanti? Nel 2004, un gruppo di ricercatori pubblicò la prima valutazione completa di questo tipo di errore sistematico di pubblicazione.80 Analizzarono più di 100 studi randomizzati, dei quali poterono otte- nere copia del protocollo dello studio e di ogni sua variazione. Poterono così conoscere quali esiti i ricercatori avevano programma- to di valutare. Vennero esaminate le pubblicazioni di quegli stessi studi e vennero confrontate con quanto prima scoperto. Trovarono descrizioni incomplete per metà degli esiti positivi del trattamento e per i due terzi di quelli negativi. Continuarono nella ricerca, spedendo un questionario ai ricercato- ri coinvolti in ogni singolo studio, per indagare sugli esiti che non erano stati descritti: solo meno della metà di essi rispose. All’inizio, la maggior parte di questi negò l’esistenza di dati raccolti ma non pubblicati, anche se c’erano prove incontrovertibili della loro presen- za all’inizio della ricerca – essendo citati nel protocollo e alcune volte anche nella sezione dei metodi degli stessi articoli pubblicati. Per eli- minare questa cattiva “abitudine” i ricercatori proposero la registra- zione di tutti gli studi e di tutti i protocolli, in modo che potessero essere resi pubblicamente disponibili per eventuali analisi.
  • 105. La ricerca clinica: la buona, la cattiva e l’inutile 83 LE IMPLICAZIONI DELLA CATTIVA RICERCA L’errore sistematico dovuto alla parziale soppressione dei risultati (outcome reporting bias) agisce in modo sinergico con la mancata pubblicazione di interi studi e ha conseguenze molto ampie. Aumenta la frequenza di risultati spuri e falsa quindi anche i risultati delle revisioni della letteratura che finiranno inevita- bilmente anche per sovrastimare gli effetti degli interventi. La situazione peggio- re per i pazienti, operatori e amministratori si verifica quando, in conseguenza di ciò, vengono utilizzati e sostenuti interventi non efficaci o dannosi, oppure quan- do terapie costose, considerate migliori di quelle meno costose, non sono in real- tà tali. Chan A-W, Hróbjartsson A, Haahr MT, Gøtzsche PC, Altman DG. Empirical evidence for selective reporting of outcomes in randomized trials: comparison of protocols to published articles. Journal of the American Medical Association 2005; 291: 2457-65 LA RICERCA INUTILE Un certo tipo di ricerca si colloca a metà strada fra quella buona e quella cattiva, ed è quella chiaramente inutile. Un esempio di questo tipo di ricerca riguarda i bambini prematuri. Quando i bambini nasco- no prematuri i loro polmoni possono non essere adeguatamente svilup- pati, con il rischio di complicanze potenzialmente letali come la sin- drome da distress respiratorio. Fin dall’inizio degli anni ’80 erano disponibili prove schiaccianti che la somministrazione di un farmaco steroide a donne gravide a rischio di parto prematuro riducesse la fre- quenza della sindrome e della morte conseguente nei neonati. Negli anni successivi sono stati condotti altri studi che continuavano a con- frontare gli steroidi con il placebo o con il non trattamento. Se i risul- tati dei primi studi fossero stati analizzati in modo sistematico e com- binati utilizzando la metanalisi (vedi Capitolo 3), difficilmente sareb- bero stati intrapresi molti degli studi successivi. Le prove nel loro insieme avrebbero semplicemente mostrato che gli studi non erano necessari. Nel Capitolo 1 abbiamo citato un altro esempio di ricerca non necessaria, ancora una volta perché i risultati dei precedenti studi non erano stati ripresi e analizzati. Il trattamento in questione era la
  • 106. 84 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA nimodipina, sperimentata in pazienti colpiti da ictus, per ridurre l’estensione del danno cerebrale. I risultati degli esperimenti sugli animali non erano mai stati rivisti sistematicamente e analizzati in modo appropriato. Quando lo furono, diventarono evidenti i proble- mi legati alla mancanza di randomizzazione e alla valutazione non in cieco degli esiti. Gli ‘incoraggianti’ risultati derivanti dagli studi sugli animali, che indussero a condurre studi sui pazienti colpiti da ictus, si dimostrarono assolutamente non adeguati.81 Un altro esempio di ricerca inutile riguarda i pazienti sottoposti a chirurgia intestinale. Nel 1969 venne condotto uno studio per vedere se gli antibiotici, confrontati con il placebo (farmaco inerte), riduce- vano il rischio di morte dopo l’intervento. Lo studio era di piccole dimensioni ed i risultati non giungevano a conclusioni definitive. Fu quindi appropriato, negli anni ’70 condurre altri studi per ridurre l’in- certezza. Con l’accumularsi delle prove, divenne chiaro da metà anni ’70 che gli antibiotici riducevano la mortalità post-chirurgica. Nonostante ciò, anche negli anni ’80, sempre per rispondere alla stes- sa domanda, altri studi continuarono ad essere approvati dai comitati etici ed essere condotti dai ricercatori. Come risultato, a metà dei pazienti coinvolti in questi successivi studi fu negato un trattamento già noto per essere in grado di ridurre la mortalità dopo l’intervento. Come è potuto succedere? La spiegazione più probabile è che i ricer- catori che hanno condotto gli studi successivi non avessero passato in rassegna in modo sistematico le prove sin lì accumulate o non aves- sero presentato i risultati della nuova ricerca nel contesto di una revi- sione aggiornata delle prove rilevanti. Chiaramente, i comitati etici non avevano richiesto ai ricercatori di documentarsi sull’effettivo stato di sviluppo delle conoscenze prima dell’approvazione degli studi. In altre parole, né i ricercatori, né i comitati etici avevano messo al primo posto l’interesse dei pazienti.82 MESSAGGI CHIAVE • La ricerca inutile è uno spreco di tempo, lavoro, denaro e di altre risorse • Nuove ricerche dovrebbero essere iniziate solo se revisioni aggiornate di precedenti ricerche indicano che esse sono necessarie • I dati ottenuti dalle nuove ricerche dovrebbero essere usati per aggiornare i risultati di cui si era già in possesso.
  • 107. 6• MENO RICERCA, METODOLOGIE RIGOROSE E QUESITI RILEVANTI Un editoriale del British Medical Journal, alcuni anni fa, riportava un titolo clamoroso: ‘Lo scandalo della ricerca medica di cattiva qua- lità.’83 L’autore chiedeva meno ricerca, di migliore qualità e fatta per le giuste ragioni. Nei capitoli iniziali abbiamo descritto i motivi di tanta preoccupazione. MENO RICERCA Per molte organizzazioni che supportano la ricerca biomedica e per tanti ricercatori che se ne occupano, lo scopo dichiarato è chiaro: con- tribuire alla conoscenza per migliorare la salute delle persone. Ma in che modo molte delle milioni di ricerche pubblicate ogni anno contri- buiscono realmente ed utilmente a questa giusta causa? Alcuni ricercatori di Bristol decisero di porre una questione fonda- mentale: ‘Fino a che punto le domande significative per i pazienti UNA MONTAGNA DI INFORMAZIONI Ogni anno nella letteratura biomedica vengono pubblicati più di due milioni di articoli in più di 20.000 riviste – letteralmente una piccola montagna di informa- zioni … se accatastati (gli articoli) arriverebbero a 500 metri di altezza. Mulrow CD. Rationale for systematic reviews In: Chalmers I, Altman CD, a cura di. Systematic reviews. Londra: BMJ Books, 1995
  • 108. 86 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA affetti da osteoartrosi del ginocchio, e di cui anche i clinici si occupa- no, sono tenute in considerazione quando si pianifica la ricerca su questa malattia?’84 Essi cominciarono con il formare quattro focus group – costituiti rispettivamente da pazienti, reumatologi, fisiotera- pisti e medici di medicina generale. Questi gruppi furono unanimi nel dire chiaramente che non volevano più nessuno studio sponsorizzato da industrie farmaceutiche, confrontando nuovi farmaci anti-infiam- matori non steroidei (il gruppo di farmaci che comprende, ad esem- pio, l’ibuprofene) con un placebo (farmaco inerte). Al posto degli studi sui farmaci, i partecipanti ai focus group volevano valutazioni rigorose dell’efficacia della fisioterapia e della terapia chirurgica, delle strategie educative e di adattamento che potrebbero aiutare i pazienti a gestire con maggior successo questa malattia cronica, disa- bilitante e molto dolorosa. Ovviamente, questo genere di trattamenti e di assistenza sono meno interessanti da un punto di vista commer- ciale rispetto ai farmaci e per questo vengono molto spesso ignorati. Quante altre aree della ricerca nel campo terapeutico, se valutate in questo modo, rivelerebbero un’incoerenza tra le domande sugli effet- ti dei trattamenti che interessano i pazienti ed i clinici e quelle cui cer- cano di trovare risposta i ricercatori? Altri esempi85, 86, 87 ci inducono a sospettare che quest’incoerenza sia la prassi, piuttosto che l’ecce- zione. I piccoli cambiamenti nella formulazione dei farmaci raramen- te producono medicinali sostanzialmente innovativi, o di maggior efficacia, eppure questo tipo di studi domina la ricerca nel trattamen- to dell’artrite e di altre malattie. Che spreco di risorse! Chiaramente questa situazione è insoddisfacente, ma come si è potuta via via affermare? Una spiegazione potrebbe essere che gli studi condotti dai ricercatori vengono distorti da fattori esterni.88 L’industria farmaceutica, ad esempio, fa ricerca per rispondere principalmente ai propri azionisti e non in primo luogo per soddisfare i pazienti o i clini- ci. Gli affari sono pilotati dai grandi mercati – come quello delle donne che si interrogano sull’uso della terapia ormonale sostitutiva o quello delle persone depresse, ansiose o sofferenti. Solo raramente, negli ulti- mi decenni, questo approccio orientato al business ha portato a nuovi trattamenti, perfino per malattie del ‘mercato di massa’. Piuttosto, all’interno di specifici gruppi di farmaci, l’industria ha prodotto molti composti assai simili fra loro – i cosiddetti farmaci ‘me-too’. Questo ricorda i giorni in cui l’unico pane disponibile nei supermercati era costituito da infinite variazioni di pane bianco in cassetta a fette.
  • 109. Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti 87 Quindi non c’è da sorprendersi che l’industria farmaceutica spen- da di più nel marketing che in ricerca. Ma in quale modo l’industria convince i prescrittori ad usare questi nuovi prodotti piuttosto che quelli già esistenti, che sono alternative meno costose? Una strategia comune è quella di commissionare nume- rosi piccoli progetti di ricerca che valutano se i nuovi farmaci siano meglio che non fare nessun trattamento, mentre ci si guarda bene dal fare ricerche per capire se i nuovi farmaci siano migliori di quelli già esistenti. È triste dover constatare come l’industria abbia poche diffi- coltà a trovare medici disponibili ad arruolare i propri pazienti in que- ste imprese infruttuose. Gli stessi medici spesso finiscono con il pro- muovere i prodotti studiati in questo modo.89 Le autorità responsabili della registrazione dei farmaci spesso ci mettono del loro a peggiorare le cose, sostenendo che i nuovi farmaci dovrebbero essere confrontati con il placebo piuttosto che con trattamenti efficaci già esistenti. I commenti su riviste mediche prestigiose, come The Lancet90, hanno appuntato l’attenzione sugli incentivi perversi che attualmente L’IMPATTO DEI FARMACI ‘ME-TOO’ IN CANADA In British Columbia la maggior parte dell’incremento (80%) della spesa farma- ceutica, fra il 1996 e il 2003, è spiegato dall’uso di nuovi farmaci brevettati che non offrono sostanziali miglioramenti rispetto alle alternative meno costose, già disponibili prima del 1990. L’aumento della spesa dovuta all’uso di questi farma- ci me-too, che hanno prezzi superiori ai farmaci concorrenti già sperimentati nel passato, meriterebbe una valutazione molto rigorosa. Approcci nella definizione dei prezzi dei farmaci come quello adottato in Nuova Zelanda potrebbero permet- tere dei risparmi utilizzabili per altri bisogni sanitari. Ad esempio, si sarebbero potuti risparmiare 350 milioni di dollari (il 26% del totale della spesa dei farma- ci prescrivibili), se la metà dei farmaci me-too consumati nel 2003 avesse avuto un prezzo competitivo rispetto ai vecchi farmaci alternativi. Questi risparmi potrebbero servire a pagare gli stipendi a più di mille nuovi medici. Dato che la lista dei primi 20 farmaci nelle vendite a livello mondiale include nuove versioni brevettate in categorie già da tempo note … i farmaci me-too pro- babilmente sono responsabili degli andamenti della spesa nella maggior parte delle nazioni sviluppate. Morgan SG, Bassett KL, Wright JM, et al. ’Breakthrough’ drugs and growth in expenditure on prescription drugs in Canada. British Medical Journal 2005; 331: 815-6
  • 110. 88 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA guidano alcuni dei soggetti coinvolti nella ricerca clinica e sui sem- pre più numerosi rapporti poco trasparenti tra l’università e l’indu- stria. Una editorialista sul New England Journal of Medicine91 si chiese schiettamente: ‘La medicina accademica è in vendita?’. Tuttavia, nel mondo della ricerca biomedica le priorità commercia- li non sono le uniche influenze perverse che allontanano l’attenzione dagli interessi prioritari dei pazienti. Molti, nelle università e nelle organizzazioni che finanziano la ricerca, ritengono che i miglioramen- ti nella salute giungeranno dai tentativi di chiarire i meccanismi di base della medicina. Così continuano a fare ricerca nei laboratori e sugli animali. Sebbene la ricerca di base sia indubbiamente necessaria, ci sono poche prove a sostegno dell’importanza che le viene acritica- mente attribuita92, 93 La conseguenza è stata una proliferazione massic- cia di ricerche di laboratorio, che non sono state valutate in modo appropriato per verificare quanto fossero rilevanti per i pazienti. Una ragione di questa distorsione è la campagna promozionale sorta intorno ai miglioramenti clinici che la ricerca di base potrebbe offrire. Per esempio, cinquant’anni dopo la scoperta della struttura del DNA è ancora assordante il clamore delle notizie sui potenziali benefici che potrebbero derivarne per l’assistenza sanitaria. Come ha osservato un genetista, ‘per vent’anni i genetisti hanno fatto un sacco di promesse sui risultati che avrebbero potuto ottene- re. Pochi sono stati raggiunti e alcuni non lo saranno mai.’94 Se si vuole essere onesti bisogna riconoscere che non esistono scorciatoie credibili rispetto alla necessità di ricerche ben disegnate sui pazienti se si vogliono sperimentare le ipotesi terapeutiche derivate dalla ricerca di base. E, troppo spesso, a queste teorie non fa seguito la verifica della loro rilevanza per i pazienti. Più di dieci anni dopo che i ricercatori avevano identificato il difetto genetico alla base della fibrosi cistica, le persone affette da questa malattia si stanno ancora chiedendo quando vedranno le ricadute positive di questa scoperta sulla loro salute (vedi Capitolo 2). UNA RICERCA MIGLIORE Anche quando la ricerca potrebbe sembrare rilevante per i malati, i ricercatori sembrano trascurare le preoccupazioni dei pazienti, se si guarda al modo in cui disegnano i loro studi. Non si può non citare a
  • 111. Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti 89 RISCHIOSI, AMBIGUI E INGANNEVOLI? In uno spiritoso articolo per l’edizione natalizia del British Medical Journal, due ricercatori hanno creato un’azienda di imbrogli chiamata HARLOT SpA (ndt: in italiano letteralmente: “Meretrice SpA”) per fornire una serie di servizi ai finan- ziatori degli studi clinici. Per esempio. ‘Possiamo garantire buoni risultati alle aziende produttrici di rischiosi far- maci e dispositivi medici che stanno cercando di aumentare le quote di mer- cato, alle associazioni di operatori sanitari che vogliono aumentare la domanda per i loro inutili servizi diagnostici e terapeutici e ai dipartimenti sanitari locali e nazionali che stanno cercando di implementare politiche per la salute irrazionali e autoreferenziali … per ingannevoli farmaci “me too” … [il nostro gruppo del E-Zee-Me-Too Protocol] può garantirvi un risultato positivo [purché il vostro farmaco non sia troppo peggiore rispet- to ad un sorso di tripla acqua distillata].’ Con grande stupore, gli autori ricevettero alcune domande apparentemente serie sul meraviglioso portafoglio della HARLOT SpA. Sackett DL, Oxman AD. HARLOT plc: an amalgamation of the world’s two oldest professions. British Medical Journal 2003; 327: 1442-5 questo proposito uno studio nel quale ad alcuni specialisti nella cura del cancro dei polmoni fu chiesto di mettersi al posto dei pazienti e di considerare se avrebbero acconsentito a partecipare ad uno dei sei studi su tale malattia per cui potevano essere eleggibili come pazien- ti. Tra il 36 e l’89 per cento di loro disse che non avrebbe partecipa- to – presumibilmente perché non pensava che le domande, cui si voleva rispondere nelle ricerche fossero abbastanza importanti.95 In modo simile, negli studi clinici sulla psoriasi – una malattia della pelle cronica e disabilitante, che colpisce circa 2 persone su cento in Gran Bretagna – gli interessi dei pazienti sono stati scarsa- mente rappresentati. La Psoriasis Association notò che, in molti studi, i ricercatori, per valutare gli effetti dei diversi trattamenti, continuavano ad usare un sistema di valutazione ampiamente scre- ditato. Uno dei difetti di questo sistema era di concentrarsi su misu- re quali l’area totale della pelle malata e lo spessore delle lesioni, mentre i pazienti, non sorprendentemente, erano più preoccupati
  • 112. 90 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA dalle lesioni sulla faccia, sul palmo delle mani, sulle piante dei piedi e sui genitali.96 Ma ci sono segni di un miglioramento di questo stato di cose a distanza di quasi vent’anni dall’editoriale del British Medical Journal che aveva denunciato la cattiva qualità di molta ricerca biomedica? Fortunatamente sì. Stimolati dai tanti studi sui limiti qualitativi di molti studi clinici, sono stati sviluppati e applicati criteri per la descrizione degli stessi (vedi Capitolo 3). Questi criteri rendono esplicito, ad esempio, l’esatto numero di pazienti invitati a partecipa- re allo studio, il numero di quelli che hanno declinato l’invito e i risultati, rispetto ai vari gruppi di trattamento, così come definiti all’inizio dello studio. Ma c’è ancora molta strada da fare per miglio- rare: (a) scegliendo con attenzione le domande a cui dare una rispo- sta con la ricerca; (b) definendo il modo in cui le domande sono for- mulate per assicurare che vengano effettivamente valutati quegli esiti clinici ritenuti importanti dai malati e (c) che le informazioni siano rese disponibili ai pazienti. Solo molto tardi alcuni ricercatori hanno cominciato a capire l’im- portanza di lavorare con i malati, i familiari e il pubblico, per valoriz- zare la loro esperienza sulla malattia e sull’assistenza. Gli esperti in scienze sociali sono sempre più spesso parte integrante dei gruppi di ricerca che valutano i trattamenti. Sono stati così sviluppati metodi formali per esplorare questi aspetti delle malattie e sono state intro- dotte nuove forme di integrazione di queste prove con gli approcci I PAZIENTI CON PSORIASI SONO MAL SERVITI DALLA RICERCA Pochi studi hanno confrontato diverse opzioni o hanno guardato ai risultati del trattamento di lungo termine. La durata degli studi è, in modo non convincente, troppo breve per una malattia cronica che potenzialmente dura tutta la vita. Quello che ci sembra di sapere in modo attendibile è soltanto che le nostre cure sono un po’ meglio del non far nulla. È chiaro che i ricercatori hanno totalmente ignorato l’esperienza dei pazienti, i loro punti di vista, le preferenze o i motivi di soddisfa- zione. Jobling R. Therapeutic research into psoriasis: patients’ perspectives, priorities and interests. In: Rawlins M, Littlejohns P, a cura di. Delivering quality in the NHS 2005 Abingdon: Radcliffe Publishing Ltd, pp. 53-56
  • 113. Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti 91 tradizionali. Se i pazienti sono invitati a partecipare ad uno studio cli- nico dove le domande sono state definite in collaborazione con i ricercatori essi saranno più disponibili a sacrificarsi al fine di contri- buire alla riduzione dell’incertezza.97, 98, 99, 100, 101, 102 Per esplorare la fattibilità e accettabilità di un nuovo studio potrebbe essere utile con- durre studi preliminari con gruppi di pazienti. Queste ricerche potreb- bero far luce sui problemi dei disegni di studio, aiutare a definire quali sono gli esiti più rilevanti e perfino suggerire che l’idea non debba avere un seguito. Questo potrebbe far risparmiare molto tempo, denaro e delusioni. Alcune interessanti lezioni ci sono date dal lavoro di preparazione condotto per uno studio clinico che coinvolge- va uomini affetti da cancro localizzato della prostata (vedi Capitolo 7). Gli studi preliminari avevano rivelato come il disegno della ricer- ca potesse essere migliorato attraverso un’attenta considerazione dei termini utilizzati dai clinici per descrivere lo scopo dello studio e le opzioni di trattamento. Quando il cancro non ha ancora superato la stessa ghiandola prostatica, l’incertezza principale riguarda se sia preferibile monitorare in modo regolare il paziente o suggerirgli la terapia chirurgica o la radioterapia. Sappiamo che molti uomini anziani deceduti a causa di malattie cardiache, ictus o altre cause ave- vano tumori localizzati della prostata che non avevano mai creato loro problemi di salute. Già nella fase preparatoria di questi studi è emerso che i clinici avevano difficoltà a discutere le incertezze sul- l’utilità del trattamento in assenza di sintomi. In modo simile, dallo studio è emerso che essi avevano anche difficoltà nel descrivere le opzioni di trattamento in modo imparziale. I clinici usano inconsapevolmente parole che vengono mal inter- pretate dai pazienti. Per esempio, quando descrivono il braccio dello studio sottoposto solo a monitoraggio spesso usano la frase ‘vigile attesa’. I pazienti tendono a interpretare questo come un ‘non tratta- mento’, come se i medici ‘guardassero mentre io muoio’. Di conse- guenza, i ricercatori sostituirono questo termine con ‘monitoraggio attivo’, con una descrizione accurata del tipo di assistenza che loro offrono al paziente in questo contesto. Inoltre, per paura che questo braccio dello studio potesse risultare impopolare, i clinici ne parlava- no per ultimo. E, involontariamente, creavano disagio suggerendo che c’erano buone probabilità di sopravvivenza oltre i 10 anni. Quello che dicevano era: ‘la maggior parte degli uomini con il cancro alla prostata sarà vivo 10 anni più tardi’. Ma questo veniva interpre-
  • 114. 92 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA tato, in modo più negativo, come ‘tra 10 anni non pochi non ci saran- no più’ piuttosto che ‘la maggior parte degli uomini con cancro alla prostata vive a lungo anche con la malattia’. Quindi è importante saggiare preliminarmente come certi messag- gi vengono percepiti dai pazienti invece di pensare che i ricercatori sappiano già tutto. Questo porta a disegnare modalità di confronto delle opzioni di trattamento accettabili e attuabili. Uno studio accet- tabile permette di reclutare i pazienti in un minor tempo, identifican- do gli effetti negativi e positivi del trattamento in modo più rapido per i malati e per coloro che li curano. LA RICERCA PER LE GIUSTE RAGIONI Dato che a far la parte del leone nel finanziamento della ricerca bio- medica sono gli studi di laboratorio e sugli animali, attualmente c’è crisi nel finanziamento delle ricerche che sono invece mirate a produr- re informazioni più immediatamente applicabili ai pazienti.103, 104 Di conseguenza, l’industria farmaceutica vuole avere un ruolo nella decisione su quali domande sugli effetti dei trattamenti dovran- no essere studiate. Gli accademici, e le istituzioni in cui lavorano, troppo spesso prendono parte a studi che rispondono a domande lega- te all’agenda dell’industria, visto che questa può garantire molto denaro per ogni paziente reclutato. Talvolta questi ‘generosi paga- menti’ sono usati per sostenere i fondi istituzionali, ma non infre- quentemente ne beneficiano finanziariamente i singoli medici. Alcuni degli altri sistemi premianti all’interno delle università por- tano alla conduzione di ricerche fatte per motivi sbagliati. Così come notò l’ex editor del New England Journal of Medicine: ‘studi clinici di ampie dimensioni, condotti da più istituzioni, forniscono meno opportunità per essere autori della ricerca rispetto a quelli individua- li o di piccoli gruppi’.105 La paternità dei risultati delle ricerche ha un alto valore nelle uni- versità essendo una condizione per la carriera accademica, una misu- ra del successo istituzionale e un motivo di continuità nei finanzia- menti. Come risultato, i ricercatori e le istituzioni in cui lavorano guardano ai progetti di ricerca multicentrici e collaborativi, spesso pubblicati con il nome del gruppo, come ad una minaccia al ricono- scimento e alla gloria individuale. Così, si continuano a fare studi
  • 115. Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti 93 gestiti da singoli ricercatori e piccoli gruppi; tali ricerche non sono sufficientemente ampie per dare risultati attendibili che risultino importanti per i pazienti. In Gran Bretagna il sistema di finanziamento dell’università da parte del governo incoraggia proprio questa tendenza, rinforzando così un sistema che serve gli interessi accademici piuttosto che quel- li dei pazienti. Un esperto neurologo, che ha fatto molto per aiutare i pazienti colpiti da ictus, ha tristemente sottolineato: ‘attribuire la paternità di una ricerca ai gruppi collaborativi, fatto necessario per riconoscere il contributo delle molte persone coinvolte, impedisce di rendere noto il reale contributo del singolo alla ideazione, disegno e conduzione dello studio clinico randomizzato. Un mio superiore all’università mi punì per non essere stato citato abbastanza; ma da competitivo manager-scienziato della ricerca di base qual era, egli non aveva idea del mio ruolo nello studio, perso come ero nell’insie- me del gruppo di lavoro’.106 La consapevolezza di queste distorsioni nell’agenda della ricerca ci pone interrogativi inquietanti non solo sulla ricerca che è stata fatta e pubblicata, ma anche su quella che non è mai stata condotta. Il ‘costo-opportunità’ di questa tendenza è chiaro: molte domande sul- l’effetto dei trattamenti tesi a migliorare la salute non trovano rispo- sta solo perché esse non presentano interessi né per l’industria, né per le università. Ad esempio, per circa un secolo, è stato controverso il modo in cui controllare le convulsioni nelle donne colpite da eclampsia – una complicazione potenzialmente mortale della gravidanza (vedi Capitolo 5) di cui si stima muoiano circa 50.000 donne ogni anno. Non ci sono interessi commerciali in gioco in questo problema, per due ragioni: (a) molte delle donne che muoiono per questa malattia vivono in Paesi in via di sviluppo, e (b) una delle terapie – il magne- sio solfato, già utilizzato nei sali di Epsom – non è appetibile per fini commerciali. Ci sono pochi interessi del mondo accademico in que- sta controversia, perché potrebbe essere risolta in modo soddisfacen- te soltanto con uno studio ampio, internazionale e multicentrico – e questo vorrebbe dire che l’identità individuale di ogni ricercatore e istituzione non sarebbe più in primo piano nella appropriata suddivi- sione dei meriti per il lavoro svolto. Uno studio che metteva a confronto diversi farmaci per il controllo delle convulsioni nella pre-eclampsia fu alla fine finanziato nel 1990
  • 116. 94 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA con fondi pubblici dalla UK Overseas Development Administration e dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Questo studio mostrò che il farmaco meno caro era sostanzialmente il più efficace rispetto a tutte le alternative più costose.107 La relazione finale dello studio contiene un commento eloquente: ‘Dal primo suggerimento (nel 1906) per l’utilizzo del magnesio solfato per le donne affette da eclampsia, all’introduzione del diazepam (nel 1968), è possibile che 33 milioni di donne abbiano avuto un episodio di convulsione dovuto all’eclampsia e che 3 milioni di loro siano morte. Fino al 1987, quando è stata intro- dotta la fenitoina, è possibile che altre 9 milioni di donne abbiano avuto un episodio convulsivo e che un milione di esse siano morte.’ Chiaramente il prezzo pagato per una distorta definizione delle priori- tà della ricerca può davvero essere molto elevato. Alcune volte le revisioni sistematiche degli studi esistenti aiutano a mettere in luce quanto poco si sa sugli effetti dei trattamenti già ampiamente utilizzati e che presentano un modesto interesse com- merciale o accademico. Una revisione di questo tipo ha analizzato se gli steroidi, somministrati a persone affette da danno cerebrale in seguito ad un trauma fisico, aumentavano o diminuivano la speranza di sopravvivenza dei malati. IL MAGNESIO PER LA PREVENZIONE E IL TRATTAMENTO DELL’ECLAMPSIA Sette anni fa, uno studio che a detta di un commentatore è il più importante stu- dio randomizzato del 20° secolo condotto in campo ostetrico mostrò che, dei tre approcci comunemente utilizzati per controllare le convulsioni nell’eclampsia, il magnesio solfato era il più efficace. Il Collaborative Eclampsia Trial costituì una pietra miliare sotto molti punti di vista: la partecipazione allo studio di 1.687 donne e dei loro familiari in 27 ospedali in 9 nazioni in via di sviluppo fu mag- giore della partecipazione a tutti i piccoli studi, malamente controllati, condotti nei precedenti 50 anni in quei paesi in cui si verifica soltanto l’1% di tutti i casi di eclampsia a livello mondiale. La pubblicazione finale dello studio ebbe effetti molto importanti nella pratica clinica in Gran Bretagna, uno dei paesi in cui il magnesio solfato non è mai stato molto utilizzato dagli ostetrici. Lo studio è un buon esempio di come la collaborazione tra paesi in via di sviluppo e paesi svi- luppati possa portare ad un miglioramento della pratica clinica. Sheth S, Chalmers I. Magnesium for preventing and treating eclampsia: time for international action. Lancet 2002; 359: 1872-3
  • 117. Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti 95 La revisione, una volta terminata, non fece chiarezza sulla direzio- ne dei risultati.108 Non aver risolto questa incertezza durante le deci- ne di anni in cui il trattamento è stato usato in centinaia di migliaia di persone ha avuto dei notevoli costi umani. Quando finalmente fu con- dotto, il necessario studio internazionale collaborativo sugli steroidi rivelò che il trattamento aveva probabilmente ucciso migliaia di pazienti con danno cerebrale.109 Questo studio incontrò forti resisten- ze da parte di alcuni ricercatori universitari e dell’industria. Perché? Essi erano stati coinvolti in studi commerciali per valutare l’effetto di nuovi e costosi farmaci – i cosiddetti agenti neuroprotettori – con misure di esito di discutibile importanza per i pazienti e non voleva- no affrontare una competizione per i partecipanti agli studi clinici. Questo esempio illustra la cruciale importanza di affrontare domande che non interessino l’industria o le università: non farlo può far danno ai pazienti. Attualmente in Gran Bretagna il finanzia- mento per la ricerca indipendente dall’industria è inadeguato. Questo è stato riconosciuto dalla Commissione Speciale per la Salute (Select Committee on Health) della Camera dei Comuni110 e ha avuto come riflesso la creazione del Clinical Research Collaboration britannico (www.ukcrc.org), di nuove strategie nel- l’ambito del Medical Research Council,111 del NHS Research and Development Programme,112 e di alcune fondazioni a sostegno della ricerca medica. Rimane da vedere come questi nuovi progetti rispon- deranno alle domande irrisolte dei pazienti e dei medici sugli effetti del trattamento. In Italia, la promozione della ricerca indipendente rappresenta uno dei compiti e degli obiettivi strategici che sono stati attribuiti alla Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). È stato infatti istituito un fondo alimentato dal contributo pari al 5% delle spese promozionali soste- nute ogni anno dalle aziende farmaceutiche. Una quota parte di que- ste risorse deve essere destinata alla realizzazione di ricerche sul- l’uso dei farmaci ed in particolare di sperimentazioni cliniche che mettano a confronto l’efficacia e la sicurezza di medicinali differenti. Il Programma di Ricerca Indipendente sul Farmaco dell’AIFA mira a sostenere quegli studi in grado di fornire risposte utili ai medici ed ai pazienti in quelle aree nelle quali esiste ancora incertezza sul profilo beneficio/rischio degli interventi farmacologici e dove non esiste un interesse ad investire da parte dell’industria farmaceutica.
  • 118. 96 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Nei primi due anni di attività (2005 e 2006), i bandi dell’AIFA hanno permesso di avviare studi nel campo delle malattie rare, del confron- to diretto tra specifici trattamenti in patologie comuni (oncologia, car- diovascolare, ecc.) e in aree terapeutiche tradizionalmente trascura- te dalla ricerca commerciale (area pediatrica e neonatologica, pazienti anziani, pazienti non classificabili nelle comuni patologie in area di salute mentale, neurologia, ecc.). L’AIFA è l’unica, tra le agenzie regolatorie europee, che si assume la responsabilità non solo di regolare e controllare il mercato del far- maco a tutela dei cittadini, ma anche di contribuire a chiarire l’incer- tezza che esiste in molte aree grigie della medicina. Il Programma di Ricerca Indipendente sul Farmaco adotta un sistema di valutazione molto rigoroso e in linea con i meccanismi di valutazione scientifica internazionale e prevede anche – nell’immi- nenza dell’emanazione dei bandi annuali di ricerca – una fase di con- sultazione della comunità scientifica e del SSN. Tutti coloro che vogliano farlo possono contribuire con idee e proposte utilizzando un apposito spazio aperto al pubblico sul sito AIFA. Si tratta di un primo importante passo verso una maggiore trasparenza nella definizione della ricerca che rappresenta un tema ancora molto trascurato nel nostro Paese (nota del Curatore dell’edizione italiana). Un’altra ragione per affrontare questi problemi irrisolti è quella di assicurarsi che non vengano sprecate le preziose risorse disponibili per l’assistenza sanitaria. Ad esempio, l’albumina umana in soluzio- ne, somministrata per via endovenosa, fu introdotta nel 1940 come terapia d’urgenza negli ustionati e in altri pazienti critici. La teoria suggeriva che l’albumina avrebbe dovuto ridurre il rischio di morte. Sorprendentemente, essa non venne sottoposta ad indagini accurate fino agli anni ’90. A quel punto, una revisione sistematica degli studi controllati avrebbe potuto dimostrare che non c’erano prove che l’al- bumina umana in soluzione riducesse il rischio di morte. Quello che la revisione mostrò, nella realtà, era che se l’albumina aveva qualche effetto sul rischio di morte, questo era di aumentarlo.113 I risultati di questa revisione indussero i medici in Australia e in Nuova Zelanda ad associarsi per condurre il primo studio accurato e sufficientemente ampio fra la soluzione di albumina umana e la solu- zione salina (acqua salata), un’alternativa usata in rianimazione.114 Questo studio – che avrebbe dovuto essere condotto almeno mezzo
  • 119. Meno ricerca, metodologie rigorose e quesiti rilevanti 97 secolo prima – potrebbe non trovare prove che l’albumina sia migliore di una semplice soluzione fisiologica. Poiché l’albumina è venti volte più costosa rispetto alla soluzione fisiologica, una quan- tità enorme di risorse per l’assistenza sanitaria in tutto il mondo potrebbe essere stata sprecata negli ultimi 50 anni. MESSAGGI CHIAVE • Molta ricerca è scadente e viene condotta per motivi sbagliati • L’industria e le università hanno importanti responsabilità nella distorsione dell’agenda della ricerca • Spesso non vengono affrontate domande di grande importanza per i pazienti.
  • 121. 7• MIGLIORARE QUALITÀ E RILEVANZA DELLE SPERIMENTAZIONI CLINICHE È INTERESSE DI TUTTI Nel capitolo precedente abbiamo visto quanto tempo, fatica e denaro possono andare sprecati a causa della ricerca inutile o di cat- tiva qualità sugli effetti dei trattamenti – ricerca che non risponde, e mai lo farà, a domande di interesse per i pazienti. Abbiamo anche evi- denziato alcuni dei problemi che possono impedire un costante pro- gresso nell’individuazione delle reali incertezze che affliggono la messa a punto di terapie sempre più efficaci. Nel Capitolo 1 abbiamo descritto come alcuni nuovi trattamenti hanno avuto inaspettati effetti dannosi, mentre gli effetti sperati di altri non si sono realizzati, mentre nel Capitolo 2 abbiamo messo in luce il fatto che molti trattamenti e test di screening usati comune- mente non sono stati adeguatamente valutati. Nel Capitolo 3 abbia- DIRADARE LA NEBBIA DELL’INCERTEZZA Solo quando le persone comprenderanno finalmente quante poche siano le cono- scenze affidabili, avranno la motivazione per essere coinvolte in modo attivo nella determinazione delle priorità dell’agenda della ricerca. Alla fine, il miglioramen- to delle cure cliniche e degli esiti giungerà dalla conduzione del giusto tipo di ricerca, ricerca che è importante nel mondo reale, come richiesto nella recente- mente costituita James Lind Alliance. Chiarire le incertezze e informarne i pazien- ti è la strategia chiave per migliorare l’assistenza sanitaria e diradare la nebbia dalla pratica della medicina. Djulbegovic B. Lifting the fog of uncertainty from the practice of medicine British Medical Journal 2004; 329: 1419-20
  • 122. 100 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA mo descritto le basi per sperimentare correttamente i trattamenti, enfatizzando l’importanza del porre attenzione a ridurre i potenzia- li errori sistematici e di tenere in considerazione il ruolo del caso. Nel Capitolo 4 abbiamo descritto alcune delle numerose incertezze che pervadono quasi ogni aspetto dell’assistenza sanitaria e nel Capitolo 5 sono state discusse le differenze chiave tra la ricerca buona, quella cattiva e quella inutile nell’ambito degli effetti dei trattamenti. Nel Capitolo 6 abbiamo rimarcato quanta della ricerca che viene condotta sia distorta da interessi commerciali e accademi- ci e manchi di affrontare argomenti che farebbero probabilmente una reale differenza per il benessere dei cittadini. Speriamo di aver- vi convinto che la miglior sperimentazione clinica nel futuro dovrebbe venire programmata attraverso collaborazioni fra ricerca- tori e malati. Cosa possono fare i pazienti per migliorare la ricerca – sia nella fase di identificazione delle domande sia in quella di realizzazio- ne vera e propria degli studi? Nel Capitolo 6 abbiamo descritto come alcuni ricercatori di Bristol, lavorando con focus group di pazienti, reumatologi, fisioterapisti e medici di medicina generale, hanno iden- LA SCELTA DEI PAZIENTI: DAVIDE E GOLIA Chi ha il potere di valutare se i quesiti della ricerca si concentrano sui più impor- tanti bisogni dei pazienti, in tutta la loro sofferenza e complessità? Perché le domande più rilevanti non vengono poste? Chi oggi decide quali siano le doman- de da affrontare? Chi lo dovrebbe fare? Chi deve definire le priorità? Sono i pazienti ad avere le migliori capacità di identificare gli argomenti di salute per loro più rilevanti e di far conoscere ciò che pensano del loro benessere, dell’assi- stenza, della qualità e della durata della vita. I pazienti rappresentano Davide e devono combattere sia contro i Golia dell’industria farmaceutica, cui servono prove per i prodotti destinati al mercato e per fare profitti, sia contro i ricercatori che sono spinti dalla curiosità, dalla necessità di assicurarsi dei finanziamenti per la ricerca, dai riconoscimenti professionali e dagli avanzamenti di carriera. Il pro- fitto, l’indagine scientifica, i soldi dei finanziamenti e le pubblicazioni delle ricer- che sono accettabili solo se lo scopo ultimo è il bene dei pazienti. I pazienti e le organizzazioni indipendenti che sostengono la ricerca di buona qualità dovrebbe- ro preparare la loro fionda, scegliere con cura la pietra, prendere bene la mira e vincere. Refractor. Patients’ choice: David and Goliath. Lancet 2001; 358: 768
  • 123. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 101 tificato le discrepanze tra la ricerca che è stata condotta nell’osteoar- trite del ginocchio e che cosa era richiesto dai malati e dalle persone che li curavano. I clinici e i pazienti erano chiaramente stanchi della ricerca sui farmaci. Piuttosto desideravano una valutazione di altri interventi: fisioterapia e chirurgia; strategie di formazione e adatta- mento.115 Lo studio di Bristol ha mostrato come una discussione faci- litata fra gruppi di pazienti e operatori sanitari possa rivelare le loro priorità e quali incertezze sugli effetti dei trattamenti siano per loro più importanti e debbano essere affrontate. Ma la voce dei pazienti e dell’opinione pubblica conta realmente nella conduzione della ricerca in sanità? Fortunatamente, il mondo della medicina che in passato era chiuso ora sta aprendo le sue porte per far entrare nuove idee e soggetti prima esclusi. Il paternalismo è in continua diminuzione. C’è un crescente sostegno all’idea del coin- volgimento dei pazienti come partner nei processi di ricerca. Si stan- no accumulando prove attraverso ricerche,116 revisioni sistematiche di studi117 e da singoli studi118 che il convolgimento dei pazienti e del pubblico può contribuire a migliorare la sperimentazione clinica. Le esperienze dei malati possono far crescere il confronto e aumentare la consapevolezza. La loro esperienza diretta può dare un prezioso con- tributo sul modo in cui le persone reagiscono alle malattie e come questo influisca sulle scelte dei trattamenti. Il ruolo del malato sta evolvendo119 per favorire lo sviluppo di metodologie diverse che permettano ai pazienti e ai cittadini di lavo- rare con gli operatori sanitari, al fine di migliorare la valutazione degli interventi sanitari. Questo riguarda potenzialmente tutte le fasi della ricerca: • la formulazione delle domande da affrontare • il disegno degli studi, inclusa la scelta degli esiti clinici che sono importanti • la gestione dei progetti • lo sviluppo di strumenti per l’informazione dei pazienti • l’analisi e interpretazione dei risultati e la loro disseminazione e implementazione. Come si è giunti a questo? Nel Capitolo 2 abbiamo mostrato, ad esempio, come gli eccessi dei trattamenti imposti in passato alle donne sofferenti di cancro della mammella portarono a mettere in discussione consolidate pratiche assistenziali ed a cambiamenti, otte-
  • 124. 102 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA CHI SCEGLIE? In termini di coinvolgimento nel prendere decisioni (‘chi sceglie’), i pazienti pre- feriscono una situazione nella quale loro contribuiscano, ma non siano lasciati come unici responsabili delle decisioni da prendere (modello condiviso). La situa- zione meno gradita si verifica quando i medici decidono da soli (modello pater- nalistico). Thornton H, Edwards A, Elwyn G. Evolving the multiple roles of ‘patients’ in health-care research: Reflections after involvement in a trial of shared decision-making. Health Expectations 2003; 6: 189-97 nuti grazie ad una nuova generazione di ricercatori clinici e alle pazienti. Medici e malate collaborarono per assicurare che le prove della ricerca rispondessero sia a rigorosi standard scientifici sia alle necessità delle donne. Quando le donne hanno messo in discussione la pratica della mastectomia radicale hanno voluto segnalare che erano preoccupate di qualcosa di più della sola eradicazione della malattia: loro chiedevano un’informazione sulla strategia impiegata per convivere con la malattia. Oggi, ci si sta allontanando dal modello dei clinici che impongono ai pazienti di subire trattamenti e partecipare passivamente a ricerche. Non è più accettabile che si misuri il ‘successo’ attraverso l’aderenza incondizionata dei malati al trattamento prescritto. Un modo miglio- re per erogare delle terapie, che i pazienti ritengono importanti e rile- vanti per la loro cura, è incoraggiare una partecipazione condivisa nell’assunzione di decisioni, nell’assumere i farmaci e nello speri- mentare gli interventi di altro tipo. I PAZIENTI HANNO BISOGNO DI INFORMAZIONI I pazienti che collaborano all’assistenza devono poter accedere a informazioni comprensibili e di buona qualità – sia nell’ambito di una relazione faccia a faccia durante una visita, sia quando debbano decidere se partecipare ad uno studio, sia quando entrino a far parte di gruppi di ricerca. Se ciò non avviene, le prospettive di un dialogo costruttivo e di un reale coinvolgimento del paziente sono scarse.
  • 125. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 103 I pazienti si lamentano sistematicamente della mancanza di infor- mazioni. Sebbene alcuni preferiscano non avere notizie dettagliate sulla loro malattia e sulle opzioni terapeutiche, e lasciano queste cose completamente nelle mani di chi li ha presi in carico, molti desidere- rebbero saperne di più. In particolare molti pazienti vorrebbero sape- re e comprendere come il trattamento al quale si stanno sottoponen- do influirà sulla loro persona. Chiarezza e trasparenza sono essenzia- li. Hanno bisogno di garanzie sul fatto che tutti sappiano quali speri- mentazioni sono in corso; che i risultati, sia positivi sia negativi, siano pubblicati; che siano disponibili revisioni sistematiche di tutti gli studi rilevanti e che siano tenute aggiornate; e che gli eventi avversi non vengano tenuti nascosti. Chiaramente i pazienti vogliono che i ricercatori sappiano tutto ciò che è già stato fatto prima di imbarcarsi in una nuova ricerca: come abbiamo sottolineato nei capi- toli iniziali, i pazienti sono stati penalizzati quando i ricercatori non si sono preoccupati di conoscere e valutare che cosa era stato fatto in precedenza. Uno dei primi esempi di sostegno e coinvolgimento diretto dei pazienti in uno studio valutativo riguarda l’introduzione del prelievo dei villi coriali negli anni ’80. Il prelievo dei villi coriali è un modo di far diagnosi di anomalie fetali nelle fasi iniziali della gravidanza, prima di quanto sia possibile fare con l’amniocentesi. Nonostante la possibilità che la nuova tecnica potesse aumentare il numero di abor- ti rispetto all’amniocentesi, si è cominciato a praticarla nelle donne ad alto rischio (1 ogni 4) di avere un feto con una grave malattia del sangue ereditaria. Per queste donne e le loro famiglie, la volontà di evitare di mettere al mondo un bambino che avrebbe sofferto e sareb- be morto precocemente era più forte del rischio potenziale che la nuova tecnica potesse provocare l’aborto di un feto normale. Tuttavia, il bilancio fra benefici e rischi era molto diverso per altre donne che avevano, ad esempio, probabilità inferiori di avere un feto malato – comprese ad esempio fra 1 ogni 50 e 1 ogni 200. Per loro era importante sapere se il test più invasivo – il prelievo dei villi coriali – aumentasse davvero il rischio di aborto o di qualche altro problema rispetto all’amniocentesi. Di conseguenza, il Medical Research Council avviò uno studio internazionale per affrontare questi quesiti. Questa iniziativa fu ampiamente supportata dalla stampa. In Gran Bretagna, ad esempio, molti giornalisti plaudirono al disegno della ricerca ed enfatizzarono l’importanza di una valutazione accurata
  • 126. 104 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA UN VIAGGIO NELL’INCERTEZZA Ad un medico ricercatore, fu detto che alcuni dei risultati degli esami del sangue, cui si era sottoposto in seguito ad un episodio di mal di schiena, non erano perfet- tamente chiari e che c’era qualcosa di cui preoccuparsi. Negli anni successivi, divenne chiara la diagnosi di un tipo di tumore del sangue (mieloma). Ecco le sue riflessioni alla luce delle incertezze di fronte alle quali si è trovato: ‘Cosa ho imparato? Anzitutto che nelle vesti di paziente ho avuto conferma delle idee per le quali ho combattuto durante la mia carriera professionale. I risultati della ricerca dovrebbero essere facilmente accessibili alle perso- ne che ne hanno bisogno per decidere della loro salute. Il ritardo nella valu- tazione congiunta dei quattro studi randomizzati che dovevano valutare l’utilità del doppio trapianto autologo di midollo (una terapia a cui ho deci- so di sottopormi) mi sembra un esempio calzante. Perché sono stato costret- to a prendere la mia decisione sapendo che quest’informazione c’era da qualche parte, ma non era disponibile? Il ritardo era dovuto al fatto che i risultati erano meno interessanti del previsto? O perché nel campo, in con- tinua evoluzione, della ricerca sul mieloma ci sono nuove teorie (o farma- ci) cui interessarsi? Per quanto ancora potremo tollerare questo comporta- mento dei ricercatori, che volano sul fiore successivo ben prima di aver finito di ricavare tutto ciò che è disponibile in quello precedente? Sfortunatamente, questo è possibile in un mondo dove la ricerca clinica è ormai dominata da interessi commerciali. Come paziente, ti meravigli di come i (noi) ricercatori dimentichiamo in fretta il principio secondo cui la priorità dovrebbe essere la collaborazione per formulare ipotesi migliori e non la competizione.’ Liberati A. An unfinished trip through uncertainties. British Medical Journal 2004; 328: 531 prima di decidere se nuove tecniche mediche dovessero essere adot- tate più diffusamente. Un esempio di consiglio irresponsabile venne peraltro offerto da un clinico in una lettera al quotidiano The Guardian, secondo cui le donne avrebbero dovuto immediatamente chiedere la nuova, e inade- guatamente sperimentata, procedura. Questo provocò una severa risposta della coordinatrice della Maternity Alliance, un’organizza- zione che coordina diverse associazioni di donne e di pazienti. Essa difese con forza la necessità che lo studio venisse condotto e che vi fosse un’ampia partecipazione.
  • 127. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 105 SUPPORTARE LA NECESSITÀ DI UNO STUDIO Le donne hanno da tempo compreso che l’efficacia e la sicurezza di nuove tecni- che, come l’ecografia, dovrebbero essere valutate prima di essere offerte nella pratica di routine alle donne incinte. Bisogna complimentarsi con il Medical Research Council per aver dato vita ad uno studio controllato e randomizzato per valutare i vantaggi e gli svantaggi della tecnica in termini di perdita fetale, effet- ti collaterali per la mamma ed effetti a breve e lungo termine per il feto. Maternity Alliance Co-ordinator, citato in Chalmers I. Minimising harm and maximising benefit during innovation in healthcare: controlled or uncontrolled experimentation? Birth 1986; 13: 155-64 In quella che, probabilmente per quel periodo, fu una spinta senza precedenti alla promozione di uno studio randomizzato, un gruppo di pressione laico, l’Association for Improvement in the Maternity Services, coordinò un incontro tra organizzazioni di volontari e di gruppi di pazienti per incoraggiarli a fornire un pubblico supporto alle proposte del Medical Research Council. Alcuni rappresentanti di questi gruppi prepararono un opuscolo informativo per i potenziali partecipanti allo studio, che esplicitava come sette organizzazioni laiche avessero formalmente e pubblicamente appoggiato la ricerca. È importante sottolineare che questi gruppi concordarono che la nuova tecnica venisse offerta solo a donne partecipanti allo studio, a meno che non avessero già concepito un bambino affetto da danni genetici.120 I primi gruppi di donne attive nel campo del tumore della mammel- la si resero conto che avrebbero dovuto cambiare la situazione esi- stente e che per farlo avevano bisogno di informazioni accurate. Per prima cosa, cominciarono a formare se stesse, così da essere più effi- caci. Poi cominciarono a educare gli altri. Ad esempio negli anni ’70, Rose Kushner, una scrittrice statunitense e paziente affetta da cancro alla mammella, sfidò la tradizionale relazione autoritaria medico/paziente e la necessità della chirurgia radicale.121 Scrisse un libro basato sulla sua minuziosa revisione della letteratura sugli effet- ti della mastectomia radicale. Alla fine del decennio, la sua influenza e reputazione erano tali che venne chiamata a collaborare con il National Cancer Institute degli Stati Uniti alla valutazione delle pro- poste di nuove ricerche.122
  • 128. 106 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI UNO STUDIO DI AMPIE DIMENSIONI PER CONFRONTARE I DUE TEST? È importante poter fornire, a persone come te, accurate informazioni sui rischi e benefici di ogni test e per ottenere questo obiettivo, abbiamo bisogno di confron- tare i due test in modo che i risultati non siano influenzati da fattori diversi. L’unico modo per essere sicuri di raggiungere il risultato, è di chiedere a metà di voi pazienti di ricevere un test e all’altra metà l’altro, lasciando al caso la decisio- ne di chi sarà sottoposto a quale test. ‘A prima vista, molte persone trovano un po’ strana l’idea di lasciare una decisione così importante al caso: ma in realtà è il modo più scientifico, per- ché esclude la possibilità di errori sistematici che potrebbero derivare da altri tipi di giudizio. La verità è che, a questo punto, nessuno di noi sa quale sia il test migliore e ciascuno di essi presenta vantaggi e svantaggi. Gli argo- menti a favore e contro ciascun test sembrano bilanciati equamente. Se tu, e altri come te, siete d’accordo ad aiutarci, avremo presto molte più infor- mazioni su questi test. Molti ospedali sono coinvolti in questo studio in modo da individuare il più rapidamente possibile quale sia il test migliore.’ Dall’opuscolo informativo per le pazienti, sviluppato dalle organizzazioni delle pazienti per lo studio promosso dal MRC, che confrontava l’amniocentesi con il prelievo dei villi coriali In Gran Bretagna, l’infelice esperienza di diagnosi di cancro alla mammella indusse Betty Westgate negli anni ’70 a dar vita alla Mastectomy Association. Questa fu l’antesignana della Breast Cancer Care, che è ora una fiorente organizzazione con ramificazio- ni in Inghilterra, Scozia e Galles.123, 124 La Breast Cancer Care aiuta migliaia di donne a trovare informazioni e sostegno. Un’altra pazien- te affetta da cancro, Vicky Clement-Jones, ha creato CancerBACUP, una fondazione nazionale che mette a disposizione non soltanto atti- vità di counselling e supporto psicosociale alle pazienti, ma anche informazioni di buona qualità sui trattamenti e sulla ricerca. Ad oggi, CancerBACUP con le proprie infermiere specializzate offre questo servizio a circa 50.000 persone ogni anno. Le persone affette da HIV/AIDS negli Stati Uniti negli ultimi anni ’80 hanno costituito un esempio di gruppo eccezionalmente ben informato e organizzato. Si tratta di gruppi politicamente pronti a difendere i loro interessi contro il sistema, che si sono dimostrati
  • 129. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 107 capaci di aprire la strada alla partecipazione dei pazienti nella scelta e disegno degli studi. Questo coinvolgimento è stato fondamentale per incoraggiare la partecipazione agli studi e per disegnare le ricer- che in modo flessibile e per arrivare a proporre diverse opzioni di trattamento. Questo esempio è stato seguito in Gran Bretagna, nei primi anni ’90, quando un gruppo di pazienti affetti da AIDS è stato coinvolto in studi clinici al Chelsea and Westminster Hospital di Londra: i pazienti hanno attivamente collaborato al disegno del pro- tocollo dello studio.125 AIUTARE A INFLUENZARE LA FUTURA RICERCA È essenziale che la ricerca sul cancro tenga conto dei bisogni e degli interessi delle persone che cerca di aiutare. Gli specialisti sono normalmente coscienti del divario che esiste relativamente alle conoscenze disponibili su diagnosi e terapia. I pazienti, le loro famiglie e amici sono tuttavia in grado di identificare altri pro- blemi assistenziali che hanno bisogno di ulteriore ricerca. CancerBACUP. Understanding cancer research trials (clinical trials). Londra: CancerBACUP 2003 I “NON ADDETTI AI LAVORI” HANNO CONTRIBUITO A RIPENSARE L’AIDS La battaglia per la credibilità nella ricerca sull’AIDS si è combattuta su più fron- ti ed ha coinvolto un numero inusualmente ampio di “attori”. E gli interventi di non addetti ai lavori nell’affermazione e valutazione dei risultati scientifici ha aiu- tato a dare sostanza a cosa si credeva di sapere dell’AIDS – se non altro perché ha fatto riflettere molto su cosa volesse dire essere “un esperto” e un “non addet- to ai lavori”. In ogni momento c’è in gioco la credibilità di specifiche fonti di conoscenza o dei suoi portavoce. Ma a un livello più profondo, sono in gioco i meccanismi per la valutazione della credibilità: come sono valutati i risultati scientifici e chi prende le decisioni? [Come questo studio mostra,] le discussioni all’interno del mondo scientifico sono, allo stesso tempo, discussioni sulla scien- za e sul come dovrebbe essere fatta o chi dovrebbe farla. Epstein S. Impure science: AIDS, activism and the politics of knowledge. Londra: University of California Press, 1996
  • 130. 108 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Gli attivisti dell’AIDS hanno dato una scossa positiva ai ricercato- ri: ciò che alcuni di essi avevano visto come una rovina, causata da gruppi di pazienti organizzati, è stata in realtà una sfida legittima all’interpretazione dell’incertezza che veniva data, unilateralmente, solo da chi conduceva gli studi. Fino ad allora l’approccio dei ricer- catori aveva trascurato esiti importanti per i pazienti. D’altra parte, i malati hanno capito i pericoli che giudizi affrettati sugli effetti di nuovi farmaci, con le conseguenti richieste di autorizzazione di nuovi medicinali ‘promettenti’ per l’AIDS, possono determinare in assenza di un’attenta valutazione. I ricercatori hanno inizialmente obiettato che l’autorizzazione all’uso ‘compassionevole’ di nuovi farmaci ha semplicemente prolungato l’agonia dell’incertezza per i pazienti attuali e futuri. I malati dal canto loro ribattono che questo è invece servito ad accelerare la comprensione, sia dei pazienti sia dei ricerca- tori, della necessità di valutazioni controllate, non affrettate, fatte all’interno di studi disegnati con i pazienti, tenendo in considerazio- ne le necessità di entrambe le parti.126 Negli anni ’90, uno studio sull’AIDS fornì un esempio molto chia- ro dell’importanza del coinvolgimento dei pazienti. A quell’epoca era stata da poco introdotta la zidovudina per il trattamento dell’AIDS. Nei pazienti con malattia avanzata c’erano buone prove di un effetto benefico. L’ovvia domanda successiva era se l’uso della zidovudina, nelle prime fasi dell’infezione, potesse ritardare la progressione della malattia e di conseguenza migliorare la sopravvivenza. Furono così intrapresi degli studi, sia negli Stati Uniti sia in Europa, per sperimen- tare questa possibilità. Lo studio americano venne interrotto precoce- mente, quando fu riscontrato un possibile ma ancora incerto, effetto positivo. Con la partecipazione attiva ed il consenso delle rappresen- tanze dei pazienti, e nonostante i risultati americani, lo studio euro- peo continuò fino a raggiungere una conclusione chiara. Il risultato fu molto diverso: la zidovudina usata nelle fasi precoci dell’infezione non sembrava offrire alcun vantaggio. In questo caso l’unico effetto chiaro del farmaco era rappresentato dai suoi inaspettati effetti colla- terali.127 Purtroppo, le lezioni tratte dall’esperienza nel campo del HIV/AIDS non sono state trasferite con lo stesso impatto in nessun altra area con simili problematiche. Le rare malattie causate da prioni – come la ver- sione umana della ‘malattia della mucca pazza’ – tendono a colpire persone giovani, per cui sono spesso rapidamente fatali. I disperati
  • 131. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 109 RICERCATORI A FAVORE DELLA PARTECIPAZIONE DEI PAZIENTI Noi incoraggiamo i pazienti e le loro organizzazioni a partecipare alla pianifica- zione degli studi clinici. Questa partecipazione è probabilmente in grado di assi- curare un maggior accordo rispetto agli obiettivi e al disegno dello studio e di ren- dere consapevoli le persone affette da AIDS dei vantaggi di partecipare agli studi. Byar DP, Schoenfeld DA, Green SB, et al. Design considerations for AIDS trials. New England Journal of Medicine 1990; 323: 1343-8 tentativi dei parenti di accedere a farmaci che potrebbero aiutare i pazienti affetti da queste malattie rischiano in realtà di ritardare l’identificazione di terapie più vantaggiose. Il padre di un giovane con la malattia da prioni aveva appreso attraverso internet che un far- maco, mai usato prima negli esseri umani per curare queste malattie, aveva mostrato alcuni effetti positivi in esperimenti su roditori in Giappone. Dal momento che il farmaco non era approvato per l’uso nella malattia umana da prioni (deve essere somministrato diretta- mente all’interno del cervello e può causarne il sanguinamento), il padre si presentò disperato alla Alta Corte di Giustizia per chiedere che fosse reso disponibile per il figlio. Il giudice concluse che, seb- bene l’uso del trattamento ‘non potesse essere ricondotto ad un pro- getto di ricerca, ci sarebbe stata l’opportunità di imparare, per la prima volta, i possibili effetti del PPS (pentosano polisolfato) [il far- maco non autorizzato] sui pazienti con vCJD [in pazienti con la variante Creutzfeldt Jakob, una delle malattie da prioni]’. Le parole del giudice rivelavano una preoccupante incapacità di comprensione; non si rese infatti conto che un esperimento non controllato avrebbe probabilmente ritardato la scoperta di terapie che avrebbero potuto essere di aiuto nella malattia da prioni.128 Il magistrato avrebbe potu- to pronunciare il suo giudizio condizionandolo alla richiesta di attiva- zione di un rigoroso protocollo di valutazione dell’andamento della terapia, dei progressi del paziente e di quelli di altri, che in seguito, si presentarono all’Alta Corte per ottenere una simile ordinanza. Se avesse seguito questa strada, ora non saremmo ancora così ignoranti sui possibili effetti di una cura non valutata. Ancor più di recente, una paziente, affetta da cancro della mammel- la in stadio iniziale, sfidò la decisione del Servizio Sanitario Nazionale
  • 132. 110 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA inglese (NHS) di non garantirle il nuovo farmaco Herceptin (trastuzu- mab). Il Ministro della Salute intervenne e l’NHS dovette cedere. L’Herceptin sembra dare benefici in alcune pazienti con malattia avanzata, ma sembra anche causare insufficienza cardiaca. Non è stato ancora sufficientemente sperimentato nelle fasi iniziali della malattia e, alla fine, si potrebbe dimostrare che fa più male che bene. È troppo presto per dire qualcosa di definitivo.129 In Italia, la registrazione di Herceptin per l’uso sia nella fase avan- zata sia come terapia adiuvante del tumore della mammella è stata salutata con grande entusiasmo dalla comunità oncologica; come accaduto in altri Paesi, sono stati enfatizzati soprattutto i benefici senza tener conto del tempo di osservazione ancora limitato e della possibilità che il rischio di cardiotossicità possa nel tempo mettere in discussione i vantaggi precocemente riscontrati. Anche in questo caso, all’interno del bando AIFA per la ricerca indipendente (vedi pag. 95) sono stati proposti e finanziati studi che hanno l’obiettivo di verifi- care se trattamenti con dosaggio e durata inferiore sono in grado di mantenere lo stesso beneficio riducendo i rischi per la salute delle pazienti sia con malattia avanzata sia in fase precoce e non ancora metastatica. Anche in questo caso, è difficile pensare l’industria sarebbe stata interessata a finanziare studi i cui risultati potrebbero veder sensibil- mente ridotto l’utile derivante dalla vendita del farmaco (nota del Curatore dell’edizione italiana). METTERE A REPENTAGLIO LA POSSIBILITÀ DI CONDURRE VALUTAZIONI ACCURATE DEI TRATTAMENTI Coinvolgere i pazienti nella ricerca non è certamente una panacea. Da uno studio appositamente condotto per meglio conoscere questa problematica sono emerse esperienze molto positive derivanti dal coinvolgimento dei pazienti negli studi clinici. Tuttavia sono stati messi in luce anche alcuni problemi.130 Molti di questi sembravano nascere dalla comprensibile scarsa dimestichezza dei pazienti su come la ricerca sia condotta e finanziata. Uno degli scopi che volevamo raggiungere scrivendo questo libro è aumentare la conoscenza dei principi generali della sperimentazione
  • 133. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 111 dei trattamenti e delle modalità con cui si ottengono prove attendibili sui loro effetti. Speriamo, in questo modo, di poter aiutare i pazienti che desiderano contribuire a migliorare la qualità delle prove. Come abbiamo sottolineato nel Capitolo 3, è di fondamentale importanza dare ai pazienti la consapevolezza di come gli errori sistematici e l’ef- fetto del caso possano essere fuorvianti. A volte i pazienti possono compromettere la qualità delle speri- mentazioni, non avendo compreso e non tenendo in considerazione i principi metodologici generali che devono guidare la conduzione della ricerca. Come il padre del ragazzo con la vCJD, circostanze disperate provocano talvolta sforzi estremi per accedere a cure non sperimentate in modo adeguato, causando più danni che benefici anche a pazienti che stanno morendo. Abbiamo già fatto riferimento al modo in cui i pazienti e i loro rappresentanti fecero pressioni per l’uso ‘compassionevole’ di nuovi ‘promettenti’ farmaci per l’AIDS e alle conseguenze che ebbe: un ritardo nell’identificazione di terapie efficaci capaci di modificare esiti clinici rilevanti per i pazienti. E non è l’unico esempio di questo genere. Nella metà degli anni ’90, gli interferoni erano stati introdotti nella cura dei pazienti affetti da forme recidivanti-remittenti di sclerosi multipla, sulla base di prove di efficacia molto deboli. Nel 2001, alcuni ricercatori indipen- denti hanno condotto una revisione sistematica delle prove di effica- cia derivanti dagli studi clinici controllati su questi farmaci,131 ciascu- no dei quali era stato organizzato e analizzato dalle industrie produt- trici. I risultati di questa revisione suggerirono che, benché gli inter- feroni riducessero un poco la frequenza delle ricadute, non c’erano prove che incidessero sulla progressione della disabilità, così come sulla necessità di adottare dispositivi di deambulazione o la sedia a rotelle. Poiché il costo annuale del trattamento di ciascun paziente con interferone è di più di € 15.000,00, il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) – l’organizzazione che valuta il rap- porto costo-efficacia dei trattamenti per il National Health Service inglese – concluse che l’uso di questi farmaci, e di un altro chiamato glatiramer, non avrebbe rappresentato un uso responsabile delle risor- se limitate disponibili per il servizio pubblico. Molti pazienti con questa malattia disabilitante, e specialmente le organizzazioni che agiscono per loro conto, si sentirono oltraggiati. Erano furiosi che il servizio sanitario nazionale potesse negare dei farmaci che potevano
  • 134. 112 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA fornire qualche speranza ai pazienti. Ma c’è da chiedersi se essi col- sero pienamente quanto le prove disponibili fossero lontane dall’es- sere convincenti. Non era facile capire che i risultati dei singoli studi si basavano su pubblicazioni parziali dei risultati, su misure di esito di dubbia rilevanza e su una durata degli studi di soli due-tre anni, per una malattia che generalmente dura invece almeno due decenni. Il governo cedette a queste pressioni. Il Ministero della Salute ed i produttori svilupparono una strategia decennale per fornire il farma- co. Ma questo ha significato la fine della possibilità di capire se que- sti farmaci sono utili ai pazienti. Ancor peggio, poiché gli interferoni sono divenuti il trattamento standard per la malattia, gli studi indipen- denti mirati a valutare gli approcci alternativi per aiutare i pazienti hanno raggiunto improvvisamente costi proibitivi. Perché? Perché medici e pazienti sostengono che non sarebbe etico confrontare le nuove terapie con il placebo: le nuove terapie devono essere confron- tati con il costoso interferone. Nella sclerosi multipla, dove gli studi sponsorizzati dalle industrie hanno eliminato quasi tutti i progetti di studio indipendenti, il pro- gresso nel trattamento della malattia potrebbe essere in realtà stato impedito – un esito insoddisfacente sotto ogni punto di vista. C’è un altro importante aspetto di questa triste vicenda – gli enor- mi interessi economici hanno impedito una sperimentazione adeguata VALUTARE I FARMACI PER LA SCLEROSI MULTIPLA 1. Il NICE ha annunciato che né l’interferone beta, né il glatiramer possono esse- re raccomandati per la sclerosi multipla all’interno del NHS. 2. Il Ministero della Salute ha pianificato di rendere disponibili questi farmaci attraverso uno schema di “condivisione del rischio” che è scientificamente sba- gliato e non pratico. 3. Gli studi randomizzati suggeriscono che l’azatioprina (che è 20 volte meno costosa) potrebbe essere altrettanto efficace. 4. L’efficacia di lungo periodo di questi farmaci non è nota. 5. I soldi del governo potrebbero essere spesi meglio per finanziare uno studio randomizzato di lungo periodo, che confronti l’interferone beta, oppure il glatira- mer, con azatioprina e nessun trattamento. Sudlow CLM, Counsell CE. Problems with UK government’s risk sharing scheme for assessing drugs for multiple sclerosis. British Medical Journal 2003; 326: 388-92
  • 135. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 113 degli interferoni nella sclerosi multipla. Le industrie farmaceutiche vendono interferoni e alcuni neurologi e altri clinici sono stati pagati dalle industrie per promuoverli. Non pochi neurologi, poi, usano costose tecniche di imaging cerebrale per esaminare i pazienti, sulla base dell’assunto che ciò che vedono in queste immagini sia un modo valido, e vantaggioso per i pazienti, di monitorare la progressione della malattia. Questo approccio è stato fortemente promosso dalle industrie. Nonostante manchino prove sull’utilità di questo tipo di monitoraggio per la progressione della sclerosi multipla, molti neuro- LE FONDAZIONI E LE ASSOCIAZIONI DI PAZIENTI DOVREBBERO DICHIARARE I LORO POTENZIALI CONFLITTI DI INTERESSI L’industria farmaceutica non effettua donazioni di denaro alle fondazioni per ragioni altruistiche. In Europa non è permesso fare pubblicità dei farmaci prescri- vibili [direttamente] ai pazienti, ma l’industria sa che i gruppi di pazienti posso- no svolgere una forte attività di lobby e hanno il potere di condizionare il gover- no e il NHS. I pazienti credono nelle loro associazioni e si aspettano che le informazioni pro- venienti da esse siano prive di errori e non influenzate dalle fonti che le finanzia- no. Le fondazioni dovrebbero dichiarare come potenziale conflitto di interessi i finanziamenti che accettano dall’industria. Questo potrebbe permettere ai pazien- ti di porsi domande sulla indipendenza loro e delle informazioni che forniscono e decidere eventualmente di cercare ulteriori informazioni da altre fonti indipen- denti. Arthritis Care lanciò una campagna per diffondere la prescrizione di un nuovo inibitore delle COX-2 basata su una interpretazione scorretta dei risultati prelimi- nari (a 6 mesi di osservazione) di uno studio che doveva essere valutato ad un anno di follow-up. Non dichiararono che la campagna informativa era finanziata dalle industrie Pharmacia e Pfizer. L’Impotence Association fece una campagna per incoraggiare la maggiore pre- scrizione di Viagra e anch’essa ricevette finanziamenti dalla Pfizer, il cui logo appare anche sul sito web dell’associazione. L’associazione Diabetes UK ricevet- te circa un milione di sterline da 11 aziende farmaceutiche produttrici di medici- nali antidiabetici, ma tutto ciò non è menzionato nel rapporto annuale. Non dichiarare finanziamenti di tale portata induce le persone a diventare sospet- tose. Perché non fornire in modo trasparente un quadro vero della realtà? Cosa c’è da nascondere? Hirst J. Charities and patient groups should declare interests. British Medical Journal 2003; 326: 1211
  • 136. 114 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA logi asseriscono che deve essere utilizzato in tutte le sperimentazioni cliniche che riguardano la cura di questa malattia. Mentre l’industria può sostenere e scaricare sui suoi clienti gli elevati costi di questi esami non validati (circa € 3.000 per esame), tali costi sono un ulte- riore ostacolo posto sul cammino di chi vorrebbe vedere studi con- dotti indipendentemente dall’industria. Un altro conflitto di interessi, meno noto, lo si riscontra nel rappor- to tra queste associazioni e industria farmaceutica. Molte di queste associazioni non hanno grandi mezzi a disposizione, sono basate sul volontariato e hanno pochi finanziamenti indipendenti. I finanzia- menti che provengono dalle industrie farmaceutiche e dai progetti sviluppati con esse possono aiutare le associazioni a crescere e ad essere più influenti, ma possono anche distorcere le priorità dei pazienti, inclusa quella della ricerca. Ci sono addirittura casi in cui le organizzazioni dei pazienti sono state create dalle aziende farmaceu- tiche per spingere i loro prodotti. Una delle industrie produttrici di interferone, che fu successivamente sanzionata dall’Agenzia britan- nica per il Controllo dei Medicinali, aveva ad esempio dato vita ad un nuovo gruppo di pazienti ‘Action for Access’ per spingere affinché l’NHS fornisse l’interferone per la sclerosi multipla.132, 133 Il messag- gio percepito dai gruppi di pazienti come risultato di tutta questa campagna era che gli interferoni erano efficaci ma troppo costosi, mentre il vero problema era rappresentato dai dubbi sull’efficacia del farmaco – in una malattia che per un secolo è stata caratterizzata da false speranze. Anche adesso, quasi 16 anni dopo l’inizio del primo studio sugli interferoni, non ci sono dati significativi di lungo termi- ne sull’efficacia delle cure. Non soltanto è veramente dubbio che i nuovi farmaci per la sclero- si multipla sortiscano qualche effetto realmente importante per i pazienti, ma sembra piuttosto che vi siano effetti collaterali molto importanti. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration (l’agenzia che valuta se un farmaco può essere messo in commercio, ndt) ha approvato il farmaco biologico Tysabri (natalizumab) sulla base dei dati derivati dopo soli 12 mesi di osservazione. L’impatto di questa decisione straordinaria ha avuto vita breve: le industrie hanno ritirato il loro prodotto dal mercato quando sono stati registrati due casi di una malattia cerebrale mortale molto rara, in un piccolo nume- ro di pazienti che stavano partecipando ad uno studio su questo far- maco. Nonostante questa catastrofe sia stata quasi certamente causa-
  • 137. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 115 ta dal nuovo farmaco (e avrebbe potuto andare peggio se l’uso fosse stato più prolungato) i pazienti e i clinici hanno continuato a farne fortemente richiesta. La vicenda dell’interferone in Inghilterra illustra in maniera paradig- matica l’importanza per un SSN di poter investire con risorse proprie nella ricerca. In Italia, l’Agenzia italiana del farmaco ha finanziato – nell’ambito del proprio programma di ricerca indipendente di cui par- liamo nella nota alla traduzione italiana a pag. 96 – uno studio multi- centrico nazionale che mette direttamente a confronto l’efficacia del- l’interferone con quella del conosciuto medicinale azatioprina, un far- maco immunosoppressivo di cui era già stata dimostrata l’efficacia in alcuni trial clinici randomizzati condotti negli anni ’80 e successiva- mente in una revisione sistematica disponibile sulla Cochrane Library. Attualmente, questo è l’unico studio in corso a livello interna- zionale che ha l’obbiettivo di valutare se l’interferone beta è davvero un farmaco utile ed efficace nel trattamento della sclerosi multipla rispetto a trattamenti già disponibili, che hanno una più solida dimo- strazione di efficacia e che sono assai meno costosi per il SSN (nota del Curatore dell’edizione italiana). I PASSI DA COMPIERE PER MIGLIORARE LA SPERIMENTAZIONE DELLE TERAPIE Nelle pagine precedenti ci siamo concentrati sui problemi che potevano derivare dal coinvolgimento dei pazienti nella sperimenta- zione delle cure e su come, involontariamente, essi potessero mette- re a repentaglio la bontà degli studi. Come accade in molti casi le buone intenzioni non garantiscono che si faccia più bene che male. Ci sono chiari esempi dei vantaggi, sia per i ricercatori sia per i pazien- ti, del lavorare insieme per migliorare la rilevanza ed il disegno degli studi. Molti ricercatori si mettono attivamente alla ricerca di malati disponibili a collaborare. Un’area appropriata per il lavorare insieme è la ricerca che può migliorare la condivisione delle decisioni e della comunicazione del rischio nella pratica della medicina generale. In uno studio che aveva questo obiettivo i ricercatori ed i pazienti hanno lavorato insieme al suo sviluppo. Per prima cosa hanno fatto una ricerca bibliografica per
  • 138. 116 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA LA COLLABORAZIONE TRA RICERCATORI E PAZIENTI PUÒ FORNIRE RECI- PROCO VANTAGGIO Lo studio clinico PRISM, finanziato con fondi pubblici, è uno studio multicentri- co randomizzato e controllato condotto in Gran Bretagna che confronta diverse strategie terapeutiche per il morbo di Paget, una malattia delle ossa. La National Association for the Relief of Paget’s Disease (NARPD) è l’unico gruppo di sup- porto in Gran Bretagna per coloro che soffrono di questa malattia ed ha lavorato a stretto contatto con il gruppo PRISM fin dall’inizio. Il coinvolgimento del NARPD è parte integrante della conduzione dello studio e per esso sono previsti ruoli specifici: revisione del protocollo; partecipazione al comitato direttivo dello studio e promozione dello studio tra i pazienti sofferenti del morbo di Paget. Adattato da Langston A, McCallum M, Campbell M, Robertson C, Ralston S An integrated approach to consumer representation and involvement in a multicentre randomized controlled trial. Clinical Trials 2005; 2:80-7 stabilire quali aspetti del rapporto medico-paziente gli operatori sani- tari ritenessero importanti quando i pazienti si presentano per una visita. Poi hanno indagato direttamente i punti di vista dei pazienti, attraverso una serie di focus group che coinvolgevano sia i malati sia i cittadini. Hanno infine approfondito i diversi approcci decisionali, la percezione dei pazienti rispetto al loro svolgimento e la disponibi- lità di informazioni. Sono state utilizzate rigorose metodologie di ricerca per stabilire cosa accomunasse le informazioni pubblicate dai clinici e le prorità dei pazienti. I pazienti partecipanti ai focus group hanno confermato alcuni degli esiti identificati dai ricercatori nelle loro pubblicazioni – ad esempio, cercare attivamente il coinvolgimento dei pazienti e l’accordo fra essi ed i professionisti. Peraltro, i malati hanno identificato anche altri aspetti come importanti: come, ad esempio, la percezione di essere rispettati come attori capaci di fornire un contributo significativo all’assunzione di decisioni. I pazienti e i cittadini intervistati in questi focus group hanno anche sottolineato l’importanza di aver accesso a fonti aggiuntive di informazione e di poter avere il supporto di altre figure non mediche, come infermieri, altri professionisti (per esempio psicologi) o volontari e familiari. La continuità delle cure è emersa come un aspetto fortemente valorizzato insieme con l’esplicitazione di una sorta di ‘contratto terapeutico’ con al centro la possibilità di
  • 139. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 117 L’IMPORTANZA DEL COINVOLGIMENTO DEI PAZIENTI NELLA PIANIFICAZIONE DELLA RICERCA I ricercatori organizzarono una serie di incontri con gruppi di persone anziane per pensare al disegno di un nuovo studio nel quale si doveva valutare un nuovo trat- tamento per le persone sofferenti di ictus acuto; la criticità posta al centro della valutazione era che i pazienti, quando sono colpiti dalla malattia, comprensibil- mente non possono riferire il loro punto di vista. La ricerca ha portato a conclu- dere che: • è importante coinvolgere i pazienti nella pianificazione di uno studio sull’ictus • i commenti dei soggetti non ancora colpiti dall’ictus, e di coloro che li assistono, possono offrire miglioramenti sostanziali nella stesura dei materiali informativi sullo studio • le persone sostengono diversi approcci al consenso informato in relazione alle differenti condizioni cliniche dei pazienti • il coinvolgimento dei pazienti potrebbe essere davvero un elemento molto importante per lo sviluppo di nuovi studi clinici randomizzati Adattato da Koops L, Lindley RI. Thrombolysis for acute ischemic stroke: consumer involvement in design of new randomised controlled trials. British Medical Journal 2002; 325: 415-7 rinegoziare le decisioni prese sulle cure da intraprendere. È stata anche sottolineata la necessità di poter disporre di materiale informa- tivo ad hoc, come opuscoli ed audiovisivi.134 In uno studio condotto per capire meglio il valore di una collabo- razione tra ricercatori e pazienti, iniziata già in una fase preparatoria di uno studio, i ricercatori hanno esplorato con i malati, veri e poten- ziali, alcune delle criticità che sorgono nella sperimentazione di tera- pie utilizzate in situazioni di emergenza. La terapia per l’ictus in fase acuta, per aver successo, deve essere iniziata il più presto possibile, immediatamente dopo l’insorgere dell’evento. Dal momento che i ricercatori non erano sicuri del miglior modo di procedere hanno chiesto aiuto ai pazienti e a chi li assisteva. Si organizzò così un incontro con un gruppo di pazienti e di operatori sanitari e venne con- dotto un focus group coinvolgendo alcune persone anziane. Come risultato si chiarì cosa era meglio fare ed i pazienti aiutarono i ricer- catori a redigere e rivedere gli opuscoli informativi dello studio.
  • 140. 118 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA Questa ricerca ha permesso di pianificare uno studio clinico con- trollato e randomizzato rapidamente approvato dal comitato etico per la ricerca. I partecipanti al focus group avevano messo a fuoco i dilemmi etici legati alla necessità di ottenere il consenso informato da persone colpite da una malattia acuta, che potevano trovarsi in stato confusionale o anche in stato d’incoscienza. Suggerirono possibili soluzioni per condurre uno studio con modalità soddisfacenti per tutte le parti coinvolte e apportarono sostanziali miglioramenti nel materiale informativo.135 Nel Capitolo 6 abbiamo descritto l’importanza del lavoro prepara- torio svolto con i pazienti per uno studio condotto in Gran Bretagna sul cancro localizzato della prostata. I ricercatori volevano confron- tare gli effetti del monitoraggio attivo rispetto al trattamento con chi- rurgia o radioterapia, al fine di ridurre le incertezze legate all’effica- cia relativa di questi trattamenti. Chiaramente si tratta di modalità di cura molto diverse tra loro, quindi si poneva il problema di capire come avrebbero reagito, sia i clinici sia i pazienti, alla possibile scel- ta di una o dell’altra opzione di trattamento. I ricercatori non ebbero difficoltà ad identificare le probabili barriere che i clinici avrebbero dovuto affrontare nel presentare lo studio ai pazienti. Essi ipotizzava- no che i pazienti avrebbero trovato difficile decidere se accettare o meno di entrare nello studio, soprattutto in quanto molti avrebbero potuto non essere d’accordo ad essere randomizzati ad uno dei tre bracci d’intervento che presentavano rischi molto diversi di compli- canze. Come soluzione, i ricercatori svilupparono una proposta in due fasi: prima uno studio di fattibilità e poi il successivo utilizzo dei suoi risultati per la conduzione dello studio principale. I risultati di questa prima fase mostrarono che lo studio era fattibile e che molti uomini sarebbero stati d’accordo ad essere reclutati nello studio con tre brac- ci d’intervento (monitoraggio attivo, chirurgia o radioterapia).136 COME COINVOLGERE IL PUBBLICO E I PAZIENTI? Esistono diverse modalità di coinvolgimento di cittadini e malati nella sperimentazione dell’efficacia dei trattamenti. Come abbiamo già sottolineato altrove, sono proprio i pazienti che dovrebbero farsi promotori di studi una volta che avessero capito i limiti delle cono-
  • 141. Migliorare qualità e rilevanza delle sperimentazioni 119 UNA GUIDA ALLA BUONA PRATICA PER IL COINVOLGIMENTO DEI PAZIENTI NELLA RICERCA I ruoli dei pazienti devono essere decisi di comune accordo dai ricercatori e dagli stessi pazienti coinvolti nella ricerca. I finanziamenti dei ricercatori devono essere appropriati ai costi del coinvolgi- mento dei malati nello studio. I ricercatori devono rispettare le diverse esperienze, competenze e conoscenze dei pazienti. Ai malati deve essere offerta la formazione ed il supporto personale necessari per migliorare il loro coinvolgimento nella ricerca. I ricercatori devono essere in possesso delle competenze necessarie al coinvolgi- mento dei pazienti nel processo di ricerca. I malati devono essere coinvolti nel decidere le modalità di reclutamento dei par- tecipanti e tenuti informati sui progressi della ricerca. Il coinvolgimento dei pazienti deve essere previsto e descritto nei risultati dello studio. I risultati della ricerca devono essere resi disponibili per i malati in formati e lin- guaggio tali da poter essere facilmente compresi. Adattato da Telford R, Boote JD, Cooper CL. What does it mean to involve consumers successfully in NHS research? A consensus study. Health Expectations 2004; 7:209-20 scenze disponibili e le potenzialità conoscitive che sono offerte da studi ben disegnati e condotti. I ricercatori dovrebbero sapere come poter coinvolgere attivamente i pazienti. In particolare sarebbe opportuno che i ricercatori sapessero in quali fasi è opportuno coin- volgere i malati e in quali no. A seconda dei casi i pazienti possono essere utilmente coinvolti nel disegno di uno studio (laddove si tratti di mettere a fuoco le vere incertezze) o nella disseminazione ed implementazione dei risultati una volta che questi siano stati ottenu- ti. Non ci sono ruoli rigidi: quale sia più appropriato dipende dalle diverse strategie o approcci di un particolare studio. Come illustrato nella ricerca sul cancro della prostata localizzato e nello studio sulle strategie decisionali condivise, le metodologie sono in continua evo- luzione – anche nel corso del progetto stesso. Una revisione sistematica sull’effetto del coinvolgimento dei pazienti nell’identificazione e nella definizione delle priorità dei possibili argomenti di ricerca è stata pubblicata nel 2004.137 Questo
  • 142. 120 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA lavoro ha documentato che esiste ormai un bagaglio di esperienza sufficiente nel coinvolgimento dei pazienti tale che si può pensare di lavorare direttamente o indirettamente con il pubblico. Le organiz- zazioni che finanziano la ricerca ora richiedono spesso che le richie- ste di finanziamento chiariscano con quali modalità sono coinvolti i cittadini ed i pazienti e consigliano i ricercatori su come imparare a farlo meglio. Così, complessivamente, il coinvolgimento dei malati e del pubbli- co sta diventando una realtà. Non possono più essere ignorati o coin- volti puramente come gesto di cortesia. Possono partecipare alla ricerca, fornendo un contributo per migliorare sia la scelta degli argo- menti delle ricerche, sia la conduzione degli studi stessi. Poiché, tal- volta, i pazienti possono anche involontariamente danneggiare una corretta sperimentazione, si deve fare in modo che essi, lavorando insieme ai ricercatori, permettano di ridurre le incertezze nell’effica- cia delle cure a vantaggio di tutti. MESSAGGI CHIAVE • Pazienti e ricercatori, lavorando insieme, costituiscono una potente alleanza per ridurre le incertezze sulle cure a vantaggio di tutti. • I pazienti possono aiutare a meglio finalizzare la ricerca sugli effetti dei trattamenti • I suggerimenti dei malati possono portare ad una ricerca migliore di migliore qualità • Involontariamente i pazienti possono talvolta danneggiare la corretta conduzione di una sperimentazione • Per contribuire efficacemente, i malati hanno bisogno di migliorare le loro conoscenze generali sulla metodologia della ricerca ed avere facile accesso alle informazioni.
  • 143. 8• IL MANIFESTO PER UNA RIVOLUZIONE È fuor di dubbio che la ricerca medica ha contribuito al migliora- mento della qualità e della durata della vita. Nonostante ciò, chi defi- nisce l’agenda della ricerca – industria ed università – ha fatto pochi sforzi per identificare le priorità dei pazienti, come già abbiamo illu- strato in questo libro. Dal momento che la cura della salute sarà sem- pre inevitabilmente associata ad incertezze più o meno ampie, sareb- be nell’interesse di ciascuno di noi che ad occuparsene fosse il servi- zio sanitario pubblico. Come pianificare dunque un progetto rivolu- zionario in cui diventi un’opportunità affrontare le incertezze della pratica assistenziale quotidiana e in cui la sperimentazione delle cure diventi parte integrante di una buona assistenza sanitaria? Prima di enunciare il nostro programma per questa rivoluzione, vogliamo darvi un’idea di ciò che speriamo possa verificarsi ogni giorno nel futuro della medicina generale. IL CASO DEL SIGNOR JONES Ifor Jones, contadino in pensione nella zona rurale del Galles del Nord a lungo provato da una profonda stanchezza, decide di sotto- porsi ad una visita dal suo medico di medicina generale. Ifor, accer- tatosi che sua figlia potesse accompagnarlo nelle 10 miglia che lo separano dall’ambulatorio, fissa un appuntamento. La dottoressa discute con lui i suoi sintomi, lo visita e gli preleva un campione di sangue che spedisce all’ospedale locale per le analisi. Pochi giorni dopo gli esiti degli esami mostrano che Ifor ha una forma di anemia
  • 144. 122 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA dovuta alla carenza di vitamina B12 (anemia perniciosa, vedi Capitolo 4). Il medico gli telefona chiedendogli di ritornare per una visita. All’incontro successivo la dottoressa spiega ad Ifor che la forma di anemia che lo ha colpito, ora confermata dagli esami del sangue, dovrebbe rispondere molto bene ad iniezioni di vitamina B12, ma lo informa anche che gli esperti sono in disaccordo sulla frequenza delle iniezioni cui sottoporsi: alcuni suggeriscono di farlo ogni tre mesi ed altri più di frequente. Connettendosi alla National Library for Health, la dottoressa mostra ad Ifor sul video del suo computer una revisione sistematica di studi controllati che mettono a diverse frequenze delle iniezioni. Questa conferma che nessuno sa se ci sia maggior sollievo dalla stanchezza con iniezioni più frequenti rispet- to ad una ogni tre mesi. Il computer attira anche la loro attenzione su alcune informazioni per i pazienti riguardanti uno studio controllato che confronta diffe- renti frequenze di iniezioni di vitamina B12 per l’anemia perniciosa. Lo studio è stato intrapreso dal NHS Research and Development Programme, sollecitato dalle domande poste ai servizi deputati a rispondere ai quesiti clinici da parte di medici di medicina generale e pazienti su quale fosse la più appropriata frequenza iniettiva per migliorare i sintomi nelle persone affette da anemia perniciosa. La dottoressa chiede ad Ifor se vuole prendere in considerazione di par- tecipare allo studio: infatti, anche se scomodo, le visite ambulatoria- li mensili potrebbero migliorare più efficacemente i sintomi della malattia. Infatti, quando medici e pazienti pianificarono lo studio, i secondi furono rassicurati che i loro sintomi più fastidiosi– come la stanchez- za – sarebbero stati sempre valutati ad ogni incontro insieme ai con- sueti esami del sangue per l’anemia perniciosa. Sia ad Ifor che al suo medico sembrò subito che non sarebbe stato complicato partecipare allo studio: non sarebbero state richieste più informazioni di quelle raccolte nel normale monitoraggio dell’impatto del trattamento. E dal momento che i risultati dello studio erano attesi entro un anno, lo stesso Ifor avrebbe potuto giovarsi dei risultati di queste nuove prove. La dottoressa chiede quindi ad Ifor se vuole portarsi a casa l’opu- scolo informativo per i pazienti e pensarci sopra, ma Ifor decide di entrare subito nello studio. La dottoressa, una volta inseriti i dati di
  • 145. Il manifesto per una rivoluzione 123 Ifor in una sezione riservata e protetta da password del sito internet dello studio, viene informata dopo pochi secondi che Ifor è stato ran- domizzato a ricevere le iniezioni ogni tre mesi. Da allora ogni trimestre il centro di coordinamento dello studio invia messaggi di testo sia al telefono mobile della dottoressa che a quello di Ifor, invitandoli a rispondere ad alcune domande sui sinto- mi e sui segni della malattia e ad inviare al laboratorio altri campio- ni di sangue. Il laboratorio invia poi copie dei risultati al centro di coordinamento, ad Ifor ed al suo medico. Dopo poco più di un anno il medico ed Ifor ricevono i primi risul- tati dello studio e ne tengono conto per decidere se continuare con le iniezioni ogni tre mesi o scegliere una frequenza maggiore. Ifor ed il suo medico hanno così contribuito a ridurre l’incertezza su un tema che interessa ad entrambi. Questa descrizione di come si possano fare sia gli interessi di un paziente affetto da anemia da deficit di vitamina B12, sia quello di un medico di medicina generale incerto sui vantaggi di un’opzione tera- peutica, mette in luce diverse questioni. Benché i trattamenti efficaci per questo tipo di anemia siano stati identificati circa un secolo fa,138 le domande sulla frequenza delle iniezioni di vitamina B12 sono rimaste senza risposta perché non rivestivano grande interesse per l’industria o per i ricercatori accademici. Questo tipo di domande emerge solo se in modo diffuso e capillare viene riconosciuto e rice- ve una risposta. In questo specifico esempio, per ottenere una rispo- sta bastano solo piccoli sforzi in più rispetto alle cure normali. Il nostro esempio si riferisce alle incertezze sugli effetti del tratta- mento di una malattia cronica gravida di sofferenze. Questo stesso semplice approccio potrebbe essere seguito per rispondere alle incer- tezze in tutti i campi, dalle emergenze acute potenzialmente letali (come l’ictus), fino a malattie che guariscono da sole, ma spesso fastidiose, come il raffreddore. Come fare per esser certi che questo approccio diventi un’abitudine nel sistema sanitario pubblico?
  • 146. 124 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA IL NOSTRO MANIFESTO Preso singolarmente nessuno dei suggerimenti che seguono è di per sé rivoluzionario e del tutto nuovo. Le nostre sette proposte di azio- ne, considerate tutte insieme e promosse con pazienti e clinici costi- tuiscono un manifesto per una rivoluzione nell’uso e nella sperimen- tazione delle cure. 1. Incoraggiare la franchezza quando ci siano incertezze sugli effetti delle cure Ammettere l’incertezza è spesso difficile per gli operatori sanitari e a volte questo non è gradito ai malati. Come risultato, talvolta le perso- ne ne traggono un falso senso di sicurezza. Se clinici e pazienti devo- no lavorare insieme per facilitare la valutazione degli effetti dei trat- tamenti, entrambi devono anche essere più pronti a riconoscere che le cure sperimentate in modo inadeguato possono essere davvero dan- nose; devono avere più dimestichezza con i metodi necessari ad otte- nere prove di efficacia affidabili. Dobbiamo trovare il modo più appropriato per far sì che accada. 2. Affrontare il doppio standard del consenso informato ai trattamenti all’interno e al di fuori degli studi clinici I clinici preparati ad ammettere le incertezze sugli effetti delle cure e a discuterle apertamente nell’interazione con i pazienti sono soggetti a regole più stringenti rispetto ai loro colleghi. Quando ci sono incer- tezze rispetto all’efficacia delle cure, dovrebbe essere la norma parte- cipare a studi controllati o ad altri metodi di valutazione privi di erro- ri sistematici. Dovremmo assicurare che la partecipazione ad una ricerca non venga presentata come un’impresa rischiosa, quasi a voler far credere che la pratica standard sia sempre efficace e sicura.
  • 147. Il manifesto per una rivoluzione 125 3. Accrescere la capacità di giudicare l’affidabilità delle affermazioni sugli effetti dei trattamenti Una condizione necessaria per il cambiamento è rappresentata da un maggior coinvolgimento dei cittadini sui rischi di errore nella valuta- zione dell’utilità dei trattamenti. È difficile far entrare nella ‘cultura generale’ una delle più importanti caratteristiche della ricerca scien- tifica – ovverosia lo spirito critico necessario a riconoscere e a ridur- re gli errori. Dobbiamo fare più sforzi per migliorare la comprensio- ne di questi concetti e farli entrare nel processo di formazione, sin dall’inizio della scuola. 4. Accrescere la capacità di preparare, mantenere e disseminare le revisioni sistematiche delle prove sugli effetti dei trattamenti Molte delle risposte alle domande pressanti sugli effetti delle terapie possono essere prontamente ottenute attraverso revisioni sistematiche delle prove di efficacia che già esistono e poi mantenendo queste revi- sioni aggiornate e disseminandone i risultati sia ai professionisti sia ai pazienti. C’è ancora molta strada da fare prima che le informazioni sulle prove di efficacia esistenti siano prontamente disponibili in revi- sioni sistematiche. Dovremo far pressione sul servizio sanitario nazio- nale affinché un impegno sistematico per rendere disponibili informa- zioni valide e rilevanti per la tutela della salute diventi la norma. 5. Contrastare i comportamenti scientifici scorretti e i conflitti di interesse all’interno della comunità dei ricercatori Molte persone rimangono sbalordite nel vedere che ai ricercatori non è chiesto di tener conto di ciò che già si fa quando chiedono fondi per un nuovo studio o ne richiedono l’approvazione da parte di un comi- tato etico. La conseguenza inevitabile è che continuano ad esserci, in misura inaccettabile da un punto di vista etico e scientifico, ricerche mal disegnate e francamente non necessarie. Dovremmo far pressio- ne su chi finanzia le ricerche e sui comitati etici per far sì che i ricer- catori non inizino neppure una nuova ricerca senza prima aver con- dotto o esaminato una revisione sistematica delle conoscenze dispo-
  • 148. 126 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA nibili. Inoltre, non è etico nascondere i risultati di alcuni studi. Ai ricercatori dovrebbe essere chiesto di pubblicare i risultati di tutta la ricerca a cui i pazienti hanno partecipato e di chiarire quale contribu- to garantiscano le nuove prove rispetto a quanto era già conosciuto precedentemente. 6. Pretendere che l’industria fornisca prove di efficacia sui trattamenti di migliore qualità, più complete e più rilevanti Nel 2005, il House of Commons Health Committee ha pubblicato un rapporto di grande impatto sull’influenza dell’industria farmaceutica in Gran Bretagna.139 Quando in passato sono stati sfidati il potere e l’influenza dell’industria farmaceutica, i giganti del farmaco hanno risposto minacciando di trasferire dalla Gran Bretagna verso altri paesi le proprie attività di ricerca e sviluppo, dipingendo un quadro spaven- toso delle conseguenze sull’economia britannica. I diversi governi sono stati acquiescenti e hanno ceduto le armi senza nulla fare per limitare gli eccessi dell’industria. Non bisogna permettere che anche queste raccomandazioni siano disattese. In particolare, bisogna insi- stere sul fatto che tutti gli studi clinici vengano registrati sin dall’ini- zio e che tutti i risultati vengano pubblicati in modo completo. 7. Identificare e definire le priorità della ricerca per rispondere ai quesiti sugli effetti dei trattamenti rilevanti sia per i pazienti sia per i clinici Le scelte di chi finanzia la ricerca e delle istituzioni accademiche si concentrano sulla ricerca di base, che ha poche probabilità di produr- re effetti utili per i pazienti in un futuro prossimo, e sulla ricerca diret- ta a massimizzare i profitti dell’industria. La ricerca applicata a que- siti privi di una potenziale remunerazione economica, ma rilevanti per i pazienti, deve combattere strenuamente per ottenere anche il più piccolo finanziamento pubblico. Bisogna indurre il servizio sanitario pubblico a identificare e rispondere ai quesiti dei malati e dei clinici sugli effetti dei trattamenti e bisogna far sì che i finanziatori ne ten- gano conto nel definire le priorità della ricerca mirata alla riduzione delle incertezze nelle cure.
  • 149. Il manifesto per una rivoluzione 127 IN CONCLUSIONE Da troppo tempo aspettiamo una rivoluzione nella sperimentazione dei trattamenti. Il progetto che noi sosteniamo è pienamente realizza- bile attraverso la collaborazione attiva fra professionisti e pazienti. Tu, lettore, dovresti pretendere il cambiamento: ora. UN PIANO DI AZIONE: LE COSE CHE PUOI FARE Identifica quali quesiti sugli effetti dei trattamenti ritieni importanti. Chi conosce l’inglese, può visitare la National Library for Health (www.library.nhs.uk) per documentarsi sulla disponibilità di informazioni affida- bili derivate da revisioni sistematiche aggiornate. Accetta di partecipare ad uno studio clinico solo se: (i) il protocollo dello studio è stato registrato pubblicamente sul sito www.controlled-trials.com; (ii) il proto- collo fa riferimento a revisioni sistematiche di prove già esistenti che dimostrino la necessità di condurre lo studio; (iii) ti viene fornita assicurazione scritta che tutti i risultati dello studio saranno resi pubblici e inviati ai partecipanti che ne hanno fatto richiesta. Impara a riconoscere l’incertezza: parlane, fai domande e cerca delle risposte franche. Discuti con il tuo medico delle prove di efficacia e delle incertezze di un tratta- mento. Incoraggia un’educazione diffusa sugli effetti degli errori sistematici nella ricerca clinica e sull’effetto del caso e chiedi con forza a chi ti rappresenta in Parlamento o presso altre istituzioni di inserire questi concetti nel curriculum di studi, a par- tire dalla scuola primaria. Sii critico sulle notizie infondate e su quelle fornite dai media in merito alle sco- perte innovative; poni domande precise e discutine con i tuoi amici. Rifiuta le cure offerte a te e alla tua famiglia fondate su credenze e dogmi piutto- sto che su prove affidabili. Incoraggia medici, ricercatori, finanziatori e tutti coloro che stanno cercando di promuovere una ricerca incentrata sulle domande che tu reputi importanti e prive di risposte adeguate sugli effetti delle cure e lavora con loro attivamente.
  • 151. BIBLIOGRAFIA 1 Silverman WA. Where’s the evidence? Oxford: Oxford University Press, 1998, p165. 2 Tallis R. Enemies of hope: a critique of contemporary pessimism. London: Macmillan, 1997. 3 Lock S. Medicine in the second half of the twentieth century. In: Loudon I, ed. Western medicine: an illustrated history. Oxford: Oxford University Press, 1997. 4 Chalmers I. Unbiased, relevant, and reliable assessments in healthcare. British Medical Journal 1988;317:1167–8. Cit. Bunker JP, Frazier HS, Mosteller F. Improving health: measuring effects of medical care. Milbank Quarterly, 1994;72:2225–58. 5 Chalmers I. Evaluating the effects of care during pregnancy and childbirth. In: Chalmers I, Enkin M, Keirse MJNC, a cura di. Effective care in pregnancy and childbirth. Oxford: Oxford University Press, 1989:3–38. 6 Ulfelder H. The stilbestrol disorders in historical perspective. Cancer 1980;45:3008–11. 7 Office of Technology Assessment. Identifying health technologies that work: searching for evidence. Washington, DC: US Government Printing Office, 1994. 8 Vandenbroucke JP. Thalidomide: an unanticipated adverse event. Disponibile in: www.jameslindlibrary.org [accessed 5 December 2005]. 9 Thomson D, Capstick T. How a risk management programme can ensure safety in thalidomide use. Pharmaceutical Journal 2004 Feb 14:194–5. 10 Melville A, Johnson C. Cured to death: the effects of prescription drugs. London: New English Library, 1983. 11 Anonymous. After practolol [Editorial]. British Medical Journal 1977; 17 Dec: 1561–2. 12 Chalmers I. Trying to do more good than harm in policy and practice: the role of rigorous, transparent, up-to-date evaluations. Annals of the American Academy of Political and Social Science 2003;589:22–40. 13 Furberg CD. Effect of antiarrhythmic drugs on mortality after myocardial
  • 152. 130 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA infarction. American Journal of Cardiology 1983;52:32C–36C. 14 Chalmers I. In the dark. Drug companies should be forced to publish all the results of clinical trials. How else can we know the truth about their products. New Scientist 2004, 6 Mar, p19. Cit. Moore T, Deadly Medicine. New York: Simon and Schuster, 1995. 15 Cowley AJ, Skene A, Stainer K, Hampton JR. The effect of lorcainide on arrhythmias and survival in patients with acute myocardial infarction: an example of publication bias. International Journal of Cardiology 1993;40:161–6. 16 Horn J, Limburg M. Calcium antagonists for acute ischemic stroke. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2000, Issue 1. Art. No.: CD001928. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 17 Horn J, de Haan RJ, Vermeulen PD, Luiten PGM, Limburg M. Nimodipine in animal model experiments of focal cerebral ischemia: a systematic review. Stroke 2001;32:2433–8. 18 Hemminki E, McPherson K. Impact of postmenopausal hormone therapy on cardiovascular events and cancer: pooled data from clinical trials. British Medical Journal 1997;315:149–53. 19 Anonymous. HRT: update on the risk of breast cancer and long-term safety. Current Problems in Pharmacovigilance 2003;29:1–3. Cita risultati del Women’s Health Initiative randomised controlled trial (Journal of the American Medical Association 2003;289:3243–53) e del Million Women Study (Lancet 2003;362:419–27). 20 Williams HC. Evening primrose oil for atopic dermatitis: time to say goodnight [Editorial]. British Medical Journal 2003;327:1358–59. 21 Hoare C, Li Wan Po A, Williams H. Systematic review of treatment for atopic eczema. Health Technology Assessment Report 2000, volume 4, no. 37. 22 Takwale A, Tan E, Agarwal S, et al. Efficacy and tolerability of borage oil in adults and children with atopic eczema: randomised, double blind, placebo controlled, parallel group trial. British Medical Journal 2003;327:1385–87. 23 Wilks D, Sissons JGP. Infection. In: Tomlinson S, Heagerty AM, Weetman AP, eds. Mechanisms of disease: an introduction to clinical science. Cambridge: Cambridge University Press 1997, pp189–200. 24 Vandenbroucke JP, de Craen AJM. Alternative medicine: a ‘mirror image’ for scientific reasoning in conventional medicine. Annals of Internal Medicine 2001;135:507–13. Cita Ziegler EJ, Fisher CJ Jr, Sprung CL, et al. Treatment of gram-negative bacteremia and septic shock with HA-1A human monoclonal antibody against endotoxin. A randomized, double-blind, placebo-controlled trial. The HA-1A Sepsis Study Group. New England Journal of Medicine 1991;324:429–36 e Bone RC. Immunologic dissonance: a continuing evolution in our understanding of the systemic inflammatory response syndrome (SIRS) and the multiple organ dysfunction syndrome (MODS). Annals of Internal Medicine 1996;125:680–7. 25 Crile G. A plea against blind fear of cancer. Life, 1955, Oct 31, pp128–32.
  • 153. Bibliografia 131 26 Baum M, Houghton J. Contribution of randomised controlled trials to understanding and management of early breast cancer. British Medical Journal 1999;319:568–71. 27 Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group. Effects of adjuvant tamoxifen and of cytotoxic therapy on mortality in early breast cancer. An overview of 61 randomised trials among 28,896 women. New England Journal of Medicine 1988;319:1681–92. 28 Kolata G, Eichenwald K. Health business thrives on unproven treatment, leaving science behind. New York Times Special Report, 1999, Oct 2. 29 Farquhar C, Marjoribanks J, Basser R, et al. High dose chemotherapy and autologous bone marrow or stem cell transplantation versus conventional chemotherapy for women with early poor prognosis breast cancer. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2005, Issue 3. Art. No.: CD003139. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 30 Farquhar C, Marjoribanks J, Basser R, et al. High dose chemotherapy and autologous bone marrow or stem cell transplantation versus conventional chemotherapy for women with metastatic breast cancer. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2005, Issue 3. Art. No.: CD003142. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 31 Thornton H. The screening debates: time for a broader approach? European Journal of Cancer 2003;39:1807–9. 32 Adapted from Wilson JMG, Jungner G. Principles and practice of screening for disease. Public health paper no 34. Geneva: World Health Organisation, 1968. 33 Gray JAM. Evidence-based healthcare. Edinburgh: Churchill Livingstone, 1997. 34 Morris JK. Screening for neuroblastoma in children. Journal of Medical Screening 2002;9:56. 35 Welch HG. Should I be tested for cancer? Maybe not and here’s why. Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 2004. p77. 36 Morris JK. Screening for neuroblastoma in children. Journal of Medical Screening 2002;9:56. 37 Hummel S, Paisley S, Morgan A, et al. Clinical and cost-effectiveness of new and emerging technologies for early localised prostate cancer: a systematic review. Health Technology Assessment Report 2003; volume 7, no. 33. 38 Law M. Screening without evidence of efficacy. British Medical Journal 2004;328:301–2. 39 Yamey G, Wilkes M. The PSA storm. British Medical Journal 2002;324:431. 40 Wallis C. Atypical cystic fibrosis – diagnostic and management dilemmas. Journal of the Royal Society of Medicine 2003;96(suppl 43):2–10. 41 David TJ. Newborn screening for cystic fibrosis. Journal of the Royal Society of Medicine 2004;97: 209–10. 42 Farrell MH, Farrell PM. Newborn screening for cystic fibrosis: ensuring more good than harm. Journal of Pediatrics 2003;143:707–12. 43 NICE. Guidance on the removal of wisdom teeth, 2000. Disponibile in: www.nice.org.uk/page.aspx?o=526 [accessed 4 December 2005].
  • 154. 132 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA 44 Allen C, Glasziou P, Del Mar C. Bed rest: a potentially harmful treatment needing more careful evaluation. Lancet 1999;354:1229–33. 45 Antman EM, Lau J, Kupelnick B, Mosteller F, Chalmers TC. A comparison of results of meta-analysis of randomized control trials and recommendations of clinical experts. Journal of the American Medical Association 1992;268:240–8. 46 Asher R. Talking sense (Lettsonian lecture, 16 Feb, 1959). Transactions of the Medical Society of London, vol LXXV, 1958–59. Ripubblicato: Jones, FA, a cura di. Richard Asher talking sense. London: Pitman Medical, 1972. 47 Noseworthy JH, Ebers GC, Vandervoort MK, et al. The impact of blinding on the results of a randomized, placebo-controlled multiple sclerosis clinical trial. Neurology 1994;44:16–20. 48 Antiplatelet Trialists’ Collaborative Group. Collaborative overview of randomised trials of antiplatelet therapy. British Medical Journal 1994;308:81–106. 49 Beral V, for the Million Women Study Collaborators. Breast cancer and hormonereplacement therapy in the Million Women Study. Lancet 2003;362:419–27. 50 Address by the Rt. Hon. Lord Rayleigh. In: Report of the fifty-fourth meeting of the British Association for the Advancement of Science; held at Montreal in August and September 1884, London: John Murray, pp3–23. 51 Reynolds LA, Tansey EM, a cura di. Prenatal corticosteroids for reducing morbidity and mortality after preterm birth. London: Wellcome Trust Centre for the History of Medicine, 2005. 52 Lindley RI. Comunicazione personale, 2005. 53 Druker BJ, Talpaz M, Resta DJ, et al. Efficacy and safety of a specific inhibitor of the BCR-ABL tyrosine kinase in chronic myeloid leukemia. New England Journal of Medicine 2001;344:1031–7. 54 Loudon I. The use of historical controls and concurrent controls to assess the effects of sulphonamides, 1936–1945. Disponibile in: www.jameslindlibrary.org [accessed 3 January 2006]. 55 Transurethral resection of the prostate for benign prostatic hyperplasia. In: Wennburg JE, McAndrew Cooper M, a cura di. The Dartmouth Atlas of Healthcare in the United States. Hanover, New Hampshire: Center for Evaluative Clinical Sciences, Dartmouth Medical School, 1996, p142. L’edizione 1996 e quella aggiornata del 1999 sono disponibili all’indirizzo: www.dartmouthatlas.org/atlases/atlas_series.shtm [accessed 29 December 2005]. 56 Burton MJ, Towler B, Glasziou P. Tonsillectomy versus non-surgical treatment for chronic/recurrent acute tonsillitis. The Cochrane Database of Systematic Reviews 1999, Issue 3. Art. No.: CD001802. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 57 Ashcroft R. Giving medicine a fair trial. British Medical Journal 2000;320:1686. 58 Smithells RW. Iatrogenic hazards and their effects. Postgraduate Medical Journal 1975;15:39–52. 59 General Medical Council. Seeking patients’ consent: the ethical considerations.
  • 155. Bibliografia 133 November 1998. Available from: www.gmc-uk.org/guidance/library/consent.asp [accessed 6 December 2005]. 60 Chalmers I, Lindley R. Double standards on informed consent to treatment. In: Doyal L, Tobias JS, a cura di. Informed consent in medical research. London: BMJ Books 2001, pp266–75. 61 Goodare H. Studies that do not have informed consent from participants should not be published. In: Doyal L, Tobias JS, a cura di. Informed consent in medical research. BMJ Books 2001, pp131–3. 62 Fallowfield L, Jenkins V, Farewell V, et al. Efficacy of a Cancer Research UK communicating skills training model for oncologists: a randomised controlled trial. Lancet 2002;359:650–6. 63 Tobias J, Souhami R. Fully informed consent can be needlessly cruel. British Medical Journal 1993;307:119–20. 64 Baum, M. The ethics of randomised controlled trials. European Journal of Surgical Oncology 1995;21:136–7. 65 Thornton H. Why do we need clinical trials? BACUP News; issue 30, autumn 1997, p7. 66 de Takats P, Harrison J. Clinical trials and stroke. Lancet 1999;353:150. 67 Chalmers I, Lindley R. Double standards on informed consent to treatment. In: Doyal L, Tobias JS, a cura di. Informed consent in medical research. London: BMJ Books 2001, pp266–75. 68 Ashcroft R. Giving medicine a fair trial. British Medical Journal 2000;320:1686. 69 Savulescu J, Chalmers I, Blunt J. Are research ethics committees behaving unethically? Some suggestions for improving performance and accountability. British Medical Journal 1996;313:1390–3. 70 European Carotid Surgery Trialists’ Collaborative Group. Randomised trial of endarterectomy for recently symptomatic carotid stenosis: final results of the MRC European Carotid Surgery Trial (ECST). Lancet 1998;351:1379–87. 71 Cina CS, Clase CM, Haynes RB. Carotid endarterectomy for symptomatic carotid stenosis. The Cochrane Database of Systematic Reviews 1999, Issue 3. Art. No.: CD001081. Disponibile: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 72 The Magpie Trial Collaborative Group. Do women with pre-eclampsia, and their babies, benefit from magnesium sulphate? The Magpie Trial: a randomised, placebocontrolled trial. Lancet 2002;359:1877–90. 73 Duley L, Gu¨ lmezoglu AM, Henderson-Smart DJ. Magnesium sulphate and other anticonvulsants for women with pre-eclampsia. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2003, Issue 2. Art. No.: CD000025. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 74 Grimwade K, Swingler, G, Grimley Evans J. Cotrimoxazole prophylaxis for opportunistic infections in adults with HIV. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2003, Issue 3. Art. No.: CD003108. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 75 Chintu C, Bhat GJ, Walker AS, et al. Co-trimoxazole as prophylaxis against
  • 156. 134 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA opportunistic infections in HIV-infected Zambian children (CHAP): a double blind randomised placebo-controlled trial. Lancet 2004;364:1865–71. 76 MRC News Release. Antibiotic drug almost halves AIDS-related death in children. London: MRC, November 19, 2004. 77 Soares K, McGrath J, Adams C. Evidence and tardive dyskinesia. Lancet 1996;347:1696–7. 78 Thornley B, Adams C. Content and quality of 2000 controlled trials in schizophrenia over 50 years. British Medical Journal 1998;317:1181–4. 79 Howell CJ, Chalmers I. A review of prospectively controlled comparisons of epidural with non-epidural forms of pain relief during labour. International Journal of Obstetric Anesthesia 1992;1:93–110. 80 Chan A-W, Hróbjartsson A, Haahr MT, Gøtzsche PC, Altman DG. Empirical evidence for selective reporting of outcomes in randomized trials: comparison of protocols to published articles. Journal of the American Medical Association 2004;291:2457–65. 81 Horn J, de Haan RJ, Vermeulen RD, Luiten PGM, Limburg M. Nimodipine in animal model experiments of focal cerebral ischemia: a systematic review. Stroke 2001;32:2433–8. 82 Lau J, Schmid CH, Chalmers TC. Cumulative meta-analysis of clinical trials builds evidence of exemplary clinical practice. Journal of Clinical Epidemiology 1995;48:45–57. 83 Altman DG. The scandal of poor medical research. British Medical Journal 1994;308:283–4. 84 Tallon D, Chard J, Dieppe P. Relation between agendas of the research community and the research consumer. Lancet 2000;355:2037–40. 85 Cream J, Cayton H. New drugs for Alzheimer’s disease – a consumer perspective. CPD Bulletin Old Age Psychiatry 2001;2:80–2. 86 Cohen CI, D’Onofrio A, Larkin L, Berkholder P, Fishman H. A comparison of consumer and provider preferences for research on homeless veterans. Community Mental Health Journal 1999;35:273–9. 87 Griffiths KM, Jorm AF, Christensen H, et al. Research priorities in mental health, Part 2: an evaluation of the current research effort against stakeholders’ priorities. Australian and New Zealand Journal of Psychiatry 2002;36:327–39. 88 Chalmers I. Current controlled trials: an opportunity to help improve the quality of clinical research. Current Controlled Trials in Cardiovascular Medicine 2000;1:3–8. Disponibile in: http://cvm.controlled-trials.com/content/1/1/3 [accessed 12 December 2005]. 89 Safeguarding participants in controlled trials [Editorial]. Lancet 2000;355:1455–63. 90 Weatherall D. Academia and industry: increasingly uneasy bedfellows. Lancet 2000;355:1574. 91 Angell M. Is academic medicine for sale? New England Journal of Medicine 2000;342:1516–8. 92 Grant J, Green L, Mason B. From bench to bedside: Comroe and Dripps
  • 157. Bibliografia 135 revisited. HERG Research Report No. 30. Uxbridge, Middlesex: Brunel University Health Economics Research Group, 2003. 93 Pound P, Ebrahim S, Sandercock P, et al. Reviewing Animal Trials Systematically (RATS) Group. Where is the evidence that animal research benefits humans? British Medical Journal 2004;328:514–7. 94 Jones S. Genetics in medicine: real promises, unreal expectations [Milbank report]. New York: Milbank Memorial Fund, 2000. Disponibile in: www.milbank.org [accessed 12 December 2005]. 95 Mackillop WJ, Palmer MJ, O’Sullivan B, et al. Clinical trials in cancer: the role of surrogate patients in defining what constitutes an ethically acceptable clinical experiment. British Journal of Cancer 1989;59:388–95. 96 Jobling R. Therapeutic research into psoriasis: patients’ perspectives, priorities and interests. In: Rawlins M, Littlejohns P, ed. Delivering quality in the NHS 2005. Abingdon: Radcliffe Publishing Ltd, pp53–6. 97 Dixon-Woods M. Agarwak S, Jones J, et al. Synthesising qualitative and quantitative evidence: a review of possible methods. Journal of Health Services Research and Policy 2005;10:45–53. 98 Koops L, Lindley RI. Thrombolysis for acute ischaemic stroke: consumer involvement in design of new randomised controlled trial. British Medical Journal 2002;325:415–7. 99 Donovan J, Mills N, Smith M, et al. Quality improvement report: improving design and conduct of randomised trials by embedding them in qualitative research: ProtecT (prostate testing for cancer and treatment) study. British Medical Journal 2002;325:766–9. 100 Edwards A, Elwyn G, Atwell C, et al. Shared decision making and risk communication in general practice – a study incorporating systematic literature reviews, psychometric evaluation of outcome measures, and quantitative, qualitative and health economic analyses of a cluster randomised trial of professional skill development. Report to ‘Health in Partnership’ programme, UK Department of Health. Cardiff: Department of General Practice, University of Wales College of Medicine, 2002. 101 Longo M, Cohen D, Hood K, et al. Involving patients in primary care consultations: assessing preferences using Discrete Choice Experiments. British Journal of General Practice 2006;56:35–42. 102 Marsden J, Bradburn J. Patient and clinician collaboration in the design of a national randomised breast cancer trial. Health Expectations 2004;7:6–17. 103 Warlow C, Sandercock P, Dennis M, Wardlaw J. Research funding. Lancet 1999;353:1626. 104 Chalmers I, Rounding C, Lock K. Descriptive survey of non-commercial randomised trials in the United Kingdom, 1980–2002. British Medical Journal 2003;327:1017–9. 105 Relman AS. Publications and promotions for the clinical investigator. Clinical Pharmacology and Therapeutics 1979;25:673–6. 106 Warlow C. Building trial capacity (in a hostile environment). Relazione
  • 158. 136 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA presentata a Clinical Excellence 2004, Birmingham, 30 November 2004. 107 Eclampsia Trial Collaborative Group. Which anticonvulsant for women with eclampsia? Evidence from the Collaborative Eclampsia Trial. Lancet 1995;345:1455–63. 108 Alderson P, Roberts I. Corticosteroids for acute traumatic brain injury. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2005, Issue 1. Art. No.: CD000196. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 109 Roberts I, Yates D, Sandercock P, et al; CRASH trial collaborators. Effect of intravenous corticosteroids on death within 14 days in 10 008 adults with clinically significant head injury (MRC CRASH trial): randomised placebo-controlled trial. Lancet 2004;364:1321–8. 110 House of Commons Health Committee. The influence of the pharmaceutical industry. Fourth Report of Session 2004–2005. London: Stationery Office, 2005. Disponibile in: www.publications.parliament.uk/pa/cm200405/cmselect/ cmhealth/42/42.pdf [accessed 1 January 2006]. 111 MRC announces plans for strengthening UK clinical research. MRC Network, Summer 2005. 112 Department of Health. Best research for best health: a new national health research strategy. London: Stationery Office, 2006. Disponibile in: www.dh.gov.uk/research 113 Cochrane Injuries Group Albumin Reviewers. Human albumin administration in critically ill patients: systematic review of randomised controlled trials. British Medical Journal 1998;317:235–40. 114 Finfer S, Bellomo R, Bryce N, et al (SAFE Study Investigators). A comparison of albumin and saline for fluid resuscitation in the intensive care unit. New England Journal of Medicine 2004;350:2247–56. 115 Tallon D, Chard J, Dieppe P. Relation between agendas of the research community and the research consumer. Lancet 2000;355:2037–40. 116 Hanley B, Truesdale A, King A, et al. Involving consumers in designing, conducting, and interpreting randomised controlled trials: questionnaire survey. British Medical Journal 2001;322:519–23. 117 Oliver S, Clarke-Jones L, Rees R, et al. Involving consumers in research and development agenda setting for the NHS: developing an evidence-based approach. Health Technology Assessment 2004;8:no.15. 118 Koops L, Lindley RI. Thrombolysis for acute ischaemic stroke: consumer involvement in design of new randomised controlled trial. British Medical Journal 2002;325:415–7. 119 Thornton H, Edwards A, Elwyn G. Evolving the multiple roles of ‘patients’ in healthcare research: reflections after involvement in a trial of shared decision-making. Health Expectations 2003;6:189–97. 120 Chalmers I. Minimising harm and maximising benefit during innovation in healthcare: controlled or uncontrolled experimentation? Birth 1986;13;155–64. 121 Kushner R. Breast cancer: a personal history and an investigative report. New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1975.
  • 159. Bibliografia 137 122 Lerner BH. The breast cancer wars: hope, fear, and the pursuit of a cure in twentieth-century America. New York: Oxford University Press, 2003. 123 Faulder C. Always a woman: a practical guide to living with breast surgery. (Pubblicato d’intesa con la Breast Care and Mastectomy Association). London: Thorsons, 1992, pp28–9;73;164–6. 124 Breast Cancer Care. Some of the most memorable events and milestones in our history. Disponibile in: http://80.175.42.169/content.php?page_id=1338 [accessed 8 December 2005]. 125 Institute of Medical Ethics Working Party on the ethical implications of AIDS: AIDS, ethics, and clinical trials. British Medical Journal 1992;305:699–701. 126 Thornton H. The patient’s role in research. [Relazione alla The Lancet ‘Challenge of Breast Cancer’ Conference, Brugge, April 1994.] In: Health Committee Third Report. Breast cancer services. Volume II. Minutes of evidence and appendices. London: HMSO, July 1995, 112–4. 127 Concorde Coordinating Committee. Concorde: MRC/ANRS randomised doubleblind controlled trial of immediate and deferred zidovudine in symptom-free HIV infection. Lancet 1994;343:871–81. 128 Royal Courts of Justice. In the High Court of Justice, Family Division. Neutral citation [2002] EWHC 2734 (Fam). Cases nos: FD02p01866 & FD02p01867. 11 December 2002. 129 Herceptin and early breast cancer: a moment for caution [Editorial]. Lancet 2005;366:1673. 130 Hanley B, Truesdale A, King A, et al. Involving consumers in designing, conducting and interpreting randomised controlled trials: questionnaire survey. British Medical Journal 2001, 322:519–23. 131 Rice GPA, Incorvaia B, Munari L, et al. Interferon in relapsing-remitting multiple sclerosis. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2001, Issue 4. Art. No.: CD002002. Disponibile in: www.thecochranelibrary.com [accessed 3 January 2006]. 132 Herxheimer A. Relationships between the pharmaceutical industry and patients’ organisations. British Medical Journal 2003;326:1208–10. 133 Consumers’ Association. Who’s injecting the cash? Which? 2003, April, pp 24–5. 134 Thornton H, Edwards A, Elwyn G. Evolving the multiple roles of ‘patients’ in healthcare research: reflections after involvement in a trial of shared decision-making. Health Expectations 2003;6;189–97. 135 Koops L, Lindley RI. Thrombolysis for acute ischaemic stroke: consumer involvement in design of new randomised controlled trial. British Medical Journal 2002;325:415–7. 136 Hamdy FC. The ProtecT Study (Prostate testing for cancer and Treatment), 2001. Disponibile in: www.shef.ac.uk/dcss/medical/urology/research/topic2.html [accessed 8 December 2005]. 137 Oliver S, Clarke-Jones L, Rees R, et al. Involving consumers in research and development agenda setting for the NHS: developing an evidence-based approach. Health Technology Assessment 2004;8:no.15.
  • 160. 138 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA 138 Minot GR, Murphy WP. Treatment of pernicious anemia by a special diet. Journal of the American Medical Association 1926;87:470–6. 139 House of Commons Health Committee. The influence of the pharmaceutical industry. Fourth Report of Session 2004–05. London: Stationery Office, 2005. Disponibile in: www.publications.parliament.uk/pa/cm200405/cmselect/ cmhealth/42/42.pdf [accessed 1 January 2006].
  • 161. RISORSE ADDIZIONALI COMPRENDERE GLI STUDI CLINICI E LA CORRETTEZZA DELLE SPERIMENTAZIONI Ministero della Salute www.ministerosalute.it/ricsan/ricerca.jsp Riporta informazioni sulla tipologia della ricerca finanziata dal Ministero nelle strutture del SSN e negli Istituti di Ricovero e Cura a carattere Scientifico. Agenzia Italiana del Farmaco www.agenziafarmaco.it Informa sull’attività di farmacovigilanza, documentazione e sostegno alla ricerca finanziata nell’ambito del programma “Ricerca indipen- dente sul farmaco”. Attenti alle bufale www.attentiallebufale.it Un sito che vuole mettere in guardia dai “cattivi maestri” che altera- no o semplificano le evidenze in medicina. James Lind Library www.jameslindlibrary.org MRC Clinical Trial Unit www.ctu.mrc.ac.uk/Trialinfo.asp
  • 162. 140 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA NHS National Library for Health www.library.nhs.uk/trials US National Cancer Institute http://cancertrials.nci.nih.gov/clinicaltrials/learning UK Clinical Research Collaboration Una guida – Understanding Clinical Trials – è disponibile sul sito www.ukcrc.org Critical Appraisal Skills Programme www.phru.nhs.uk/casp/casp.htm Organizza workshop e fornisce informazioni online e altre risorse per aiutare le persone a sviluppare le capacità per trovare e valutare le prove scientifiche. INFORMAZIONI SUGLI EFFETTI DEI TRATTAMENTI Clinical Evidence www.library.nhs.uk Una pubblicazione online del BMJ Publishing Group che può essere consultata gratuitamente in Inghilterra, Galles e Scozia attraverso la National Library of Health. http://aifa.clinev.it è il sito che contiene la traduzione italiana di Clinical Evidence ed è gratuitamente disponibile per tutti i medici ita- liani in formato elettronico e cartaceo. Anche da questa fonte è stato sviluppato il Progetto ECCE, un programma di educazione medica continua a distanza gratuito rivolto a medici ed altri operatori sanita- ri in Italia (www.aifa.progettoecce.it). The Cochrane Library www.thecochranelibrary.com Una risorsa online che include The Cochrane Database of Systematic Reviews, vale a dire una raccolta di sintesi di evidenze basate su studi clinici condotti con metodo rigoroso. Informed Health Online www.informedhealthonline.org Un sito web per i consumatori basato sulle prove di efficacia, prodot-
  • 163. Risorse addizionali 141 to in inglese e tedesco dal German Institute for Quality and Efficiency in Health Care. ESSERE COINVOLTI NELLA RICERCA Cochrane Consumer Network www.cochrane.org/consumers/homepage.htm Promuove i suggerimenti dei pazienti alle revisioni sistematiche dei trattamenti preparate dalla Cochrane Collaboration. NHS Health Technology Assessment Programme www.ncchta.org/consumers/index.htm Coinvolge gli utilizzatori dei servizi in tutte le fasi delle sue attività. UK Clinical Research Network www.ukcrn.org.uk Cerca di coinvolgere i pazienti nella definizione delle priorità e nel disegno degli studi clinici. James Lind Alliance www.lindalliance.org Promuove collaborazioni fra pazienti e clinici per identificare le priorità su importanti incertezze sugli effetti dei trattamenti. Current Controlled Trials www.controlled-trials.com Un meta-registro liberamente consultabile contenente informazioni sugli studi clinici controllati in corso. INVOLVE (già Consumers in NHS Research) www.invo.org.uk Promuove il coinvolgimento del pubblico nella ricerca sanitaria. Partecipasalute www.partecipasalute.it Un sito per orientare i pazienti, i cittadini e le loro associazioni in ambito sanitario riguardo le scelte in medicina.
  • 164. 142 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA
  • 165. INDICE ANALITICO A cecità 1, 6, 45 acido gamma linoleico (GLA) 11 cecità dei fiumi 1 Agenzia Italiana del Farmaco chemioterapia 19, 22, 23, 26, 64 (AIFA) 110, 115 cancro della mammella 12, 19, AIDS 79, 106-108 64, 99, 102, 110 albumina 118 chirurgia amniocentesi 27, 66, 103-106 chirurgia intestinale 39, 84 anemia perniciosa 59-60, 122 endoarteriectomia carotidea 77-78 anestesia 33, 63 mastectomia 19, 20 antibiotici 30, 39, 57, 84 citochine 14, 15 aritmie 9 colesterolo 48 artrite 38, 86 comitati etici IX, 70-74, 84, 125 asma 6, 7, 20 confronti tra terapie 37-43 aspettativa di vita 2, 29, 58 interpretazione 46-49 aspirina 2, 47, 50 Controlled-trials.com 52 azatioprina 112, 115 controllo del dolore 38, 81 cotrimossazolo 79-80 B barbiturici 5 D batteri 13-14 danno cerebrale 9, 67, 84 betabloccanti 6 dente del giudizio 31 Biomed Central 52 depressione 6-7 diabete 38, 57, 113 C dietilstilbestrolo 4-5, 38 calcoli vescicali 42 difterite 1 CancerBACUP 106 discinesia tardiva 80 cancro della mammella 12, 19, 64, 99, disinfezione 2 107 DNA 88 chemioterapia 19, 21, 23, 26, 64 terapia ormonale sostituiva 10, E 12, 42 eclampsia 78-79, 93-94 chirurgia 18-19, 20 eczema 11-13, 53 cancro dei polmoni 89 effetti collaterali 4-8 cancro della prostata 26, 61, 62, 116 dietilstilbestrolo 5 cancro vaginale 5 magnesio solfato 78 caso, ruolo del 46-47 neurolettici (antipsicotici) 80
  • 166. 144 COME SAPERE SE UNA CURA FUNZIONA practololo 7 insufficienza respiratoria 66 talidomide 5-7 insulina 38, 57-58 natalizumab 114 interferoni 111-115 zidovudina 108 intervalli di confidenza 47-49 endarteriectomia carotidea 77-78 iperplasia prostatica benigna 60 errore sistematico 52, 72, 82, 83 ipertensione 1, 78 mascheramento 44-45 pubblicazione dei risultati 13, 53, 82 J endotossine 13-15 James Lind Library XXI, 36, 139 epidurale 81 erisipela 59 L errori sistematici nella ricerca 52-53, leucemia 1, 59 82-83 linfedema 64 età dei pazienti 42 M F magnesio solfato 78 farmaci me-too 86-87 mal di schiena 102, 104 farmaci, registrazione 47, 87 malattia della mucca pazza 108 febbre puerperale 57, 59 malattia di Creutzfeld-Jakob 108 fibrodisplasia retrolenticolare 6 manifesto per una adeguata fibrosi cistica 29-30, 88 sperimentazione 121-127 fisioterapia 30, 86, 101 mastectomia 19, 20, 102 Food and Drug Administration 114 Medical Research Council 45, 95, 103-105 G meningite 57, 59 General Medical Council 68 menopausa 10-12, 50 glatiramer 109-110 mesmerismo 44 gravidanza 1, 4, 5, 6, 78, 93, 103 metanalisi 54 mieloma 102 H morte in culla 8-10 HIV (virus immunodeficienza acquisita umana) 79-80, 106 N nascita 4, 5, 48 I natalizumab 114 ibuprofene 86 nati prematuri 6, 54 ictus 2, 3, 9-12, 39, 42-43, 56, 77-78, 83, 84, neuroblastoma 25-26 91, 93, 117, 123 neurolettici (antipsicotici) 80 imaging cerebrale 113 nimodipina 9-10, 40 imatinib 59 incertezza IX, 60-69, 70-75, 77, 91, 99, O 102, 121-125 olio di borragine 11, 13 industria farmaceutica 6, 28, 41, 86, olio di enotera 11-13, 53 87, 92-97, 121-127 oppiacei 38 infarto miocardio 9-11, 39, 47-51 osteoporosi 10, 12
  • 167. Indice analitico 145 P S pazienti, ruolo nella ricerca 99-120 scarlattina 60 penicillina 58-59 schizofrenia 1, 48, 80 peritonite sclerotizzante 7 sclerosi multipla 45, 111-115 piaghe da decubito 32 scorbuto 2, 3, 36, 42 placebo 44-45, 78-79, 83-87 screening 23-31, 61, 64 Plos Medicine 52 shock settico 13-15 poliomielite 1 SIDS (Sindrome Morte Improvvisa polmonite 59, 79 Neonato) 8-10 PPS (pentosano polisolfato) 109 significatività statistica 47 practololo 6-8 sindrome da distress respiratorio 83 pre-eclampsia 78-79, 93 sindrome di Down 27 prelievo dei villi coriali 66, 103 sonno del bambino 8-10 protesi articolare 2, 60 sordità 7 protocolli 46, 53, 82 sostituzione dell’anca 59-60 di ricerca 46 steroidi 11, 54, 83 psoriasi 89-90 streptomicina 59 puntura lombare 33 sulfonamidi 57-59 Q T qualità della vita 2, 72 talidomide 5-7, 50 terapia ormonale sostitutiva (TOS) R 10-12, 48 radioterapia 18-19, 64, 91 tonsillectomia 61-63 raffreddore 45, 123 trombi arti inferiori 52-58 randomizzazione 70, 72 ricerca 85-86, 88-89, 92-97, 121-127 U AIDS 107-108 UNICEF 80 artrite 86 coinvolgimento dei pazienti 99- V 127 Variabilità geografica delle terapie industria farmaceutica 86-87, 92- 61 96, 110-127 Vitamina B12 59, 121-123 inutile 80-84 Vitamina C 2 ricerca di laboratorio 88, 92 Vigile attesa nel cancro prostatico ricerca in gravidanza 78-79, 81-82 91-92 riposo a letto 32 risonanza magnetica (RM) 1-2 Z riviste elettroniche 52 Zidovudina 108
  • 168. Finito di stampare nel mese di settembre 2007 dalle Arti Grafiche Tris s.r.l. Via delle Case Rosse, 23 - 00131 Roma per conto de Il Pensiero Scientifico Editore, Roma